Raccontano le cronache che l’incipit dell’articolo 1 della Costituzione italiana, “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, fu tra le diciture più controverse del testo e mise a dura prova la capacità di mediazione delle diverse anime dell’Assemblea Costituente. Come ricostruisce il giurista Guido Pulcher sul portale di critica letteraria FN, comunisti e socialisti avrebbero voluto la formulazione ancora più estrema “L’Italia è una Repubblica di lavoratori”. La loro proposta fu osteggiata dai liberali e in seguito si trovò una soluzione di compromesso che, per Pulcher, ben riassume “le tre anime del processo costituente italiano, l’anima cristiana, quella liberale e quella socialista”. Che cosa davvero potesse significare e che conseguenze potesse avere per la politica la dicitura “fondata sul lavoro” fu oggetto di numerosi dubbi, incertezze e discussioni nei primi anni della Repubblica.
Il senatore liberale e monarchico Roberto Lucifero, parte dell’Assemblea Costituente, sostenne per esempio che fondare sul lavoro l’identità della nuova nazione repubblicana avrebbe significato creare una nuova classe tutelata, “che non è più quella padronale, ma quella lavoratrice”. Anche il giurista Piero Calamandrei espresse dubbi sul valore giuridico dell’articolo, considerandolo parte di quelle “velleità” e “propositi” di natura ideologica e morale di cui, secondo lui, era disseminato un testo-collage di troppe esigenze tra loro contrastanti. Per la politologa Nadia Urbinati, invece, che all’articolo 1 ha dedicato un saggio di analisi per l’editore Carocci, il riferimento al lavoro fin dalle prime battute della Costituzione ha segnato la natura stessa della nostra democrazia. Per lei si trattava infatti, di “un incipit rivoluzionario” che collegava la libertà al godimento di diritti sostanziali anche di natura economica e sociale in grado di sostenere l’uguaglianza, “tanto da assegnare alla Repubblica il compito di promuovere un’intensa protezione dei lavori subordinati”, poiché “la tutela del lavoratore è la tutela della sua libertà come persona”.
Il bilancio più preciso e impietoso di questa missione costituzionale, a 60 anni dalla nascita della Repubblica, lo si può forse rintracciare nel film indipendente Cover Boy, uscito nel 2007 e diretto dal regista Carmine Amoroso. La storia è ambientata nella periferia di Roma di inizio millennio, dove l’immigrato abruzzese Michele (interpretato da Luca Lionello), non più giovane ma ancora precario, condivide con il clandestino rumeno Ioan quel poco che ha: un appartamento di cui non riesce a pagare l’affitto e la fatica di conservare la propria dignità nonostante lo sfruttamento e l’umiliazione. Un giorno, affranto e carico di rabbia, confessa al nuovo amico quanto siano simili i loro destini: “Qui in Italia, se non c’hai il culo parato, se non c’hai la famiglia che ti aiuta, puoi essere uno straniero in patria”.
Sono passati oltre 10 anni, ma quel film e quella battuta rimangono a oggi il manifesto più struggente del fallimento della Repubblica italiana fondata sul lavoro e della vittoria – fino a oggi – di coloro che all’epoca della Costituente avrebbero voluto che lo Stato non diventasse mai e poi mai l’espressione della classe lavoratrice. Un fallimento sancito, anno dopo anno, da indici economici sempre più impietosi e dall’aumento inesorabile degli “stranieri in patria”. Si tratta di italiani che si sentono, e sono, sempre più abbandonati dalle istituzioni e impegnati individualmente “nella difesa di se stessi”, come ha sottolineato il 6 dicembre il direttore generale dell’istituto di ricerca Censis Massimiliano Valerii, presentando il Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese. Il testo sta facendo scalpore soprattutto per l’idea del ritorno dell’Uomo forte al comando che il 48% degli italiani si augurerebbe. Ma può essere letto soprattutto come l’articolata confessione di quanto, nell’Italia di oggi, donne e uomini si sentano sempre più deboli e spaventati nei confronti delle incertezze del futuro. Lo testimoniano la crescita nell’uso di ansiolitici e sedativi, assunti da “ormai 4,4 milioni (800mila di più di tre anni fa)” di persone, e quella della sfiducia: il 75% degli italiani dichiara di non fidarsi più degli altri. Il 57,5%, inoltre, ha paura di diventare vittima di un errore giudiziario.
