L’Accademia della Crusca ha recentemente risposto a un quesito posto da alcuni lettori sull’uso di verbi come “sedere”, “salire”/“scendere” e “uscire” in forma transitiva. In sostanza, i lettori si chiedevano se dire “uscire il cane” o “sedere il bambino” significasse avanzare irrimediabilmente verso la pubblica gogna. Il responso ha generato un casus belli. “Non vedo il motivo per proibirla e neppure, a dire il vero, per sconsigliarla,” ha detto Vittorio Coletti, generando numerose polemiche e titoli sensazionalistici. In realtà il responso della Crusca è molto meno netto di come è stato presentato. Le espressioni linguistiche sulle quali si sofferma sono quelle che semplificano il parlato, perché utilizzate in contesti informali dove si preferisce la rapidità della comunicazione all’attenzione all’uso corretto. Di conseguenza, proprio per la loro funzionalità, per l’uso attestato da lungo tempo e la diffusione su larga scala, è ammissibile utilizzare locuzioni scorrette in ambito privato e non lavorativo. Senza contare che la Crusca non “sancisce” o “legittima” un bel niente, ma si limita a studiare in modo critico i fenomeni della lingua italiana.
Ma, come insegna la storia, mentre tutti sono intenti a discutere di queste piccolezze, nessuno si accorge del vero fenomeno che sta logorando la nostra lingua. È quello che i linguisti chiamano “itanglese”, cioè, secondo il dizionario Hoepli, “la lingua italiana usata in certi contesti e ambienti, caratterizzata da un ricorso frequente e arbitrario a termini e locuzioni inglesi”. Se siete mai stati briffati in un meeting col vostro team, o avete fatto un brainstorming al fine di migliorare la user experience attraverso un upgrade del customer service, o se semplicemente ieri sera il vostro outfit era top, significa che sapete di cosa si sta parlando. L’itanglese è un miscuglio ibrido, una lingua meticcia colma di prestiti linguistici che arrivano dal magico mondo angloamericano. In ogni sistema linguistico, i prestiti sono termini presi da una lingua straniera e sono fondamentali perché riempiono un buco semantico. Essi si adattano alla grammatica della lingua che li accoglie, come “toeletta” dal francese toilette, oppure calcano la morfologia e il significato del termine straniero, come “grattacielo” che traduce alla lettera la parola skyscaper. I prestiti che sono alla base dell’itanglese sono, invece, integrali, perché non si adattano alla struttura del parlato italiano. Questo fenomeno linguistico, se fino a poco tempo fa era settoriale e relativo a specifici ambiti lavorativi – l’economia e l’informatica, principalmente – grazie a internet, adesso ha raggiunto le masse e molto spesso se ne fa un uso spropositato: sono, infatti, all’incirca 3.500 gli anglicismi entrati a far parte della lingua italiana, anche nel parlato quotidiano e informale.
Diciamolo in italiano, oltre a sembrare una battaglia intellettuale, è il nome del blog con cui lo scrittore Antonio Zoppetti indaga sulla questione dell’itanglese, facendo luce sui problemi e i rischi a esso correlati. Per prima cosa, la ricezione passiva e l’abuso incondizionato di termini angloamericani è un fenomeno tutto italiano. Per un’ironia del destino o probabilmente per un paradosso della logica, è un fatto alquanto strano, dato che l’Italia è tra gli ultimi Stati in Europa a conoscere bene l’inglese. Altra ironia è che nel Sedicesimo secolo, in Inghilterra lamentavano l’eccessiva presenza di italianismi nella lingua: è la questione del cosiddetto prestigio linguistico, che varia diacronicamente. L’itanglese sembra avere come capitale Milano, che, attenta ai trend, sforna continuamente brand ed è sempre impegnata nelle sue immancabili fashion week. Roma qualche anno fa ha provato a rubarle il primato quando la giunta di Marino ha presentato il nuovo logo turistico della città, RoMe&You, fortunatamente rimossa dopo poco tempo e non poche polemiche. Di questo aneddoto ne parla anche la pubblicitaria e sociologa Anna Maria Testa in un intervento al TEDxMilano, sottolineando come i loghi di città, di università o di stati nel mondo utilizzino di solito il latino per il prestigio e la solennità che questa lingua conferisce, mentre a Roma, madre del latino stesso, si preferisce l’inglese per guardare al futuro ed essere più internazionali.
