Quando dico di non volere figli, la maggior parte delle persone mi risponde che sono troppo giovane per saperlo e che fra una decina d’anni, quando raggiungerò i fatidici trenta, cambierò idea, perché prima o poi arriverà il fantomatico “Istinto Materno”. Non ho mai provato il desiderio di essere madre, non ho mai provato tenerezza di fronte a un bambino, voglio fare mille cose nella vita tranne che svegliarmi alle tre di notte per accudire un neonato, non faccio corrispondere la mia idea di realizzazione personale alla procreazione. Insomma, diventare madre non fa per me. Nemmeno quando ero bambina mi divertivo a giocare con i bambolotti, al contrario di molte mie coetanee che amavano imitare la mamma alle prese con pannolini e biberon. Spesso mi sono chiesta cosa ci sia in me che non vada, perché tante altre ragazze che conosco abbiano questo desiderio, e io no.
Evito il più possibile di parlare di questa cosa in pubblico, un po’ perché è capitato che i miei interlocutori mi prendessero come una sorta di mostro egoista, un po’ perché la mia unica reazione alla frase “Prima o poi l’istinto arriverà” è ormai una poderosa alzata di occhi al cielo. Questa è d’altronde la risposta che si sentono dare molte donne che esprimono la volontà di essere child free. “Prima o poi l’istinto arriverà”, come se fosse una grazia del cielo o Babbo Natale. Il punto è che l’istinto materno non arriverà mai, perché proprio come il vecchietto con la barba bianca e l’abito rosso, non esiste.
Parlare di istinto materno o, meglio, della sua assenza in Italia è un tabù. In un Paese in cui la questione della natalità viene affrontata con una farsa imbarazzante come quella del Fertility Day, con tanto di opuscoli raffiguranti clessidre per ricordare che il tempo scorre e che il tuo utero ha una data di scadenza, o in cui si permette alle associazioni pro-vita di appendere enormi manifesti in cui si paragona l’aborto al femminicidio, qualsiasi discorso riguardante la complessità della maternità si perde in lotte ideologiche e moralismi. Dopotutto, come afferma la sociologa Orna Donath nel suo saggio Regretting Motherhood: A Sociopolitical Analysis, non si può parlare di maternità senza ricollegarla all’amore nei confronti dei bambini, che nel contesto delle società contemporanee occidentali è considerato “sacro” ed è visto come “un test della morale femminile”. Così, l’associazione tra l’amore e la maternità viene istituzionalizzata e una “buona donna”, capace cioè di sentimenti buoni, è anche automaticamente una “buona madre”. Ovviamente, chi non adora i bambini non può che essere “cattiva”.
L’amore nei confronti dei bambini sembra uno di quei valori assoluti e intoccabili, che dev’essere sempre manifesto e totalizzante. Chi non è capace di questo amore è spesso preso dal senso di colpa che deriva dalla sensazione di inadeguatezza, dall’incapacità di aderire alla norma sociale che vuole la donna sempre e solo una buona madre. Il senso di colpa secondo Donath è una sorta di “condizione necessaria per la preservazione dell’ordine sociale”: se non vuoi figli perché ti vuoi concentrare sulla carriera o perché sei terrorizzata dal parto o perché non vuoi essere responsabile di un’altra creatura, almeno sentiti in colpa. Questo perché il mito della maternità è una forma di mantenimento dello status quo, atta a dividere il mondo in maniera piuttosto superficiale nelle due categorie: buone madri piene d’amore contro donne cattive piene di senso di colpa. L’istinto materno è la carta jolly, che la gente di solito sfodera per controbattere alla decisione logica e razionale di una donna childfree. L’istinto è, nella credenza comune, qualcosa di naturale e innato a cui, volenti o nolenti, non ci si può opporre.
Molti studi, a partire dal saggio del 1979 Is there such a thing as “maternal instinct”? di David Cutts, hanno posto in dubbio che l’istinto materno – o meglio quell’insieme di credenze e luoghi comuni associati alla maternità che viene impropriamente definito “istinto materno” – esista. Non esiste nemmeno una definizione moderna di questo fenomeno, che è assente nelle enciclopedie, ma che possiamo trovare ancora nell’edizione del 1971 del dizionario Larousse, dove viene definito “una tendenza primordiale che crea, in ogni donna normale, un desiderio di maternità e, una volta soddisfatto questo desiderio, spinge la donna a badare alla protezione fisica e morale dei figli”. Tralasciando l’inciso che parla di “donne normali” e che ancora perpetra quella divisione manichea di cui si parlava sopra, il desiderio di maternità non è affatto una tendenza primordiale.
Secondo la sociologa Laura Kipnis, l’istinto materno è un costrutto sociale nato intorno all’epoca della Rivoluzione Industriale. Prima le donne avevano molti figli per motivi pratici ed economici: più figli equivalevano a più braccia per lavorare. Il rapporto con loro era quanto di più diverso potesse esistere dalla classica famiglia felice. Spesso, nelle famiglie più abbienti, a poche ore dal parto i neonati venivano affidati alle balie e crescevano lontano dalle madri, che comunque tendevano a mantenere con loro un forte distacco emotivo. Gli studiosi, in proposito, arrivano a parlare, in riferimento al XVIII secolo, di “mancanza di sentimento dell’infanzia”, una rassegnazione totale delle famiglie di fronte alla morte dei bambini, a causa dell’altissimo tasso di mortalità. Con la svalutazione del valore economico dei figli, in conseguenza alla maggiore disponibilità di lavoro, e con la ridefinizione dei ruoli maschili e femminili – uomini in fabbrica, donne in cucina – i figli cominciarono a diventare un peso e non più una risorsa, di cui si doveva occupare solo e unicamente chi restava in cucina, ovvero la madre. Poiché smettere di procreare sembrava impossibile e assurdo, si optò per una “romanticizzazione” della maternità, di modo che le donne non fossero più obbligate a fare figli per necessità, ma per vocazione. Insomma, quando i figli non servivano più ad aumentare il patrimonio del nucleo famigliare, con il loro lavoro nelle famiglie più povere o con il matrimonio in quelle più ricche, l’affetto e l’amore della madre sembravano le uniche ragioni plausibili per la loro esistenza.
