In Italia buttiamo cibo per 15,5 miliardi di euro. È uno spreco insostenibile.
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Dall’approvazione, nel 2016, della legge Gadda per semplificare la burocrazia per donare cibo invenduto, la situazione degli sprechi alimentari in Italia è migliorata, tanto che il nostro Paese ha raggiunto la top ten del Food Sustainability Index. Nonostante questo, rimane ancora molto da fare nella conservazione e nella distribuzione dei cibi, dato che almeno il 14% degli sprechi alimentari mondiali può essere eliminato entro il 2050 semplicemente migliorando la gestione e la distribuzione del cibo. Solo nel nostro Paese, nel 2017, gli sprechi nella filiera (circa un quinto del totale) valevano 3,5 miliardi di euro tra perdite avvenute nei campi, nella produzione industriale e nella distribuzione. Tutto questo non pone solo un enorme criticità sul piano etico e sociale, ma anche ambientale.

In Italia – come negli altri Paesi ricchi – lo spreco domestico è il più incisivo: secondo i dati elaborati dal Politecnico di Milano e riportati da Isprambiente, rappresenterebbe almeno il 43% degli sprechi alimentari totali. Del 15% di questa percentuale, in particolare, è responsabile la sovralimentazione dei nostri connazionali, con il 50% degli uomini, il 34% delle donne e il 24% dei bambini tra i 6 e gli 11 anni in sovrappeso. La fase di produzione, invece, arriva a pesare per il 37%, di cui il 62% a carico degli allevamenti animali (meglio, comunque, della media europea che arriva al 73%). Secondo le indagini svolte dalla campagna di sensibilizzazione Spreco Zero 2018-2019, sei italiani su dieci gettano cibo commestibile una volta al mese, mentre il 16% butta alimenti buoni una volta alla settimana e il 15% ogni due settimane. La stessa analisi rileva anche diversi comportamenti virtuosi, dato che più del 50% dei cittadini se ha cucinato troppo conserva il cibo che è avanzato, il 46% quando un prodotto scade controlla che sia ancora buono prima di buttarlo, oltre il 40% si assicura che il cibo a rischio di guastarsi venga mangiato prima e il 30% fa la lista della spesa per non comprare più del necessario.

Se un cambio nelle abitudini dei singoli richiede una nuova mentalità da sviluppare nel tempo con informazione e campagne di sensibilizzazione, l’Unione europea si è impegnata a ridurre lo spreco alimentare del 50% entro il 2030, approvando una nuova metodologia comunitaria di calcolo. Ora diventa compito dei singoli Paesi lavorare per una normativa adeguata. Ad esempio puntando sulle realtà dove si spreca di più, ossia mense e supermercati. Il progetto Reduce ha rilevato sprechi annui di 18,7 kg per mq di superficie di vendita e ha evidenziato che il 35 % di questi prodotti sono ancora consumabili quando vengono tolti dagli scaffali.

Per ridurre queste cifre sono molto utili alcuni strumenti tecnologici per la grande distribuzione, come i packaging dotati di sensori per rilevare e segnalare se un cibo non è conservato alle condizioni ideali e rischia di scadere prima del previsto. Il World Economic Forum la considera una delle migliori innovazioni del 2019, grazie alla riduzione degli sprechi che renderà possibile. Nell’attesa che questo e altri strumenti si diffondano, tra le strategie più impiegate oggi c’è la collaborazione tra distributori, enti locali ed enti caritatevoli, che permette a un supermercato di 5.300 mq di recuperare in un anno oltre 23 tonnellate di prodotti per un valore di 45mila euro e donarli a chi ne ha bisogno. Il sistema più efficace sembra quello francese, che obbliga supermercati e mense a donare le eccedenze, con multe fino a 3500 euro per chi non rispetta la normativa. Scontare i prodotti prossimi alla scadenza, invece, è utile per ridurre gli sprechi a livello di supermercato, ma non è detto che gli stessi prodotti non vengano poi buttati dai consumatori che li acquistano.

