In Italia studiare arte è considerato inutile. Così calpestiamo la nostra maggiore ricchezza.
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L’Accademia delle Arti e del Disegno, fondata da Giorgio Vasari a Firenze nel 1563, viene considerata la prima accademia di Belle arti del mondo. A seguire nel 1593 viene istituita a Roma l’Accademia nazionale di San Luca e nel 1776 Maria Teresa d’Austria fonda a Milano l’Accademia di belle arti di Brera. Le accademie italiane, hanno una storia secolare, non meno valida dell’Università, e ci si aspetterebbe che le istituzioni le trattassero con il giusto rispetto. Eppure non è così, e sembra che per lo Stato, oggi più che mai, le Belle arti – nonostante il nostro enorme patrimonio artistico e culturale – siano un campo minoritario, e a volte di serie B.

Le accademie italiane versano in una situazione drammatica per spazi, fondi, e possibilità di lavoro. Particolarmente critico è il caso dell’Accademia di Palermo che dal 14 ottobre vede le lezioni bloccate, le attività didattiche sospese, l’impossibilità degli studenti di portare a termine il percorso di studi. La causa è una legge che ha imposto un freno ai contratti co.co.co nelle amministrazioni pubbliche e che colpisce fortemente il sistema delle accademie, poiché al loro interno i docenti con questa tipologia di contratto sono circa il 50%. A Palermo sono 81 su 152 i docenti che esercitano con questa tipologia di contratto, e il mancato rinnovo ha paralizzato l’intero apparato. Questo ha fatto montare la protesta, studenti e docenti hanno manifestato per la mancanza di risposte istituzionali.

Lo stesso malumore si è diffuso, a ragione, in altre città. Lo scorso dicembre gli studenti dell’Accademia Albertina di Torino hanno organizzato un flash mob in centro per ricordare le carenze di organico e di fondi, che si traducono in palesi difficoltà organizzative, come i pochi appelli – solo tre all’anno – a disposizione degli studenti. Lo stesso avvenuto in Puglia il 21 dicembre, quando gli studenti dell’Accademia di belle arti di Foggia hanno appeso drappi neri sulla facciata dell’istituto, “vestendo a lutto” un’istituzione agonizzante. E anche i corregionali dell’Accademia di Lecce hanno protestato. Gli studenti di Urbino hanno invece aperto un sito-parodia che esorta a inviare biglietti di auguri al ministro dell’Istruzione, riportando le proprie lamentele. Il dato di fatto è che oggi le belle arti vengono considerate, non solo dall’opinione pubblica ma dalle istituzioni in primis, come un campo in cui sfogare le proprie velleità individuali e nulla più.

Al di là dei disagi degli ultimi mesi, le problematiche burocratiche legate alle Accademie hanno radici profonde. Gli istituti riconosciuti per legge sono pochi: solo venti accademie statali e venticinque scuole private. Ma non basta frequentare uno di questi istituti per dirsi universitario, chi esce dall’accademia non si laurea, ma si ritrova con un diploma. Le accademie italiane afferiscono all’AFAM – acronimo per Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica (quest’ultima disciplina assente, che sia anch’essa non riconosciuta?) – che rilascia un titolo equipollente alla laurea universitaria.L’AFAM è stato istituito nel 1999 ma a vent’anni di distanza, solo nel 2019 il governo ha riconosciuto il valore di alcuni percorsi di studi. Fino a qualche mese fa, infatti, i diplomi del vecchio ordinamento non era riconosciuti come validi. Allo stesso modo, manca ancora il riconoscimento dell’equipollenza dei diplomi di corsi di studio sperimentali presi prima del ’99. Con una situazione giuridica così incerta non stupisce che l’accademia sia percepito come un percorso di studi poco “sicuro” dagli studenti. Allo stesso modo è possibile che i datori di lavoro guardino ai diplomi artistici come a lauree di serie B, perché non si portano dietro quel riconoscimento di lungo corso che invece è appannaggio delle lauree universitarie.

Marco D’Amelio e Vittorio Marini, fra gli ideatori della protesta di Foggia, puntano il dito sugli inceppi burocratici della regolamentazione accademica: “L’intero comparto AFAM è regolamentato dalla Legge 508/99: un decreto pieno di lacune che troppo spesso costringe le istituzioni a una continua comunicazione con il Miur: ne consegue una burocrazia decisamente lenta e continui ritardi”. Da questo si originano i disagi per gli studenti: “A livello locale – continuano – otteniamo una sfavorevole strutturazione della didattica: le nomine dei docenti in organico vengono comunicate a novembre inoltrato e non permettono l’inizio dell’anno accademico con regolarità; il calendario esami non garantisce più di 3 sessioni con un appello ciascuna”. Nelle università, pur variando di facoltà in facoltà, ci sono non meno di sei appelli, il doppio delle accademie.

