La laurea è un traguardo importante, un investimento economico spesso interamente a carico delle famiglie e, teoricamente, la porta d’ingresso per il mondo del lavoro. Dopo anni di rette universitarie o canoni d’affitto da fuorisede ci si aspetterebbe che l’investimento fosse ammortizzato una volta trovata un’occupazione. Si gioisce per il semplice fatto di aver trovato lavoro in un Paese dall’alto tasso di disoccupazione come l’Italia, ma se si fanno due conti ci si rende conto in fretta che l’investimento per il titolo di studio è in realtà un debito che non verrà mai estinto con i propri genitori, un vero e proprio investimento a perdere, operato per il solo fatto di garantire un futuro più o meno decoroso ai propri figli.
Una ricerca condotta sui dati Istat relativi agli stipendi orari lordi dei lavoratori dipendenti nel 2016 ha costruito il seguente scenario: A inizia a lavorare subito dopo il diploma, B invece subito dopo la laurea triennale. I due lavorano per lo stesso monte di ore annuali: 8 ore al giorno per cinque giorni settimanali, per un totale di 220 giorni all’anno. La paga oraria lorda è a favore del laureato, la media nazionale segna 2.27 euro in più all’ora. Se i due si trovano in una grande città come Milano o Roma, il laureato ci metterà una decina d’anni a ripagare quel ritardo economico nei confronti del diplomato (che comunque non sono pochi), ma se B lavora in una provincia del Sud potranno passare decenni, e non avrà ancora colmato quei tre anni di buste paga che un diplomato ha ricevuto in più. E questo perché il differenziale di stipendio a suo favore sarà così risicato da rendere pressoché inutile il fatto che B abbia preso una laurea per avere un miglior trattamento economico.
Da questa simulazione vengono fuori dati paradossali: a B, se vivesse a Viterbo, servirebbero 77 anni di stipendio per ripagare il ritardo nei confronti di A, 65 se vivesse a Imperia, 56 a Campobasso. Se poi pensiamo che è comunque difficile trovare lavoro dopo una semplice triennale la situazione risulta grottesca. Con una magistrale a B serviranno 62 anni di stipendio a Foggia, 54 a Messina, e 83 a Nuoro, per colmare il divario di 5 anni di lavoro che lo separano da A. Le statistiche delle sopracitate Viterbo, Imperia e Campobasso esorbitano invece a 128 anni, 104 e 94.
Questo significa che il valore effettivo della laurea è ormai molto inferiore rispetto a quanto ci si potrebbe immaginare. L’espressione “pezzo di carta”, usata per indicare i titoli di studio, non è mai stata così appropriata come ora, perché sul piano economico la laurea porta vantaggi di poco conto. Lo segnala anche l’Ocse nel report annuale Education at glance: se è vero che in Italia un laureato prende in media il 39% in più rispetto a un diplomato, è altrettanto vero che questa percentuale si riduce al 19% se prendiamo in considerazione la fascia dei 25-34 anni. Sono percentuali molto al di sotto della media: nei Paesi Ocse i laureati guadagnano il 57% in più dei diplomati, e il 38% in più nella fascia 25-34 anni. E a questo bisogna aggiungere il sistematico divario tra gli stipendi degli uomini e delle donne. Le laureate nel nostro Paese prendono il 30% in meno rispetto ai colleghi, mentre la media Ocse è del 25% in meno, una percentuale che ha il suo picco – del 36% – sulla fascia d’età che va dai 35 ai 44 anni.
Per rendita economica della laurea siamo quartultimi in Europa, seguiti solo da Belgio, Lettonia ed Estonia. Sempre secondo l’Ocse, a fine carriera in Italia un laureato ha guadagnato 190mila dollari in più rispetto a un diplomato, mentre una laureata solo 154mila in più rispetto a una diplomata. Mentre la media Ocse si attesta sui 290mila dollari in più, e Germania e Francia sfondano il tetto dei 300.