Ma in cima alla lista dei temi che angosciano gli italiani c’è proprio il lavoro: è un motivo di preoccupazione per il 44% dei cittadini, il doppio rispetto alla media europea. L’aumento dell’occupazione di cui tanto si sono fatti vanto i governi negli ultimi anni, e in particolare l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi con il suo Jobs Act, è una mistificazione. A un maggior numero di occupati è corrisposta una diminuzione del lavoro: “l’occupazione creata in questi anni non ha generato ricchezza né crescita economica”, ha notato Valerii. I posti di lavoro persi a causa della crisi del 2008 sono stati recuperati, ma questo non si è tradotto in una crescita né delle retribuzioni (diminuite del 3,8% rispetto al 2007) né del reddito o del Pil. È crollato il numero delle ore lavorate ed è cresciuto a dismisura il ricorso al part-time. Non per scelta dei lavoratori, ma delle imprese che hanno spinto alcune categorie – donne, giovani e immigrati in particolare – verso una crescente marginalizzazione economica e sociale.
Secondo un’elaborazione del maggio 2019 di Save the Children sulla maternità in Italia, fa ricorso al part-time il 40,9% delle donne con un figlio, a fronte del 6% appena degli uomini. La solitudine delle madri in questo Paese è una realtà strutturale, prima di tutto per via della loro mancata indipendenza lavorativa. Ma sono i giovani quelli che maggiormente, negli ultimi anni, sono stati spinti verso prospettive di impiego a tempo parziale (il part-time involontario è cresciuto del 76%) e frammentato, spesso con più di un datore di lavoro e una retribuzione insufficiente a garanzia di una vita dignitosa. Oggi circa 3 milioni di lavoratori percepiscono una paga inferiore ai 9 euro lordi l’ora e tra questi almeno un milione ha meno di 30 anni.
Non può stupire, perciò, se sempre più giovani, nel corso degli ultimi 10 anni, hanno deciso che per essere stranieri in patria, tanto valeva esserlo all’estero, dando vita a un esodo che sta trasformando il volto del nostro Paese, specialmente del Sud. Nell’ultimo decennio hanno lasciato l’Italia oltre 538mila persone con meno di 40 anni. Anche gli immigrati sono sempre meno propensi a trasferirsi in Italia. “Tra trent’anni, l’Italia avrà 4 milioni e mezzo di abitanti in meno”, ha avvertito il direttore del Censis. Secondo l’Onu potrebbero essere persino 6,2 milioni, se non dovessero verificarsi flussi migratori di compensazione. Questa perdita di popolazione riguarderà esclusivamente la fascia d’età in età lavorativa, tra i 15 e i 64 anni. Nel Paese resteranno soltanto i pensionati e uno Stato non più in grado di prendersene cura. È un fallimento per la Repubblica fondata sul lavoro e per le sue istituzioni politiche, partiti e sindacati compresi.
L’economista Fabrizio Barca del Forum Disuguaglianze e Diversità, parlando a fine novembre all’assemblea del Pd “Tutta un’altra storia” di Bologna, ha ricordato che proprio quando l’esplodere della disuguaglianza sociale avrebbe “richiesto di spronare e aiutare i sindacati a investire nelle competenze necessarie per rappresentare il nuovo lavoro precario, per costruire forme nuove di internazionalismo (almeno in Europa) e più tardi per negoziare automazione e algoritmi, si scatena la gara al loro indebolimento. L’alibi della società liquida viene utilizzato per annunciare che il conflitto capitale-lavoro è roba del Novecento. In Italia, anche i partiti confluiti nel Partito democratico ne sono responsabili. Né meno danni fa nel nostro Paese la tarda strada neo-corporativa, quella che coinvolge il sindacato nel governo del Paese. L’attacco mette il sindacato sulla difensiva e su una linea conservatrice, che ne frena innovazione e rinnovamento”.
Barca – molto applaudito dall’assemblea bolognese, nonostante le critiche al Pd (o forse anche per quelle) – non è un profeta apocalittico. Crede nella possibilità di dare nuova speranza all’Italia, passando per l’indispensabile ripresa del conflitto sociale basato sull’assunto che capitale e lavoro sono in contraddizione tra loro, come insegna Marx. Per questo è necessario “riequilibrare il potere del lavoro rispetto a chi controlla il capitale”. Il Forum da lui diretto ha avanzato numerose proposte in questa direzione, cominciando da scelte coraggiose in favore dei giovani. A loro andrebbe offerta una “protezione collettiva”, sotto forma di eredità universale del valore di 15mila euro a testa, finanziata attraverso una riforma delle imposte sull’eredità e le donazioni ricevute, in modo di compensare il divario economico sempre più profondo tra vecchie e nuove generazioni.
Si tratta di una misura socialmente coraggiosa e innovativa, che otterrebbe una trasformazione radicale: permetterebbe infatti ai giovani italiani di “uccidere finalmente, simbolicamente il padre”, cioè sganciarsi dalle pressioni socio-economiche di natura familiare, dalla competizione e dagli imbrogli della meritocrazia per intraprendere un percorso verso la vera indipendenza. In questo modo potremmo tornare allo spirito e al dettato originario dell’articolo 1 della Costituzione: tutelare la dignità di chi lavora e realizzare una società più giusta, senza la quale non è possibile vivere davvero liberi.