Mentre l’Europa si trova a gestire la seconda ondata del COVID-19 e gli Stati Uniti hanno sfondato il tetto degli 80mila contagi al giorno, Israele ha iniziato ad alleggerire il lockdown imposto per il capodanno ebraico. Alla popolazione il premier Benjamin Netanyahu ha presentato come “un successo” la sua gestione dell’emergenza sanitaria, che ha portato a due chiusure totali nazionali in poco più di un semestre. Se non bastasse, Israele figura insieme a Belgio e Svezia tra i Paesi occidentali più avanzati e meno popolosi maglia nera per incidenza di casi e morti da COVID-19 (oltre 2300), nonostante il territorio limitato e le eccellenze medico-scientifiche schierate per gestire la pandemia. Paesi arabi confinanti come la Giordania e il Libano sono finora riusciti a rallentare i contagi e contano poche centinaia di morti, nonostante i mezzi sanitari e tecnologici più limitati a disposizione e la povertà molto più diffusa tra la popolazione. Nel 2020 la Giordania ha dovuto rinunciare alla sua pressoché unica risorsa economica del turismo, mentre il Libano è alle prese con l’ennesima crisi di governo, con il collasso finanziario e la ricostruzione del porto di Beirut distrutto dalle esplosioni del quattro agosto. Al confronto, lo Stato ebraico avrebbe potuto spiccare come la Nuova Zelanda del Medio Oriente, modello mondiale nella gestione della pandemia.
Contro il COVID-19 Israele ha subito messo in campo anche l’apparato della Difesa. Dalla primavera il governo israeliano svolge – su mandato parlamentare, ma non senza ragionevoli obiezioni sulla tutela della privacy dei suoi cittadini – il tracciamento di massa dei contatti dei positivi attraverso il monitoraggio dei cellulari da parte dello Shin Ben, l’intelligence interna; parallelamente l’intelligence esterna del Mossad contribuisce a rifornire gli ospedali con attrezzature e materiali medici. A nuovi test rapidi per rilevare il virus lavora poi, per esempio, la squadra del generale di brigata a capo del Dipartimento della Difesa sull’Innovazione Daniel Gold, già mente del sistema antimissilistico Iron Dome. Come negli Stati Uniti, centri di ricerca e società farmaceutiche sono a buon punto negli esperimenti sul vaccino e su nuovi farmaci. Le risorse a disposizione non hanno tuttavia impedito a Israele di superare, a fine settembre, gli Stati Uniti nel rapporto morti per COVID-19 per milione di abitanti (una media di 3,5 deceduti contro i 2,2 statunitensi); sempre nel picco autunnale, nello Stato ebraico si è toccato il record mondiale di nuove infezioni giornaliere pro capite.
Una delle ragioni fondamentali per cui lo Stato ebraico non sta reggendo l’urto della pandemia sono le condizioni sociali della grande minoranza discriminata degli arabo-palestinesi, che formano il 21% della popolazione israeliana, e le diseguaglianze crescenti anche all’interno delle comunità ebraiche. Uno dei riflessi di questi squilibri è che ancora oggi il sistema sanitario nazionale non riesce a offrire la stessa qualità di cure a tutti gli oltre nove milioni di abitanti, nonostante dalla riforma sanitaria nazionale del 1995 sia in teoria garantita a tutti i cittadini un’assistenza medica di base. L’obiettivo fallisce anche perché le politiche neoliberiste degli ultimi decenni hanno orientato il welfare israeliano verso una gestione sempre più mista tra pubblico e privato. La riforma di 25 anni fa ha infatti istituito un sistema di assicurazioni obbligatorie per i cittadini che – pur pagate annualmente dallo Stato attraverso il fisco a mutue senza fini di lucro, tenute ad accettare cittadini di qualunque etnia e religione – operano tra loro in un regime di competizione e di forte integrazione con il settore privato. Le strutture sanitarie pubbliche israeliane possono di conseguenza stipulare convenzioni e consulenze con centri privati, anche per sopperire alla loro cronica carenza di medici di base e di altro personale sanitario. Oppure possono loro stesse offrire prestazioni private per sostenersi economicamente.
Un’altra criticità segnalata nei rapporti dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (Ocse) sono i pochi posti letto a disposizione negli ospedali israeliani (circa tre ogni mille abitanti). E più in generale il sistema sanitario israeliano figura al di sotto degli standard dei Paesi occidentali per finanziamenti pubblici: solo il 60% dei suoi costi è coperto dallo Stato. Un altro modo per far fronte alla spesa sanitaria è l’aumento progressivo negli anni di ticket per le visite specialistiche ed esami diagnostici, sempre meno riconosciuti come “cure essenziali”. Sempre in questi anni si è moltiplicata l’offerta delle assicurazioni integrative private, alle quali però in genere non si appoggiano gli oltre 1,8 milioni di arabo-israeliani che per il Central Bureau of Statistics (Cbs) nel 2018 avevano ancora un reddito pari al 65,6% di quello degli ebrei loro concittadini. Anche a causa del loro livello medio di istruzione più basso, gli israeliani di origini palestinesi non sono a conoscenza di tutte le cure mediche a loro disposizione e vivono spesso confinati in quartieri poveri e densamente popolati, soffrendo di obesità, diabete e problemi cardiaci con un’incidenza molto più alta degli altri israeliani. Tutto questo si traduce anche in un’aspettativa di vita di almeno quattro anni più bassa di quella dei connazionali ebrei. Uno studio pubblicato a settembre sull’International Journal for Equity in Health sulle caratteristiche socio-demografiche del COVID-19 in Israele ricostruisce come in questi mesi anche l’andamento dell’epidemia ricalchi i grandi divari sociali interni, una forbice che non riguarda solamente ebrei e palestinesi.