I nostri studenti non solo devono fare i conti con un basso rendimento dei titoli di studio, ma come se non bastasse devo rapportarsi a un percorso universitario tutt’altro che gratuito, se paragonato a quello di altri Paesi europei, dove viene quasi interamente preso a carico dallo Stato. Le tasse (soprattutto quelle di determinate facoltà) costano caro e pesano sul bilancio delle famiglie. È di nuovo il report dell’Ocse a segnalare come le rette italiane siano fra le più alte d’Europa, inferiori solo a quelle del Regno Unito. Tasse elevate che non vengono peraltro mitigate a dovere un adeguato sistema di borse di studio. Ogni anno lo Stato fa fatica a coprire la spesa delle borse di studio per gli aventi diritto. L’ultimo caso eclatante è stato quello dell’Università di Palermo dell’ottobre scorso, quando gli studenti sono scesi in piazza per denunciare che l’ateneo aveva coperto solo il 26% delle borse promesse. A questo si aggiungono gli ulteriori costi che devono sostenere le famiglie degli studenti fuorisede, che devono spendere centinaia di euro per una stanza in un’altra città, e se le città sono grossi centri come Roma, Milano, Torino, o città universitarie come Siena, Pisa e Bologna, l’esborso va dai 400 agli oltre 600 euro al mese. Ed è davvero difficile che questi giovani possano trovare posto in uno studentato, dato che in Italia solo il 3% della popolazione studentesca si vede assegnato un alloggio, contro il 18% della media europea. D’altronde i posti letto in studentato sono solo 48mila, mentre in Paesi come la Germania e la Francia sfiorano le 200mila unità.
Se la laurea rende poco o nulla e per di più è il compimento di un percorso così oneroso, non sorprende che i giovani non siano invogliati a intraprendere un tradizionale percorso accademico, magari preferendo investire in master privati professionalizzanti. Sono molti, poi, coloro che decidono di fermarsi al diploma, persuasi che un titolo di studio in più o in meno non faccia alcuna differenza. Secondo Almalaurea negli ultimi dieci anni si sono perse 40mila matricole, praticamente un ateneo di medie dimensioni. Le maggiori criticità sono nelle regioni del Sud, in cui il tasso dei giovani che si ferma al diploma è del 26%, uno su quattro considera infatti completamente inutile investire sui propri studi. D’altronde Almalaurea evidenzia che lo studio è appannaggio di chi ne ha le possibilità economiche o la cui famiglia dà un alto valore allo studio: il 33% dei laureati proviene da famiglie della classe impiegatizia, il 22% ha genitori liberi professionisti, e un altro 21% proviene da famiglie di elevata estrazione sociale.
Eppure, se già è un’impresa accedere al mondo del lavoro con la laurea, con il solo diploma risulta ancora più difficile, a differenza di quanto molti ragazzi potrebbero essere portati a pensare. Per questo molti, dopo aver tentato invano, si demoralizzano, e vedono preclusa sia la strada dell’università – onerosa e percepita come poco remunerativa – sia l’accidentata strada del mondo del lavoro. Le percentuali dello sconforto ci dicono che il 23% dei giovani italiani (dai venti ai trent’anni) è un neet – ovvero una persona che non studia né cerca lavoro – e questo è un dato sensibilmente superiore alla media europea, che si attesta al 12%. La maggior parte dei neet ha dai 20 ai 24 anni (38%) e dai 25 ai 29 anni (47%), e le regioni in cui i tassi sono più alti sono Sicilia, Calabria e Campania, proprio quelle regioni del Sud che vedono salari bassi, minor rendimento dei titoli di studio e maggior abbandono del percorso universitario.
Ci troviamo in una situazione paradossale: da una parte occorre incentivare i giovani a studiare, perché ne va della loro formazione personale e perché, nonostante il peso economico che comporta il percorso di laurea, rappresenta sempre un vantaggio, seppur risicato; dall’altro è doveroso che i laureati vedano il proprio titolo di studio riconosciuto sul piano economico, in modo che la fatica fatta non sia vana. Al giorno d’oggi sembra che la laurea sia un attestato da incorniciare e appendere alla parete, una medaglia dal valore nominale e non effettivo. I giovani laureati la guardano nella casa dei propri genitori, dove ancora vivono perché non se ne possono permettere un’altra, o nella casa che gli hanno comprato i loro genitori, perché loro non se ne sarebbero mai potuta permettere una, e nemmeno un mutuo, e si chiedono se ne sia valsa la pena. E forse saranno tentati anche loro, come altre migliaia di neet e non laureati, che in fondo, visto il medesimo destino di disoccupazione, forse era meglio fermarsi al diploma.