Chi soffre di fobie sa bene che liberarsi di una paura consiste nell’atto di coraggio di affrontarne l’oggetto. Se ho paura di volare, sarà volando che potrò dire di essermene liberata. Se ho paura dei cani, affronterò la mia cinofobia nel momento in cui troverò il coraggio di accarezzarne uno, o almeno non cambiare strada se lo incontro. In realtà, basta avere un cane perfettamente innocuo di media o grossa taglia per rendersi conto che ormai, quando una persona non riesce a trovare il coraggio o la forza di superare le proprie paure, di solito, invece di essere consapevole di non aver alcun diritto di condizionare la vita degli altri per questo, scarica il suo disagio con aggressività rivendicando pure il diritto di imporre le sue fobie al mondo. E lo stesso vale quando la fobia in questione è la xenofobia, la paura degli stranieri o “dell’immigrazione”, come ormai viene comunemente definita.
“La sinistra, di fronte alla paura di una persona, non può negare le ragioni che l’hanno generata, trattando la questione con supponenza o distacco. Così facendo lascia il campo libero agli speculatori della paura, a chi costruisce la propria fortuna politica sfruttando l’angoscia dell’impoverimento e della perdita dei propri diritti suscitata da un fantomatico nemico esterno, l’immigrato. Io sono convinto che una formazione riformista abbia il compito di stare accanto alle persone, di ascoltarle per liberarle dei loro timori”. Questo è l’approccio alla xenofobia proposto da Marco Minniti, ministro dell’Interno durante il governo Gentiloni, nel suo ultimo libro Sicurezza è Libertà. Terrorismo e immigrazione: contro la fabbrica della paura. Lo ha preceduto di qualche settimana Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico nel governo Gentiloni e nel governo Renzi, che sul suo libro Orizzonti Selvaggi. Capire la paura e ritrovare il coraggio, ha scritto: “Abbiamo mostrato, così come i progressisti negli altri Paesi occidentali, di avere un ‘cuore duro’ davanti alla sofferenza e alla paura”.
Calenda non si perdona “il cuore duro”: non aver assecondato la xenofobia degli italiani tanto quanto gli italiani avrebbero voluto è stato un peccato di superbia, pagato caro; poco importa se, come lui stesso afferma nel libro, la paura degli immigrati in Italia è basata su una percezione distorta sia della quantità di presenze sul suolo nazionale, sia del legame fra immigrazione e criminalità. La xenofobia rappresenta uno dei pochi casi in cui le paturnie di pochi, invece di essere fermate fin dal principio indirizzandoli da un buon terapeuta, sono state lasciate prosperare fino a occupare tutti i possibili spazi di rappresentazione, per sfociare infine sull’arena politica diventando così endemiche che oggi non c’è più nessuno che si preoccupi della xenofobia come disturbo, ci si preoccupa solo dell’immigrazione.
“La sensazione di minaccia alla sicurezza e all’ordine pubblico ricondotta all’immigrazione sperimenta dal 2013 una crescita costante”, informa il Rapporto Caritas 2018 sull’immigrazione presentato a fine settembre. Nel 2017 sono state trasmesse sui principali tg 4.268 notizie riservate all’immigrazione: il 78% riguardava “flussi migratori, criminalità e sicurezza, terrorismo”. Le notizie positive legate al tema erano l’11%, e parlavano di casi di accoglienza, continuando cioè a interessarsi agli immigrati solo come corpo estraneo nella società.
Gli immigrati sono diventati la legittima fobia di tutti. E la politica si divide in chi questa fobia l’alimenta a suon di notizie false, blocco delle navi, propaganda d’odio, come l’attuale ministro dell’Interno e il suo governo, e chi invece, come il predecessore di Salvini al Viminale, crede che “sicurezza [sia] libertà” e che: “Una formazione riformista abbia il compito di stare accanto alle persone, di ascoltarle per liberarle dei loro timori”. La xenofobia va vista dalla parte di chi ha paura, accettata, compresa. “Comprendere le paure, dare loro diritto di cittadinanza, è il primo indispensabile passaggio per ritrovare coraggio,” sottolinea di nuovo Calenda nel suo libro, stavolta sì come uno psicoterapeuta che coccola il suo paziente traumatizzato, impedendogli di evolvere.
Le paure hanno diritto di cittadinanza, e invece “a noi il diritto di cittadinanza non l’hanno voluto riconoscere. Perché noi siamo quelli che fanno paura”: commenta così Paula Baudet Vivanco, giornalista, portavoce del network Italiani senza cittadinanza che nella scorsa legislatura si è battuto per l’approvazione dello ius culturae, incassando un clamoroso voltafaccia da parte dei senatori che avrebbero dovuto discutere il provvedimento in aula: messo in calendario a fine legislatura, quando era ormai troppo tardi per trasformarlo in legge, non venne neanche discusso per mancanza del numero legale. Gli italiani senza cittadinanza sono i figli di immigrati nati in Italia o giunti qui da bambini; sono gli oltre 800 mila studenti, più del 60 % dei quali nati in Italia, che nell’anno scolastico 2016-2017 hanno frequentato le scuole in questo Paese; sono i bambini di Lodi, allontanati dalla mensa da un provvedimento ad hoc della sindaca contro i loro genitori. A loro la cittadinanza non viene concessa per essere nati né per aver vissuto tutta la vita in questo Paese, al raggiungimento dei 18 anni diventano immigrati come tutti gli altri, con un permesso di soggiorno, senza diritti politici, estranei alla società democratica. Per diventare cittadini italiani devono fare richiesta e, se il decreto sicurezza del Governo diventerà infine legge, dovranno attendere comunque 4 anni dalla presentazione della domanda per vedersi riconosciuta la cittadinanza e forse persino sottoporsi a un esame di lingua italiana, nonostante la maggior parte di loro abbia studiato in una scuola di Stato.