Alcuni Paesi europei hanno tentato di arginare il fenomeno. Per proteggersi dall’invasione di anglicismi, la Spagna, che fino al 1975 era una dittatura fascista, ha fondato nel 2005 la Fundación del Español Urgente, un’istituzione per la difesa della lingua spagnola intesa nel suo valore storico e culturale, promuovendone l’importanza e un utilizzo corretto con numerose iniziative. Dal 1994, pur essendo molto discussa, in Francia – Paese con una tradizione nazionalista molto forte – esiste addirittura la legge Toubon che rende obbligatorio l’uso della lingua francese nelle scuole pubbliche, nella stipula di un contratto commerciale e, soprattutto, nelle pubblicazioni governative. In Italia, oltre a non esistere una direttiva istituzionale in difesa della lingua, la politica stessa si fa bella sfoggiando la forza progressista dell’idioma d’oltremanica: si pensi al “Jobs Act”, alla “Flat Tax” o alla nuova arrivata figura del “navigator”. Come se dirlo in inglese fosse un modo per edulcorare, confondere, o forse per rendere più appetibili concetti abbastanza ordinari. Si sa, attira molto di più l’offerta di lavoro per manager assistant, piuttosto che per segretario.
L’itanglese si sarà pur sviluppato per questioni di necessità, per adattarsi velocemente a uno spirito internazionale e farsi comprendere una volta superate le Alpi, ma quando è utilizzato in un contesto italiano ed è rivolto a un pubblico italiano, diventa ridicolo, se non a tratti fastidioso. Se è vero che al bar è impossibile ordinare una “coda di gallo” quando vogliamo un cocktail, non si comprende cosa ci spinge a preferire “schedulare” al posto di “organizzare, “matchare” a “combaciare” o “brieffare” come sostituto di “aggiornare”. Alla base della sua diffusione, secondo Zoppetti, risiede un complesso di inferiorità culturale, cioè valutare la propria lingua non abbastanza valida per parlare di attualità. In sostanza, volendo evitare paroloni e voli pindarici, dirlo in inglese è più figo.
I rischi culturali ci sono. La lingua cambia non solo trasformando le parole esistenti, ma creandone anche di nuove attraverso i neologismi. Di conseguenza, se l’uso dell’itanglese diventerà sempre più massiccio, i suoi neologismi saranno semplicemente ricezioni passive da una lingua dominante, cosa che genererà un appiattimento monolingue insieme a una continua globalizzazione delle idee. È vero, è anacronistico riferirsi al Pc col termine “calcolatore”, o chiamare i social network “reti sociali”: non avrebbe senso, perché alcuni termini sono entrati così a fondo nel nostro parlato che non li percepiamo come intrusi. Funzionalità ed economia sono i principi su cui si basa una lingua e l’inglese, essendo così sintetica e concisa, si presta come un strumento efficiente: accoglierne alcuni termini con moderazione è una modalità del tutto naturale con cui si trasforma ogni sistema linguistico.
Tuttavia, ricorrere a questo ibridismo non per praticità ma in nome di una moda, nella speranza di sentirsi al passo coi tempi, ha tutto un altro significato. La soluzione, se esiste, è cercare un equilibro tra una sorta di “protezionismo linguistico” e la cieca sottomissione al potere della lingua angloamericana: come spiega la scrittrice Luisa Carrada nel blog Il mestiere di scrivere, “Più parole conosciamo − in italiano, in inglese e anche in altre lingue − più affiniamo la nostra capacità di scegliere ogni volta con consapevolezza quali usare negli ormai mille diversissimi contesti della comunicazione”. In medio stat virtus, insomma.
Non si vuole in nessun modo riportare in auge il processo di autarchia linguistica attuato dal regime fascista per fini puramente propagandistici. Non c’è bisogno di nessun allarmismo: l’intera questione è molto più semplice se la si guarda da un punto di vista estetico, piuttosto che come un grave problema culturale. È normale non riuscire a restare impassibili alla vista della diffusione a macchia d’olio di quest’ibrido amorfo che è l’itanglese, specie per chi ama la lingua italiana non per ragioni campanilistiche o nazionalistiche, ma perché ne coglie la bellezza, la poesia racchiusa nelle sue innumerevoli sonorità e la sua storia millenaria, in cui donne e uomini hanno contribuito a renderla una delle lingue più amate al mondo. Pensare di rinunciare progressivamente a tutto questo in nome di una sommario e ipotetico mito del progresso, è triste. E davanti a questo panorama un po’ infelice, “uscire il cane”, forse, è il male minore.