Negli ultimi giorni il tema dell’antisemitismo è tornato alla ribalta in Europa. È dello scorso 19 febbraio la notizia della profanazione di un cimitero ebraico in Francia, e nemmeno a una settimana prima risalgono gli insulti al filosofo Alain Finkielkraut durante una manifestazione dei Gilet gialli. Se il primo caso è sicuramente un atto di antisemitismo esplicito – un reato in crescita preoccupante in Francia e Germania – il secondo, seppur diretto al filosofo in maniera verbalmente violenta, potrebbe essere letto come un gesto di critica alla politica di Israele. L’evento ha aperto un dibattito sull’antisemitismo in cui questa ideologia razzista è stata spesso confusa con l’antisionismo, sia da politici francesi che dalla stampa.
Antisemitismo e antisionismo, però, non sono posizioni assimilabili. L’antisemitismo come lo conosciamo oggi è nato circa a metà Ottocento, anche se le sue radici risalgono al Medioevo: si tratta di un’ideologia che considera gli ebrei geneticamente inferiori rispetto alle popolazioni dell’Europa occidentale o degli Stati Uniti d’America. Il termine venne coniato da Wilhelm Marr, conservatore tedesco e fondatore della Lega Antisemita, che nel 1879 scrisse Der Weg zum Siege des Germanentums über das Judentum (La strada verso la vittoria del Germanismo sul Giudaismo). Le idee di Marr ebbero grande diffusione in Francia, dove nello stesso periodo stava crescendo un diffuso movimento d’opinione antiebraico che culminò nell’Affaire Dreyfuss. L’antisemitismo si propagò in tutta Europa fino alla Russia, dove, a inizio Novecento, l’Ochrana, la polizia segreta zarista, scrisse i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un grande classico del complottismo recentemente tornato alla ribalta in Italia per le dichiarazioni dell’onorevole Lannutti. Si tratta di un falso storico attribuito a una fantomatica organizzazione massonico-ebraica che avrebbe avuto l’obiettivo di impadronirsi del mondo. Diffuso tra la popolazione dell’Impero, il pamphlet doveva screditare soprattutto i dirigenti dei partiti antizaristi e in particolare menscevichi e bolscevichi che erano in larga parte di origine ebraica. Negli ambienti conservatori europei, a questa cospirazione venne imputata, ad esempio, l’organizzazione della Rivoluzione Russa del 1905 e, alcuni anni dopo, perfino la Rivoluzione d’Ottobre.
In generale si può definire l’antisemitismo un’ideologia razzista costruita attorno all’idea del capro espiatorio: agli ebrei venivano imputati tutti i mali del mondo, dalle crisi politiche a quelle economiche, dalle rivoluzioni contro l’ordine costituito alle sconfitte militari. Negli anni successivi, questa narrazione attorno alle comunità ebraiche costituì l’humus dello sviluppo delle politiche razziali del regime nazista tedesco o di quello fascista in Italia. Questa narrazione infatti ancora oggi sopravvive nelle organizzazioni neofasciste e neonaziste e pare stia avendo un certo revival anche nell’Est Europa.
L’antisionismo invece è un fenomeno del tutto diverso. Prima del 1948, anno della fondazione dello Stato di Israele, il sionismo era un movimento nazionalista ebraico che propagandava la necessità della costruzione di uno Stato ebraico in Palestina, all’epoca sotto mandato britannico, in contrapposizione all’ondata di antisemitismo che stava interessando l’Europa. I sionisti consideravano gli ebrei un popolo con una propria identità nazionale, e non soltanto un gruppo religioso. Ne conseguiva che anche gli ebrei avessero diritto a uno Stato in cui determinarsi. Questa idea non era però condivisa da tutti gli ebrei d’Europa: molti di loro si sentivano tedeschi, italiani, francesi da generazioni. