I dati di Eurostat parlano chiaro. L’Italia è il Paese europeo che, in percentuale rispetto alla propria spesa pubblica, investe meno in “educazione”, una categoria che comprende la scuola dell’obbligo, l’università, servizi sussidiari all’educazione e altri tipi di formazione. L’Italia destina l’8,0% della propria spesa pubblica in questo campo, posizionandosi all’ultimo posto della classifica dopo la Grecia (8,3%). La media Europea è del 10,0%. Paesi come la Svizzera e l’Islanda doppiano le nostre cifre, assestandosi intorno al 16%. Altri grandi Paesi europei comparabili con l’Italia hanno tutti percentuali nettamente più alte: 9,6% la Germania, 9,5% la Spagna e la Francia. Nonostante un leggero miglioramento rispetto al passato in termini assoluti, l’aumento degli investimenti resta comunque troppo basso rispetto agli standard europei. Nel 2019, l’anno più recente per cui sono disponibili i dati, l’Italia ha devoluto per l’istruzione 70 miliardi di euro, rispetto ai 122 del Regno Unito e ai 128 della Francia, Paesi con una popolazione di poco maggiore della nostra.
Andando a scomporre le singole voci di spesa, emergono altri elementi interessanti. Per quanto riguarda l’istruzione primaria e pre-primaria l’Italia spende il 2,9% della propria spesa pubblica, un numero appena inferiore della Germania (3,0%) e della media europea (3,4%), ma superiore ad altri grandi Paesi come Francia (2,5%) e Regno Unito (2,4%). L’Italia è anche in linea con la media europea per quanto riguarda l’istruzione nelle scuole secondarie (3,7% il nostro Paese e 3,8 % l’Unione Europea). I dati peggiorano per quanto riguarda università ed educazione terziaria, per cui l’Italia si trova di nuovo in fondo alla classifica. Spendiamo appena lo 0,6% della spesa pubblica in questo settore. La Francia quasi ci doppia, con l’1,1 %, mentre Regno Unito e Germania spendono rispettivamente l’1,5% e l’1,7%. I Paesi Bassi, uno Stato con 17,4 milioni di abitanti, circa un terzo dell’Italia, spendono in termini assoluti quasi il doppio dell’Italia.
Non si tratta soltanto di una questione di quantità, ma anche di qualità dell’investimento. Non solo spendiamo poco, ma spendiamo male. Il sistema di finanziamento va infatti a privilegiare scuole e università già avvantaggiate, incrementando ulteriormente le disuguaglianze e venendo meno alla missione fondamentale della scuola: fornire a tutti le stesse opportunità. Il principale strumento per finanziare l’università è il Ffo (Fondo di finanziamento ordinario), il quale distribuisce i fondi in base ad alcuni parametri discutibili. La maggior parte del Fondo (4 miliardi di euro sui 7,8 totali del 2020) dipende dal “peso” di ogni università, ovvero dal numero di studenti e personale. Altri 2 miliardi circa sono invece destinati alle università che ottengono migliori risultati in termini di impatto della ricerca e preparazione degli studenti. Questi due elementi da soli, però, vanno a esacerbare le disuguaglianze già presenti sul nostro territorio, creando dei circoli viziosi per cui chi ha più risorse può essere più accademicamente performante e attrarre maggiori investimenti, mentre chi ha meno risorse è destinato a sprofondare sempre di più, come dimostra il crescente divario tra università del Nord e università del Sud. Soltanto il 2,8% del FFO, circa 175 milioni di euro, è poi destinato a fini perequativi, ovvero a cercare di ridurre le disuguaglianze tra atenei.
Questi numeri raccontano un Paese in cui la scuola è all’ultimo posto nelle priorità sia dei media che della politica. Eppure, durante il periodo pandemico non è stato così. Le polemiche sulla ministra del governo Conte II, Lucia Azzolina, e le problematiche per l’uso massiccio della didattica a distanza avevano, per la prima volta dopo tanti anni, riportato la scuola e l’educazione al centro del dibattito pubblico. Con l’arrivo del Next Generation EU – il piano di ripartenza economica promosso dalla Commissione europa, che destina all’Italia circa 191,5 miliardi di euro tra prestiti e sovvenzioni a fondo perduto – si era poi presentata la possibilità di dedicare nuove risorse alla scuola. Sembra però che non si stia cogliendo questa opportunità come avrebbe meritato. Se si va ad analizzare il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) con cui il governo Draghi ha deciso come devolvere i fondi dell’Unione europea, ci si accorge che le risorse destinate non bastano a recuperare l’enorme ritardo accumulato dal nostro Paese in anni di sottofinanziamento all’educazione. Il PNRR destina 30,88 miliardi di euro al settore istruzione e ricerca, di cui 19,44 al potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione dagli asili nido alle università. Questi fondi coprono un periodo che va dal 2021 al 2023 e vanno perciò distribuiti nel corso di 3 anni, per un totale di poco più di 6 miliardi aggiuntivi all’anno. Significa portare la spesa totale del settore a circa 76 miliardi, ancora troppo poco rispetto alle cifre raggiunte dagli altri Paesi europei. Anche se l’analisi fatta dal PNRR sui problemi della scuola coglie alcuni degli aspetti più critici dell’attuale sistema e alcune aree di intervento vanno nella giusta direzione (come l’incremento delle borse di studio o degli alloggi per studenti), questi fondi non saranno probabilmente in grado di risolvere i tanti problemi che derivano dal sottofinanziamento e dal mal-finanziamento del mondo dell’istruzione.