Ma se l’istinto materno non esiste, com’è che siamo in 7 miliardi su questo pianeta? La risposta è molto semplice. La biologia ci ha insegnato che ogni essere vivente, vegetale o animale che sia, essere umano compreso, è spinto a trasmettere il proprio codice genetico. Questo tuttavia non riguarda esclusivamente gli individui femminili. Da un punto di vista evolutivo, però, l’uomo si è differenziato dagli animali. Mark Elgar, professore di Biologia evolutiva all’Università di Melbourne, fa notare come il motore di tutto sia il desiderio sessuale e non un non meglio chiarito “istinto materno”. In una popolazione animale, una preferenza genetica che ripudi il sesso non può stabilirsi o mantenersi, perché gli individui sessualmente inattivi non possono conservarsi. Ma l’uomo, sfruttando le sue caratteristiche evolutive, ha trovato alcuni modi ingegnosi per continuare a fare sesso senza riprodursi. Tramite la contraccezione, gli uomini sono riusciti a scindere il sesso dalla riproduzione. Quindi, in termini di evoluzione biologica, una preferenza genetica per l’attività sessuale non può equivalere all’istinto materno. Se fosse il solo istinto di conservazione a guidarci, le persone childfree non sarebbero interessate al sesso. Non so voi, ma io lo sono abbastanza.
Non esiste nessun istinto materno, nel senso che non c’è nessuna “tendenza primordiale al desiderio di maternità”, come invece si sosteneva sul dizionario Larousse. Al massimo c’è un desiderio di riprodursi e un desiderio di trasmettere il proprio codice genetico, che però non riguarda solo le femmine, ma indistintamente tutti gli individui. È comunque innegabile che moltissime persone, di fronte alla vista di un neonato, siano prese da sentimenti di tenerezza e di cura. Questo accade perché a entrare in gioco è un ormone di origine proteica, l’ossitocina, che promuove il legame tra adulto e cucciolo. Nel saggio Psicobiologia dello sviluppo di Berardi e Pizzorusso, vengono illustrati alcuni esperimenti con i ratti che hanno dimostrato l’importanza di questo ormone: vedere un piccolo indifeso stimolerebbe la produzione di ossitocina nei topi adulti, anche nel caso in cui il cucciolo in questione non sia il proprio. L’ossitocina è lo stesso ormone che viene prodotto durante il travaglio e che stimola la lattazione, ma viene prodotto anche dai maschi e più in generale ogni volta che si fa sesso. Questo, ovviamente, non significa che la presenza dell’ossitocina sia la prova dell’esistenza dell’istinto materno, come hanno titolato alcuni articoli riferendosi alla ricerca della NYU Skirball Institute of Biomolecular Medicine, che si è limitata a dimostrare quali aree del cervello sono coinvolte nel comportamento materno. L’ossitocina si attiva anche alla vista di un cucciolo di un’altra specie ed è il motivo per cui siamo tutti ossessionati dai gattini.
Insomma, ossitocina o no, l’istinto materno non è affatto qualcosa di innato: anche volendo ammettere che esista, non è detto che tutte le donne, senza eccezioni, lo debbano sentire. Più che un fatto biologico, è un costrutto sociale che ha origini storiche ben precise. Simone de Beauvoir, ne Il secondo sesso, pubblicato nel 1949, ha dimostrato come i pregiudizi sociali e biologici legati alle donne abbiano contribuito a relegarle in una posizione secondaria. Questo perché non basta la maternità a spiegare la condizione femminile, bisogna necessariamente sommare a essa il contesto socio-economico-patriarcale in cui è stata inserita nella Storia. Oggi la donna è libera di decidere molti aspetti della sua vita e di esercitare i suoi diritti civili, ma la maternità sembra ancora un tasto dolente. Chi sceglie di essere madre, chi non può esserlo e chi sceglie di non riprodursi è parimenti vittima del mito dell’istinto materno. Le madri devono continuamente competere fra loro per dimostrare chi sia la migliore, la più brava a perseguire quell’istinto inesistente. Chi non può avere figli è continuamente frustrata dal senso di colpa per non aver potuto realizzare quel desiderio. Chi non vuole assolutamente avere figli si sentirà continuamente in dovere di dare spiegazioni. Il desiderio di fare un figlio certamente esiste ed è una sensazione profonda, vera e bellissima, ma non è un desiderio esclusivamente femminile e non è legato a chissà quale caratteristica biologica, tanto che sembra che sempre più spesso siano gli uomini a voler mettere al mondo un bambino. Nessuna di noi si deve sentire in colpa nei confronti dell’istinto materno. Con buona pace del dizionario Larousse, madri o non madri, siamo tutte donne normali.