Rimostranze simili sono avanzate dagli studenti di Verona, che chiedono l’adeguamento dei corsi post-diploma, e quindi l’istituzione di master per la ricerca artistica e veri e propri dottorati di cui al giorno d’oggi l’accademia è priva. È chiaro che mancando una vera e propria laurea, manca anche la possibilità di costruirsi una carriera nell’ambito della ricerca, all’interno di un sistema simile a quello universitario.

Gli studenti sono scontenti perché si sentono relegati in un percorso di studi considerato minoritario, e per questo afflitto da carenze strutturali che nessuno sembra aver voglia di risolvere. Allo stesso modo i docenti non possono operare in un contesto didattico solido, vedendo il proprio lavoro svalutato dalla situazione contrattuale di precariato. Ma nemmeno gli amministratori si dicono tranquilli, perché devono fare i conti con le mancanze finanziarie degli istituti e con la consapevolezza di essere in una posizione di sudditanza rispetto al comparto universitario. Uno statuto minoritario che si fa cronico e porta le accademie a puntare alla sopravvivenza, piuttosto che all’eccellenza didattica.

Salvo Bitonti, a capo per sei anni dell’Accademia Albertina di Torino (una delle più attive nelle proteste di questi mesi), fa risalire il problema a una disfunzione di carattere storico: “È una vexata quaestio che ha radici lontanissime, probabilmente andando indietro nel tempo ci si può riferire al pensiero gentiliano di impronta idealistica che privilegiava l’aspetto teorico dell’insegnamento a scapito dell’azione pratica. In tutta Europa le istituzioni di Belle Arti sono facoltà universitarie a tutti gli effetti”. Questo ha conseguenze dirette sulla situazione di alunni e docenti e sul corretto funzionamento delle accademie, “i nostri titoli di studio sono equipollenti ma manca ancora lo status di studente universitario ai nostri studenti, cosa gravissima, e manca di conseguenza l’equiparazione giuridica-economica dei nostri docenti ai colleghi universitari.”

Se circa la metà degli insegnanti delle accademie lavora attraverso contratti co.co.co, questo vuol dire che sono tenuti a lavorare come docenti ordinari, proprio come i loro colleghi universitari, ma che non hanno le stesse tutele. Non possono avvalersi della maturazione dei titoli di servizio, del congedo parentale, dei giorni di malattia, poiché il loro è un semplice contratto a prestazione. C’è un problema di percezione del lavoro svolto delle accademie, e nonostante i lenti adeguamenti giuridici dei titoli, a essi per il corpo docente non è consegue quello contrattuale.

I fondi sono pochi e questo porta il sistema delle Accademie e il comparto universitario a fronteggiarsi in una sorta di guerra istituzionale fra poveri. “Sicuramente la prima ostilità,” continua Bitonti, “viene proprio dal sistema universitario italiano, che teme di perdere una parte dei fondi, quelli ai quali noi ora non possiamo accedere. A questo si aggiunge la latitanza storica della politica sulla questione”. D’altronde non può essere altrimenti in un Paese che risulta tra gli ultimi in Europa per la spesa sull’istruzione. L’Italia destina alla scuola solo il 4,1% del Pil: con una spesa così bassa è impossibile pensare di ovviare ai problemi dei vari segmenti dell’istruzione, dalla scuola dell’obbligo all’università, passando per le accademie.

Di recente Vittorio Politano, Direttore dell’Accademia di belle arti di Catanzaro, ha indirizzato una lettera aperta ai neoministri di Istruzione e Università Azzolina e Manfredi per ricordare le priorità delle Belle arti italiane. Politano sottolinea che l’AFAM è composto da 145 istituti nei quali lavorano 8500 docenti, a fronte di un numero complessivo di 70mila studenti. Sono numeri che evidenziano la vastità del comparto accademico e l’esiguo raggio d’azione di un corpo docente ridotto all’osso. Una situazione di emergenza aggravata dal disinteresse della politica, impegnata nel solito valzer di poltrone fra ministri dimissionari e altri pronti a prendere il posto.

Fra titoli di studio riconosciuti come validi con enorme ritardo e i vari professionisti dell’arte costretti al precariato, a farne le spese è la percezione dell’arte stessa in Italia. Il concetto di arte è volubile, e non è detto che tutti gli artisti futuri escano dalle accademie, ma un disinteresse così evidente verso questi luoghi esclude a priori la possibilità che siano spazi creativi e formativi. Ci ritroviamo dunque con un grande patrimonio culturale da salvaguardare, ma allo stesso tempo facciamo intendere che non ci interessi allo stesso modo formare giovani artisti, come in una sorta di ossessione passatista. E se già le lauree umanistiche sono svalutate sul mercato del lavoro, i diplomi artistici risultano essere l’ultima ruota del carro, una scelta sbagliata per chi ha voluto seguire le proprie inclinazioni, un ambito di cui le istituzioni si occupano a malavoglia.

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