Sono problemi sotto gli occhi di tutti, ma che non si ha il coraggio di affrontare. I numeri dell’abbandono scolastico, per esempio, ovvero dei giovani che lasciano la scuola prima di aver ottenuto un diploma di maturità, sono drammatici. Nell’anno scolastico 2018-2019, ben 102mila studenti avevano lasciato gli studi, di cui 86.620 nelle scuole superiori. È un dato che si fa ancora più grave quando incontra cause di disuguaglianza già esistenti, come quella tra Nord e Sud, tra centro e periferie, o tra alunni italiani e non. Una scuola sottofinanziata non riesce a prevenire queste situazioni e a volte non può evitare di perdere lungo la strada migliaia di giovani che si vedono così limitati nelle proprie possibilità di crescita umana e intellettuale.
Le conseguenze si vedono anche nel basso numero di laureati che escono dalle nostre università. L’Italia è infatti il Paese che, dopo la Romania, ha il minor numero di laureati nell’Unione europea. Il 20,1% della popolazione tra i 25 e i 64 anni, rispetto al 32,8% della media europea. Un sistema universitario che deve finanziarsi attraverso una delle tassazioni più alte d’Europa, spesso privo di adeguate borse di studio o alloggi per studenti, finisce per trasformarsi in un sistema elitario dove molto spesso a laurearsi è chi esce da un liceo o ha genitori a loro volta già laureati o comunque benestanti. È una situazione che si pone in contrasto con la Dichiarazione Universale dei diritti umani delle Nazioni Unite, che all’articolo 26 dichiara che “l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito”.
Gli scarsi finanziamenti nella scuola hanno anche conseguenze sugli stipendi degli insegnanti. Secondo uno studio dell’Ocse, la retribuzione dei docenti italiani si aggira tra i 30mila e i 32mila euro a seconda del grado scolastico. Il gap con gli altri Paesi si fa particolarmente forte alle superiori, dove l’Italia viene superata dalla maggior parte degli altri Paesi sviluppati, inclusi Portogallo, Francia, Israele e Scozia, insieme ai soliti Paesi del Nord Europa come Svezia, Finlandia e Norvegia. La scarsa retribuzione degli insegnanti ha effetti negativi non solo sulla psiche del docente (che si sente ovviamente meno valorizzato rispetto ai colleghi degli altri Paesi), ma anche sull’appetibilità della professione. In questo modo, la scuola fatica ad attrarre talenti che vedono nel mestiere dell’insegnante non solo una vocazione, ma anche un lavoro ben retribuito che gli permetta di raggiungere la stabilità economica. Si va così a diminuire la qualità dei docenti, con il ruolo di insegnante che non ha più il prestigio di cui poteva godere in passato.
Infine, una scuola sottofinanziata è una scuola che non riesce a preparare adeguatamente i suoi studenti. Nonostante la retorica sulle eccellenze dei licei, la verità è che l’Italia si classifica costantemente sotto la media dei Paesi Ocse per quanto riguarda competenze logiche, matematiche e linguistiche. Il dato che forse la dice più lunga sullo scarso livello di preparazione sta nell’altissimo livello di analfabetismo funzionale del nostro Paese. Con questo termine si indica “l’incapacità totale o parziale di un individuo nel comprendere e valutare in maniera idonea le informazioni che quotidianamente elabora”. Uno studio condotto dall’Ocse calcola che in Italia il 46,3% della popolazione tra i 16 e i 65 anni rientrerebbe in questa definizione, il 20,9% in maniera grave e il 25,4% in maniera non grave.
A questo si aggiungono altri problemi. L’incapacità di preparare adeguatamente per il mondo del lavoro, edifici fatiscenti, la fuga di cervelli e tante questioni che, come italiani, abbiamo imparato a conoscere. Ciò a cui bisogna guardare, però, non sono i singoli problemi, ma il filo rosso che li unisce. L’istruzione è il primo strumento attraverso cui si può costruire un Paese più equo e giusto e il mezzo privilegiato per rendere più forte il suo tessuto democratico. Una scuola incapace di educare ai più basilari valori democratici o di fornire le competenze per comprendere un testo è una scuola che sta condannando le prossime generazioni di cittadini all’ignoranza, all’incapacità di comprendere la situazione politica nazionale e internazionale e, di conseguenza, all’impossibilità di agire per cambiare le cose. Una scuola che invece di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano lo sviluppo di un individuo abbandona 100mila giovani all’anno a loro stessi e accentua ancora di più le fratture del nostro Paese è una scuola che istituzionalizza e normalizza le disuguaglianze invece che combatterle. La questione dell’istruzione non è allora un fatto che riguarda soltanto la scuola e l’università, ma una delle realtà che va a incidere più in profondità sulle ingiustizie sistemiche del nostro Paese, danneggiando irrimediabilmente le fondamenta della nostra democrazia. Ogni riflessione e azione mirata a cambiare veramente l’Italia non può quindi che partire da qui.