Il Cara di Mineo, centro di accoglienza per richiedenti asilo, ha chiuso i battenti il 9 luglio. Oltre ai richiedenti asilo, avevano trovato ospitalità nella struttura anche 117 cani randagi, adesso costretti a cercare una nuova casa. Alcuni migranti invece sono stati trasferiti in differenti centri, mentre quelli che per il Decreto Sicurezza hanno perso ogni diritto o tutela sono finiti per strada. Per assisterli si è mobilitata la Caritas, offrendo loro un tetto, e i medici e gli psichiatri del Medu (medici per i diritti umani) sono andati a cercarli uno a uno, con l’intento di garantire sostegno e cure. Alcuni sono stati trovati, la maggior parte no. Nel frattempo Matteo Salvini, ideatore e realizzatore del Decreto Sicurezza, ha lanciato sui social un appello strappalacrime chiedendo agli italiani di aiutare degli esseri viventi, di non lasciarli soli in balìa della strada. Ovviamente parlava solo dei cani.
L’Italia è un Paese in cui abbandonare i cani è un reato, mentre abbandonare le persone – a quanto pare – no. C’è chi non ha preso bene l’ultima uscita di Salvini, come Don Luigi Ciotti: “Prima la Madonna e i santi, ora i cani che, per carità, sono creature e meritano grande rispetto. E gli uomini no? Mi piacerebbe lo stesso rispetto verso le persone, umiliate nella loro dignità”. Alcuni degli ex ospiti del Cara di Mineo soffrivano di problemi fisici e disabilità intellettive, ma Salvini ha preferito concentrarsi sui cani in difficoltà. La scelta è bizzarra non tanto per un discorso legato all’importanza degli animali, che in quanto esseri viventi meritano tutta l’attenzione possibile, il rispetto e l’aiuto, quanto per la visione del leader leghista che in un’ipotetica scala di importanza pone i migranti in fondo alla lista dietro italiani (sempre meglio se del Nord), russi, cani e chissà chi altro.
Qualche giorno fa è arrivato alla stampa italiana un documento ufficiale del ministero dell’Interno con cui veniva annunciata con toni da cinegiornale la visita di Salvini a un gattile di Roma. È senza dubbio lodevole avere dei politici interessati agli animali, ma la stonatura appare evidente di fronte alle azioni del ministro in questione, che non si fa scrupoli a tenere per giorni degli esseri umani imprigionati su una nave in mare aperto o ad abbandonarli per strada. Tutto questo fa parte di una strategia precisa per continuare ad aumentare le sue percentuali di voto.
In questi mesi molti commentatori politici si sono posti un interrogativo: se al posto dei migranti sulle navi ci fossero degli adorabili gattini, la reazione dell’italiano medio sarebbe la stessa? Invece dell’odio e dei beceri inviti ad affondare le navi, dell’intolleranza e della richiesta di spedirli tutti a calci a casa loro, ci sarebbe una mobilitazione di massa per salvare i micetti. Non è soltanto un discorso legato alle idee politiche o all’adulazione per un leader, ma un processo mentale più profondo, lo stesso che porta a disperarsi quando in un film assistiamo alla morte di un cane, mentre quella di un essere umano ci lascia quasi indifferenti.
Uno studio del 2013 presentato all’Annual meeting of the American Sociological Association ha dimostrato che proviamo più empatia per gli animali che per le persone con un esperimento svolto su un gruppo di 240 persone. Ragazzi e ragazze occidentali tra i 18 e i 25 anni, sono stati sottoposti alla lettura di quattro racconti in cui il protagonista veniva picchiato. Racconti identici, diversi solo per il protagonista: un uomo di 30 anni, un bambino di un anno, un cucciolo di cane e un cane di sei anni. I risultati del test hanno mostrato la netta prevalenza dell’empatia per il cucciolo di cane, il cane adulto e il bambino, mentre per l’uomo si è piazzato all’ultimo posto. I ricercatori spiegano questo risultato sottolineando l’idea che abbiamo della vulnerabilità di un neonato o degli animali, visti come non in grado di proteggersi da soli, a differenza dell’uomo. Viene però da chiedersi in che modo un uomo possa “proteggersi da solo” in un lager libico o su un gommone alla deriva.