Le mense, a livello europeo, sono responsabili del 14% degli sprechi alimentari dell’Unione, in particolare quelle scolastiche, mentre quelle aziendali sono spesso gestite da ditte esterne che hanno interesse a ridurre i costi e le eccedenze. Nel 2018 il ministero della Salute, ricordando che nelle scuole ogni giorno più del 12% dei pasti non viene consumato, ha emanato delle linee guida per i gestori delle mense, che raccomandano di promuovere valutazioni dell’opinione del personale, della soddisfazione degli utenti e della quantità di spreco, ma anche di sensibilizzare sul tema e prevedere la possibilità di chiedere porzioni ridotte. La direttiva ministeriale punta anche a favorire i contatti tra gestore, servizi sociali del Comune ed enti caritatevoli per ridistribuire le eccedenze ai bisognosi. Naturalmente, tutto ciò che resta sbocconcellato nel piatto va comunque gettato, motivo per cui è importante l’educazione sul tema in famiglia, per evitare che i bambini adottino comportamenti sbagliati a scuola.

Lo spreco alimentare non è solo un problema etico e umanitario, ma anche economico e soprattutto ambientale. Il valore del cibo sprecato, infatti, in Italia è ancora di 15,5 miliardi di euro l’anno, corrispondenti all’1% del Pil. A questa cifra vanno aggiunti anche i costi di smaltimento. Non ci troviamo di fronte sola a un’opportunità persa per l’economia e la sicurezza alimentare, ma anche a un enorme spreco di risorse impiegate per coltivare, processare, confezionare, trasportare e pubblicizzare il cibo. Sprecare è a tutti gli effetti un atto antieconomico, che si paga tre volte: per produrre l’alimento, per acquistarlo e per smaltirlo.

Oltre a richiedere risorse (tra cui 1,2 miliardi di metri cubi d’acqua dolce solo in Italia) ed energia per essere prodotto, il ciclo produttivo del cibo causa emissioni e sostanze inquinanti. Inoltre, quando viene gettato produce inquinamento, tanto che un terzo delle emissioni annuali da combustibili fossili nel nostro Paese è rappresentata dalle oltre 3 giga tonnellate di gas serra prodotte dai rifiuti alimentari, mentre il gas metano prodotto dal cibo in discarica è 21 volte più dannoso dell’anidride carbonica. Nel complesso, tra produzione e smaltimento, gli sprechi alimentari in Italia rappresentano circa il 14% dell’impronta ecologica nazionale, mentre a livello mondiale le emissioni nocive del cibo sprecato equivalgono a quelle di un ipotetico Stato, battuto solo da Cina e Stati Uniti in quando a emissioni inquinanti.  Non va dimenticato che il solo settore agricolo contribuisce al 22% o 24% delle emissioni da gas serra prodotte dall’uomo, oltre a essere responsabile del e25% della deforestazione mondiale.

Le regioni, intanto, si muovono. La Toscana, ad esempio, ha siglato un protocollo d’intesa per favorire la valorizzazione delle eccedenze alimentari e combattere gli sprechi, con il progetto LIFE-Food.Waste.Standup (cofinanziato dall’Unione europea) in collaborazione con Anci Toscana, Federalimentare, Federdistribuzione, Fondazione Banco Alimentare onlus e Unione Nazionale Consumatori. Le iniziative locali – come il progetto Immagino di Gs1 Italy per raccogliere in un database le informazioni relative ai prodotti e consegnare quelli fuori stock all’Associazione Banco Alimentare – sono lodevoli, ma è fondamentale un diffuso intervento politico.

In Germania, ad esempio, il land della Baviera e il ministero dell’Ambiente finanziano un progetto di scanner a infrarossi che permette di verificare tramite smartphone la deperibilità del cibo e convincere i consumatori a comprare anche alimenti buoni, ma esteticamente poco accattivanti. A livello di consumo domestico, invece, da MyFoody a Ratatouille, da Bring the food a Scambiacibo, esistono diverse app e piattaforme a disposizione di cittadini e venditori per evitare lo spreco. La tecnologia, però, è solo uno strumento che non può sostituirsi a un cambio radicale di mentalità e a un’azione mirata e sempre più incisiva delle istituzioni. La crescita costante della popolazione mondiale e una quantità di risorse per mantenerla scarse, se non in calo costante, rendono sempre più urgente la necessità di imparare a dare il giusto valore al cibo che arriva sulle nostre tavole ogni giorno. Buttarlo non è più sostenibile, nei confronti dell’ambiente e dell’intera umanità.

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