Sono migliaia nel nostro Paese, ragazzi e ragazze come tutti gli altri. Parlano italiano, magari anche un dialetto, sono nati e cresciuti qui, dove hanno frequentato le scuole dell’obbligo. Fanno parte del tessuto sociale delle proprie comunità e sono uguali a tutti i loro coetanei, ma i loro genitori non sono italiani e per questo sono senza cittadinanza. Stranieri in casa propria: questa è la condizione in cui vivono più di 800mila ragazze e ragazzi in tutta Italia. Giovani italiani de facto a cui manca soltanto un pezzo di carta affinché venga riconosciuto loro ciò che è realtà già nei fatti.
Durante la scorsa legislatura, il governo Gentiloni arrivò a un passo dall’approvazione della riforma sulla cittadinanza. Poi mancò il coraggio per superare il sentimento xenofobo che si era diffuso tra gli italiani; il governo fu poco lungimirante e il Pd si piegò alla paura di perdere voti schierandosi a favore di una misura che era stata dipinta come “pro-immigrazione”, preferendo con i decreti Minniti il tentativo di cavalcare la crescente fobia per i migranti e le Ong. Ora che il governo è cambiato, potrebbe esserci l’occasione di rimediare. La speranza è debole, visto che alcuni all’interno del Pd oggi fanno le stesse obiezioni di meno di due anni fa; evidentemente non hanno imparato la lezione delle urne del 4 marzo scorso, che ha insegnato quanto sia inutile inseguire l’elettorato leghista facendo leva sul sentimento xenofobo di alcuni strati della popolazione perché, tra l’originale e la copia, gli elettori sceglieranno sempre il primo – come suggerito anche da alcuni dirigenti di sinistra.
La cittadinanza è quella condizione giuridica che rende gli individui cittadini appartenenti a uno Stato, con tutti i diritti e doveri che ne derivano. Diverse idee di cittadinanza creano diverse idee di società politica. Ci sono due grandi categorie di idee sulla cittadinanza e a queste corrispondono due scuole legislative: da una parte c’è la visione ottocentesca di cittadinanza come legame di sangue e discendenza da un’etnia nazionale omogenea, che trova espressione nello ius sanguinis, ovvero nei tipi di legge di cittadinanza che la assegnano a un individuo di uno Stato in base a quella dei genitori; dall’altra c’è l’idea di cittadinanza intesa come cardine di una comunità valoriale che si riconosce in leggi e principi condivisi, sanciti dalla Costituzione. A questa concezione corrisponde lo ius soli, il principio giuridico in base al quale è cittadino di uno Stato colui che nasce all’interno dei suoi confini.
Normalmente, gli Stati adottano una soluzione che è una sorta di via di mezzo tra questi due principi giuridici. Per rimanere nei confini europei, in Francia ad esempio ogni bambino nato da genitori stranieri diventa cittadino al 18esimo anno di età se ha vissuto stabilmente nel Paese per almeno cinque anni. Se sei nato in Spagna, invece, e i tuoi genitori sono stranieri, basta un anno di residenza per essere cittadino. Nel Regno Unito è considerato tale chi nasce da almeno un genitore con un permesso di soggiorno permanente. In Svezia, uno dei Paesi più vicino al sistema dello ius sanguinis puro insieme all’Austria, la legge prevede la cittadinanza per i minori che hanno vissuto almeno cinque anni entro i confini nazionali.
In Italia, la legge che regola la cittadinanza è la 91 del 1992, ed è probabilmente una delle più obsolete di tutta Europa. Come riporta il sito del ministero degli Interni, si basa sullo ius sanguinis: è italiano chi ha sangue italiano, ovvero chi è nato o è stato adottato da genitori della Repubblica. Gli stranieri maggiorenni possono richiedere la cittadinanza dopo 10 anni di residenza nel Paese e solo se in possesso di determinati requisiti, come un reddito sufficiente al sostentamento e nessun precedente penale. In alternativa, vi è anche la strada del matrimonio con un italiano: in tal caso, la cittadinanza viene concessa dopo due anni.
Il problema principale sorge soprattutto per i giovani. Come spiegato in un resoconto dell’Unicef, un minorenne straniero può divenire cittadino italiano in due modi. Il primo è facile, ma raro: i genitori devono ottenere tale status giuridico e, automaticamente, lo otterrà anche il minore. L’alternativa è ben più frequente, ma anche più problematica ed è il motivo per cui almeno 800mila minori residenti in Italia aspettano una riforma: per ottenere la cittadinanza è necessario essere nati in Italia, attestare la residenza legale (mai interrotta dalla nascita) nel nostro Paese e aver fatto richiesta per diventare cittadini una volta compiuti i 18 anni ed entro i 19. Il riconoscimento della permanenza sul territorio italiano può però essere compromesso da vari fattori, come la perdita di lavoro dei genitori o la diminuzione del loro reddito. Se i genitori non riescono a rinnovare il permesso di soggiorno, infatti, il destino di un giovane che ha sempre vissuto in Italia può essere quello di dover lasciare il Paese.
