Fra le promesse elettorali che hanno fatto vincere M5S e Lega ci sono il tanto chiacchierato reddito di cittadinanza e lo smantellamento della Legge Fornero. Sono misure che hanno lo scopo di intervenire su settori precisi della società: da una parte la fascia bassa della popolazione – quei 5 milioni di poveri, disoccupati o sottoccupati che vivono con poche centinaia di euro al mese – dall’altra i lavoratori prossimi alla pensione. La speranza è quella di stimolare un mercato del lavoro stagnante, ma ancora una volta il governo dimostra di essere miope, credendo di poter incidere sul mercato del lavoro agendo per compartimenti stagni, come se una o due misure su sacche ben delimitate della popolazione bastassero per influire su un ecosistema complesso, e non accorgendosi che c’è un’altra situazione critica, un’emergenza che riguarda chi si è appena affacciato al mondo del lavoro, ovvero i giovani laureati.
Eppure i lavoratori del futuro mandano segnali in equivocabili: i laureati hanno cominciato un vero e proprio esodo. Secondo l’Istat negli ultimi cinque anni sono circa 244mila i giovani con più di 25 anni che si sono trasferiti all’estero, di cui il 64% possiede un diploma o una laurea. Dal 2013 al 2017 il numero degli emigrati laureati è salito del 41%. Nel solo 2017 i laureati a fare i bagagli sono stati 28mila, il 4% in più rispetto al 2016. L’Italia perde il proprio capitale umano e si priva delle risorse di più alto profilo, e così il rilancio diventa ancora più difficile. Qualche anno fa AlmaLaurea ha calcolato che nel nostro Paese quattro manager su dieci non hanno una laurea. Sembra che l’Italia voglia fare a meno dei saperi, sia nel mondo del lavoro, sia nella politica. D’altronde anche i nostri vicepremier Salvini e Di Maio non sono laureati. Forse è per questo che loro in Italia ci sono rimasti, e purtroppo ora ci governano.
La politica dovrebbe sapere bene che la fuga di cervelli è in primis un danno per le casse dello Stato. L’Italia spende poco per l’istruzione: secondo le stime dell’Ocse il 28% rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea ma, nonostante gli investimenti risicati – circa il 4% del Pil – questi soldi si perdono se una volta completati gli studi il laureato decide di lasciare il Paese. Si calcola che il percorso di studi di un singolo cittadino costi allo Stato circa 77mila euro fino al diploma, una spesa che cresce fino a 158mila euro per un laureato in triennale, e arriva a 170mila euro per un laureato in magistrale. Il costo di un dottore di ricerca è invece di 228mila euro. Se rapportiamo questa spesa ai 28mila laureati che lasciano ogni anno l’Italia, possiamo stimare che l’emigrazione dei professionisti costi ogni anno allo Stato circa 4,5 miliardi di euro. Praticamente metà della manovra finanziaria predisposta dal M5S per il reddito di cittadinanza.
D’altronde il leitmotiv “in Italia non c’è lavoro” non è uno stereotipo, o un mantra da italiano piagnone, ma il reale stato delle cose. Una situazione che rischia di aggravarsi di mese in mese. Nell’ultimo trimestre l’Italia ha perso un decimale nel Pil, una battuta d’arresto che non si verificava dal 2014. Ciò si traduce in perdita di fatturato per le aziende e di migliaia di posti di lavoro. L’Istat ha rilevato che i disoccupati nel mese di ottobre erano 2 milioni e 746mila, ovvero 64mila in più rispetto al mese precedente. La disoccupazione giovanile si attesta al 32,5%. Quest’anno in 168mila, fra i 35 e i 49 anni, hanno perso il lavoro: fra i dipendenti in 140mila non hanno più il tempo indeterminato e 296mila sono stati assunti a tempo determinato. In una situazione del genere persino abbandonare tutto con il rischio di trovarsi in difficoltà a chilometri da casa e senza amici o familiari vicini risulta essere la soluzione più ragionevole, o comunque più lungimirante di restare in un Paese che non sa valorizzare le proprie risorse umane.