Nei loro libri né Calenda né Minniti, pur dedicando pagine e pagine al tema dell’immigrazione, hanno trovato una riga per dimostrare empatia verso queste persone. Minniti nel libro nomina rapidamente lo ius soli non come un diritto fondamentale dei giovani che non hanno cittadinanza, ma come “misura per l’integrazione” nell’interesse dello Stato “che voglia contrastare l’immigrazione illegale”. L’ex ministro non ammette neanche che è stato per un fallimento della sua maggioranza se la legge non c’è. Un fallimento la cui conseguenza non è la mancata integrazione, ma l’aver privato almeno un milione di persone – senza contare quelle che verranno nei prossimi anni – di un diritto che avrebbe migliorato le loro vite senza togliere niente a nessuno. Neanche agli xenofobi. “Siamo stati sacrificati sull’altare dell’opportunismo”, commenta Baudet Vivanco. “Quando i media hanno cominciato a martellare con il solito discorso razzista, facendo un segno d’uguale fra ‘ius soli’ e ‘invasione’, i senatori che avrebbero dovuto discutere il ddl hanno pensato a cosa fosse più conveniente per se stessi. E così hanno mortificato le aspettative di centinaia di migliaia di bambini e adolescenti,” racconta Baudet Vivanco. “Ma sapevamo che era una lotta complicata. Quando andavamo in Parlamento ci guardavano storditi: vedere una giovane donna dalla pelle scura, magari più alta di loro, esprimersi con accento perfettamente romano o palermitano li disorientava. Il nostro percorso è stato accidentato già dai primi passi, eravamo considerati un corpo estraneo, perché i politici non frequentano i luoghi dove la società si forma: non frequentano le scuole. Nonostante il loro mestiere sia conoscere la società su cui poi dovranno legiferare”. È proprio nelle scuole che i giovani diventano italiani a tutti gli effetti, sostiene Baudet Vivanco, formandosi nella convivenza fra persone di diverse etnie e provenienze, in modo non lineare ma naturale. È nelle scuole che si crea uno scollamento fra la xenofobia ideologica – presente anche tra i giovani, che la riprendono dalle loro famiglie – e la multietnicità, che va ben oltre il concetto statalista e freddo di integrazione.
È integrazione, infatti, solo se è reciproca. Le identità cambiano e il significato di “italiano” o “straniero” assume una connotazione diversa. Da una rilevazione condotta dall’Istat nelle scuole nel 2015, è emerso che le percentuali di giovani italiani figli di immigrati che si autodefiniscono italiani, stranieri o che non sono in grado di rispondere alla domanda sono molto vicine fra loro: il 38% si sente italiano, il 33% straniero, e il 29% non risponde. Ma il dato che dovrebbe interessare di più Calenda, Minniti e tutti quelli che intendono occuparsi dell’Italia è un altro: il 42,6% degli adolescenti italiani, e il 46,5% di quelli italiani senza cittadinanza, sogna di vivere all’estero da grande. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Germania sono i tre Stati che li attraggono di più, a prescindere da dove siano nati o da quale sia la provenienza dei loro genitori. Il futuro, per una buona parte di loro, non parla italiano. Perché loro stessi non parlano solo italiano, ma più lingue, hanno nel DNA più esperienza del mondo di quella di tanti politici che legiferano sulla loro pelle, e l’idea di superare i confini non solo non li spaventa, ma li attrae. Tutte cose che hanno in comune con i loro coetanei dai cognomi napoletani, lombardi o veneti.
“Se si parla di paure legate all’immigrazione, l’Italia avrebbe molto più da temere dalla paura di rimanere senza giovani per via delle emigrazioni e della mancanza di futuro, che non dai presunti pericoli portati dai nuovi giovani che arrivano,” commenta Paula Baudet Vivanco. Nel solo 2017, sono espatriati dall’Italia circa 50mila giovani fra i 18 e i 34 anni. Molti di questi sono italiani figli di immigrati, che ottenuta la cittadinanza cercano opportunità di vita migliori, se non semplicemente dignitose, dove le opportunità esistono, come fanno tra l’altro anche molti italiani. “Se le giovani generazioni figlie di immigrati non possono avere un futuro qui, se lo cercheranno altrove. Ed è la stessa cosa che stanno facendo già tanti figli di italiani”. Gli adulti e gli anziani che oggi inchiodano le nuove generazioni multietniche alla paura dell’altro si stanno preparando a invecchiare in un mondo senza ragazzi – e probabilmente senza nessuno che si occupi di loro se non alcune figure pagate per farlo, come già spesso succede. Se vorranno accanto i giovani, forse saranno costretti a diventare loro stessi migranti.