Niente ha acceso la rete e i dibattiti degli ultimi giorni quanto la questione di morettiana memoria riguardante la scelta confusa e a tratti maldestra della Nazionale di calcio italiana circa l’inginocchiarsi o meno come segno di protesta contro il razzismo. La faccenda ha infiammato l’opinione pubblica fino ad assumere toni sempre più grotteschi e al contempo preoccupanti.
Il gesto, denominato “taking the knee”, è chiaramente simbolico, e come tutti i gesti simbolici non ha altro valore se non quello di schierarsi apertamente a favore di una causa e sensibilizzare al riguardo chi osserva. L’atto in questione si ispira a quello di Martin Luther King, che nel 1964 a Selma, in Alabama, si inginocchiò a sostegno del pieno e riconosciuto diritto di voto per gli afroamericani. Nel 2016 è entrato nel mondo sportivo quando Colin Kaepernick, giocatore della Nfl statunitense, lo riprese durante l’esecuzione dell’inno nazionale, in onore delle vittime afroamericane della polizia. Da allora ha assunto un valore simbolico e ha iniziato ad essere imitato da molti sportivi, ma Kaepernick fu duramente criticato da Trump e molti suoi sostenitori, al punto da dover rinunciare alla sua carriera da giocatore professionista.
I gesti simbolici riescono a scuotere le coscienze e a lasciare un segno, e anche se a Kaepernick costò la carriera, è vero anche che il suo gesto è stato in grado di trascendere la dimensione sportiva fino a essere assunto come pratica in molti settori, diventando uno dei simboli del movimento e delle manifestazioni di Black Lives Matter in tutto il mondo.
Veniamo alla questione posta all’inizio, che è riuscita a diventare uno psicodramma tutto italiano a colpi di hashtag tra fazioni opposte: alcune nazionali di calcio, in occasione degli Europei, hanno deciso di aderire alla campagna inginocchiandosi prima dell’inizio delle partite a sostegno della causa. Tutto qui. Viene da chiedersi dunque cosa ci sia da pensare: inginocchiarsi a sostengo simbolico di una campagna antirazzista non dovrebbe essere nemmeno una scelta, perché decidere di non farlo mostra la sistematica esistenza del problema stesso contro il quale simbolicamente non ci si schiera.
Alcune Nazionali hanno deciso di aderire all’iniziativa, come il Belgio, il Galles o l’Inghilterra, altre no, come l’Ungheria, la Russia o l’Olanda. L’Italia non ha scelto, e dopo la prima partita contro il Galles in cui alcuni giocatori italiani liberamente si sono inginocchiati e altri no, la polemica ha continuato ad alimentarsi, assumendo dimensioni grottesche e seguite da motivazioni surreali; i giocatori stessi, lasciati liberi di scegliere, non essendo giunti a una decisione di squadra, sembrano ignorare la questione e non essersi presi nemmeno la briga di informarsi, tanto che la dichiarazione finale dei responsabili è stata che di volta in volta, a seconda di come si sarebbero comportati gli avversari, avrebbero scelto di inginocchiarsi o meno in solidarietà con questi ultimi.
In rete si sono diffusi hashtag sintomatici dell’odio razziale italiano poco e mal celato. Cose tipo #iononmiinginocchio o #iomiinginocchiosoloinchiesa, perché sì, pare che per una certa parte della popolazione inginocchiarsi sia considerato un simbolo di sottomissione all’invasore e non di rispetto e sensibilità verso le ingiustizie e le discriminazioni. Altri hanno sostenuto che lo sport non dovrebbe mischiarsi con la politica. A tal proposito molte sarebbero le cose da dire: innanzitutto lo sport ha a che fare con la politica, per il semplice quanto ovvio motivo che tutto ha a che fare con la politica, ma soprattutto che in prima istanza la questione riguarda i diritti umani, e l’essere sociale e civile può acquisire valore politico solo in maniera derivata. Questo perché la politica ha a che fare con la vita pubblica e dovrebbe avere come fine ultimo il bene comune.
La politica però coinvolge tutti, nessuno escluso, perché è figlia del nostro tempo, delle nostre idee, del nostro essere parte della società, dei nostri pensieri e delle nostre azioni, quand’anche queste sembrino muoversi in un ambito non preminentemente politico. E dunque sì, il gesto non è politico, ma lo diviene in maniera derivata; lo sport non ha valenza politica, ma la assume in maniera derivata.
Decidere di non aderire a una campagna antirazzista è sicuramente una scelta libera, ma dimostra chiaramente l’entità del problema. Deprivare e svilire di senso un gesto simbolico, significa perdere l’occasione di orientare i riflettori verso una tematica cocente della nostra attualità; significa fare finta che una Nazionale di calcio con tutti gli occhi del Paese puntati addosso, con il potere sacrale che ha il calcio per i cittadini italiani, non abbia il potere di influenzare il suo pubblico, di suggerirgli un’attenzione sociale, di sensibilizzarlo su un movimento. Si soffre di razzismo e si muore di razzismo, e un gesto certo non risolve la questione, ma assume un valore enorme soprattutto alla luce del fatto che un problema di razzismo in Italia c’è e dunque scuotere le coscienze è il primo passo per la consapevolezza: aderire è schierarsi, non aderire è lasciare spazio al dubbio, alimentare interpretazioni, soprattutto se la stessa Nazionale ad altre campagne altrettanto simboliche, per altre cause, ha aderito. Inginocchiarsi è mettere un accento, è far sapere da che parte si sta, è scegliere di essere solidali e mostrare rispetto per una giusta lotta sociale, è sapere di essere figli delle proprie scelte, è assumersi la responsabilità del proprio essere personaggi pubblici. Non inginocchiarsi non è neutrale, perché mai si è neutrali e mai si è apolitici; non inginocchiarsi ricorda tanto il leitmotiv più di moda nell’era sovranista: “io non sono razzista, ma…”. Lo intravedete anche voi?