Con queste prospettive lavorative, fare l’università per molti non appare più una scelta appetibile e questo impoverisce il Paese non solo sul piano delle competenze ma soprattutto della competitività. Secondo l’Istat, l’Italia è penultima in Europa per livello d’istruzione: solo il 26,9% degli italiani tra i 30 e i 34 anni ha portato a termine un percorso di studi di terzo livello o equivalente, e poco più del 60% tra i 25 e i 64 possiede un diploma. Un dato che si unisce all’alta percentuale di giovani che decide di abbandonare gli studi: nel solo 2017 il 14% degli studenti tra i 18 e i 24 anni ha deciso di interrompere la propria formazione. Sono statistiche che potrebbero lasciare indifferenti se non rapportate alla media Ue, dove per i titoli secondari è del 77,5% per la fascia dai 25 anni ai 64, e in ambito universitario quasi del 40%, per la fascia dai 30 ai 34. Anche lungo la stessa Penisola, si registra un divario interno tra Nord e Sud: dal 30% dei laureati in Settentrione si passa ad appena il 21% del Meridione. Ad aggravare il quadro sconfortante ci pensa anche la statistica sui NEET: il 25,7 % dei nostri giovani non è occupato, non studia e non cerca lavoro mentre la media europea si attesta intorno al 14,3%. Ma a questi ragazzi non peserà troppo la mancata iscrizione all’università: è probabile che il loro vicino di casa sia un neolaureato con il massimo dei voti, eppure altrettanto disoccupato.
Qualche anno fa i giovani italiani sono stati chiamati bamboccioni, additando il presunto attaccamento alle mura familiari. Ma risulta difficile andare a vivere da soli se non si ha nemmeno un lavoro. Elsa Fornero, qualche tempo dopo, ha poi rincarato la dose definendoli “choosy”. Anche questa uscita si è rivelata infelice: non sono i giovani a disprezzare il lavoro, è il mercato del lavoro che fatica a predisporre opportunità per i professionisti appena formati. L’Ocse ha calcolato che nei nostri confini solo il 64% dei laureati fra i 25 e i 34 anni ha un lavoro, a fronte di una media europea dell’83%. La situazione è drammatica soprattutto per le lauree umanistiche: se il tasso di occupazione per i laureati in ingegneria è dell’85%, e quello delle materie economico-giuridiche è dell’81%, per loro la percentuale scende al 74%.
Per molti neolaureati serve un vero e proprio miracolo per trovare un impiego. Se ne è accorto persino l’ex ministro del Lavoro Giuliano Poletti che, con estremo cinismo, ha affermato che l’unico modo per trovare occupazione è giocare a calcetto con i datori di lavoro. Un riferimento non troppo velato alla raccomandazione che continua a ripresentarsi attraverso il nuovo mito del “crearsi la propria rete di contatti”.
Non giocano a calcetto i giovani italiani, fanno molto di più: acquistano un volo di sola andata per destinazioni più sicure, anche se c’è il rischio che prima di trovare la professione per cui hanno studiato dovranno fare un lavoro di grado inferiore alla loro formazione. Non importa se si scontreranno con il problema della lingua diversa, con le variabili di una cultura inevitabilmente distante dalla loro, o con la nostalgia di casa: anche una situazione di disagio più o meno temporaneo sembra più proficua del precariato cronico del nostro Paese. Perché ormai c’è il sentimento diffuso che in Italia sia impossibile migliorare, fra le manovre di una classe dirigente incompetente e lo spettro della recessione a pendere sulle nostre teste. L’Italia si impoverisce di risorse economiche e umane, perché c’è chi a giusta ragione preferisce mettere mano al passaporto, piuttosto che affidarsi a un’improbabile tessera da 780 euro.