Se infatti a settembre, alla vigilia del secondo lockdown, i presidi medici segnalavano un tasso di infezioni tra gli arabo-israeliani pari a circa il 30% del totale nazionale, all’inizio di ottobre il commissario israeliano per l’emergenza del coronavirus Ronni Gamzu ha sottolineato che circa il 40% dei nuovi casi si registravano tra la comunità ultraortodossa degli haredim, oltre un milione e 100mila di cittadini dello Stato. Questo 12% della popolazione, riporta uno studio economico Ocse del 2018 che fotografa anche le diseguaglianze, costituisce un’altra fascia svantaggiata nella società, come quella araba in espansione grazie all’elevata natalità. Oltre il 50% degli haredim vive al di sotto della soglia di povertà dato che l’osservanza estrema dei precetti religiosi obbliga la gran parte degli uomini ultraortodossi a non lavorare. Durante i lockdown gli haredim hanno dichiaratamente continuato a riunirsi per celebrare i riti e riaperto in anticipo le loro scuole, violando sistematicamente il divieto di spostamenti e di assembramenti.
Le decine di migliaia di migranti sans papiers e richiedenti asilo, che per legge non hanno accesso alle assicurazioni gratuite, rappresentano poi un altro anello debole nella catena di tracciamento dei casi. Di fatto, lo scarso controllo sanitario di un terzo dei suoi abitanti rende Israele sempre vulnerabile alla ripresa dei contagi. Un rischio epidemiologico aggravato, come negli Stati Uniti, anche dalle proteste di piazza contro Netanyahu: già alla mezzanotte del 18 ottobre, scattata la parziale riapertura, migliaia di israeliani sono corsi a chiedere le dimissioni del premier davanti alla sua residenza a Gerusalemme. Altre centinaia di dimostranti, soprattutto giovani, avevano sfilato una settimana prima a Tel Aviv contro il governo, sfidando il lockdown. La tensione nel Paese è infatti sempre più alta: dall’inizio della pandemia oltre un milione di israeliani è senza impiego (ossia circa il 24% della forza lavoro, secondo i numeri dell’Israeli Employment Service, mentre a febbraio la quota ammontava a meno del 4%) e la metà di loro ha meno di 34 anni. In particolare Tel Aviv si sta svuotando di startupper e lavoratori dei locali che, privi di contratti da dipendenti e coperture assistenziali, stanno lasciando la città per tornare a vivere con i genitori.
Solo a luglio il governo israeliano ha aggiunto un sussidio fino all’estate del 2021 per gli autonomi e i precari, ma le misure sono state considerate tardive e insufficienti rispetto a quelle di altri Paesi. Anche per questo è inevitabile che soprattutto tra le nuove generazioni continui a crescere la rabbia verso il premier, riuscito ancora una volta a rimanere al potere cavalcando l’emergenza del COVID-19. L’ultimo esecutivo di larghe intese formato con il rivale centrista Benny Gantz dopo le terze elezioni anticipate in un anno è nato ad aprile in extremis per non lasciare Israele senza governo nel pieno della pandemia. Anche allora Netanyahu aveva rivendicato il “grande successo” del primo lockdown, salvo poi concentrarsi subito dopo sulla ripartenza economica e, ancor di più, sulla chiusura dell’accordo di Abramo con gli Stati Uniti per normalizzare le relazioni con i Paesi arabi del Golfo arabo e isolare ancora di più la Palestina nel panorama internazionale. Archiviata la retorica della “battaglia al COVID-19” una volta tornato al potere, già a maggio Netanyahu ha sottovalutato la diffusione del virus: la gestione incoerente dell’emergenza ha fatto sì che i contagi in Israele risalissero nell’estate, costringendo già a settembre la popolazione a un lockdown più duro del primo.
Ora l’uscita dal secondo confinamento è prudente e graduale: le scuole israeliane restano in parte chiuse, gli accessi a luoghi pubblici sono limitati, i bar e i ristoranti aperti solo per l’asporto. In tanti in Israele, e per primo probabilmente Netanyahu, temono che la curva dell’epidemia riprenda forza. Al contrario di Paesi piccoli e assai più poveri, l’eccellenza di stampo liberista israeliana sta fallendo. In questa pandemia Israele fa i conti con il suo imprinting di Stato sempre più confessionale, ideologicamente fondato sulla divisione etnico-religiosa. Caratteristiche che a causa della pandemia non stanno danneggiando solo la fascia più debole della popolazione, ma l’intero Stato.