Un altro aspetto che porta le persone a empatizzare più con gli animali che con i propri simili è un processo chiamato antropomorfizzazione, ossia la tendenza ad assegnare agli animali caratteristiche umane, andando contro la natura dell’animale stesso. Si può amare un cane anche senza renderlo la proiezione di un figlio o di un fratello o costringerlo a seguire abitudini umane nella dieta o nel modo di vivere. Soprattutto non è necessario renderli un simbolo di purezza da contrapporre alla corruzione di tutti gli esseri umani. Spesso sono proprio la misantropia, o comunque i problemi sociali legati ai rapporti con gli altri individui, ad accentuare questa contrapposizione emotiva tra animali e persone. Eppure è l’uomo stesso ad averla generata: gli animali non conoscono la cattiveria umana – quella sadica basata sul ragionamento, distante dall’istinto che in natura porta le creature a uccidersi tra loro – e quindi ci si lega a loro in modo assoluto, sfociando talvolta in comportamenti che rasentano l’ossessione. Non tanto per la dimensione dell’affetto nei loro confronti, quanto per il meccanismo che come conseguenza porta l’uomo a odiare l’uomo.
Solitamente si fa l’errore di associare l’amore per gli animali a una bontà d’animo a tutto campo, sia nella società civile che in quella politica. Gli esempi storici sono innumerevoli, e spiegano come il collegamento sia spesso infelice. Durante il nazismo, in Germania furono approvate diverse leggi a favore della tutela degli animali. Non solo Hitler era un amante degli animali che si circondava di cani, ma anche Himmler e Göring si batterono per la loro salvaguardia, realizzando nel 1933 una legge che vietava la vivisezione sugli animali. Nello stesso anno Hitler annunciò che “Nel nuovo Reich non può esserci più posto per la crudeltà verso gli animali”. Stiamo parlando degli stessi gerarchi responsabili della morte di milioni di persone tra campi di concentramento e campi di battaglia. Viva gli animali, ma gli ebrei, i dissidenti politici, gli omosessuali, i disabili e i rom nelle camere a gas.
Oggi il mondo dei social è diventato il luogo dove l’astio si espande a macchia d’olio, e una delle maggiori contraddizioni riguarda proprio chi è mosso da questa rabbia. Capita spesso di assistere a invettive contro migranti, politici avversari o personaggi pubblici – attraverso minacce, inviti allo stupro e alla violenza –, da parte di persone che ostentano nella foto profilo i loro animali domestici. La sensibilità viene riversata soltanto sul proprio pappagallino o gatto, ma non sugli esseri umani che soffrono. Questa è soprattutto una conseguenza della xenofobia: il migrante viene considerato diverso, non un proprio simile, venendo così a mancare ogni tipo di immedesimazione. Queste persone non sono in grado di immaginarsi al posto di un altro essere umano, o concepire la gravità delle esperienze che è costretto a vivere, perché vedono il mondo attraverso le lenti deformanti della xenofobia. Quindi un migrante, che solitamente ha un colore diverso dal loro, non gli procurerà alcun sentimento di compassione o di accoglienza. Un animale, invece, rientra nel quadro sociale dell’uomo occidentale, dato che fa parte della dimensione relativa alla casa e alla famiglia e non rappresenta alcuna minaccia. A differenza degli “sporchi neri”.
Salvini è il massimo rappresentante di questo paradosso empatico, in grado di intercettare il sentire comune ed elevarlo a sua battaglia personale. Il punto basilare è che nel mondo animale non esistono certi comportamenti dell’uomo basati su discriminazione, intolleranza e razzismo. La frase “l’animale è migliore dell’uomo” può anche avere un fondo di verità, ma per ragioni diverse da quelle impugnate dagli amanti dei micetti che augurano la morte alla capitana Carola e a chi la sostiene. Forse è migliore dell’uomo proprio perché alla sua natura non appartiene il cinismo alla base della sua decadenza. Forse è più giusto dire che l’uomo è il peggiore animale in natura oltre che l’unico in natura a saper odiare i suoi simili, mentre una giraffa non odierà mai un’altra giraffa.