Per i loro primi 18 anni di vita, lo status giuridico dei giovani italiani de facto, ma non sulla carta, è un permesso di soggiorno temporaneo che deve essere costantemente rinnovato. Questo garantisce i diritti fondamentali, come quelli alla salute e all’istruzione, ma non permette di viaggiare durante il periodo di rilascio e di rinnovo né di iscriversi a sport agonistici, ad esempio. Superati i 18 anni non permette nemmeno di votare. Oltre a tutte le complicazioni burocratiche bisogna poi considerare il fattore psicologico, il cortocircuito identitario che si va a creare tra la percezione di sé come italiano e una condizione giuridica dalla quale non ci si sente assolutamente rappresentati. L’attuale legge tende a marginalizzare coloro che sono nati in Italia da genitori stranieri, invece che integrarli nel tessuto sociale e culturale del Paese. Centinaia di migliaia di giovani sono costretti in un limbo, e si sentono esclusi sia nel Paese in cui sono nati e cresciuti, sia in quello di origine dei genitori, dove magari non sono mai stati e di cui parlano poco e male la lingua. Oggi in Italia vivono centinaia di migliaia di giovani figli di due mondi, ma senza nessuna appartenenza.
Lo ius culturae contenuto nella riforma della cittadinanza naufragata durante l’ultima legislatura potrebbe risolvere almeno in parte questi problemi. Il principio è una via di mezzo tra lo ius sanguinis e lo ius soli. Come suggerisce il nome, il concetto alla base di questa legge è la cultura: la cittadinanza non è più intesa come un’ottocentesca discendenza di sangue, ma come comunità di valori e di diritti. La legge prevedeva la possibilità, per i minorenni stranieri nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni, di richiedere la cittadinanza dopo aver frequentato le scuole italiane per cinque anni o aver concluso almeno un ciclo scolastico. Per i ragazzi nati all’estero e arrivati dopo i 12 anni, invece, l’iter può partire dopo 6 anni e il superamento di un ciclo scolastico.
Due anni fa politici e giornali di destra hanno trasformato la riforma della cittadinanza nell’ennesimo campo di battaglia su cui far rimbalzare la loro comunicazione razzista e approssimativa – quando non completamente falsa. Hanno così convinto una parte dell’opinione pubblica che lo ius culturae vorrebbe dire “regalare la cittadinanza” ai migranti, anche se in realtà si tratta dell’esatto contrario. È con l’attuale ius sanguinis che la cittadinanza viene “data per scontata” da milioni di giovani italiani che hanno l’unico merito, se così si può definire, di avere la giusta discendenza di sangue. Lo ius culturae presuppone invece un percorso scolastico, formativo e culturale per ottenere la cittadinanza: in questo modo essere cittadini, anche dal punto di vista simbolico, non è qualcosa di naturale e meccanico, ma una condizione giuridica che viene raggiunta dopo anni di integrazione nel sistema culturale e valoriale italiano.
Si può certamente discutere sui dettagli, ma ci sono due aspetti centrali nello ius culturae che lo rendono una svolta necessaria: in primo luogo dà dignità e maggiore possibilità di integrazione sociale a migliaia di ragazzi e ragazze, correggendo un’ingiustizia da anni sotto gli occhi di tutti, come dimostra la nascita di numerose associazioni. In secondo luogo, sancisce un principio fondamentale: non si è italiani solo in base ai propri antenati, ma si è italiani perché ci si riconosce nella cultura, nei principi e nei valori del nostro Paese, messi nero su bianco nella Costituzione repubblicana.
Lo ius sanguinis non è più adeguato a una realtà multiculturale come ormai de facto è quella italiana, con l’8,7 % di stranieri sul totale della popolazione. La nostra classe politica ha l’occasione di dimostrarsi lungimirante e di mettere la giustizia e il bene del Paese davanti al tornaconto elettorale. Per farlo serve una grande dose di coraggio e di onestà nei confronti dei cittadini. Il rischio di non approvare questa legge è di relegare nell’oblio dell’assenza di identità migliaia di giovani per i prossimi decenni. Non possiamo più permettercelo.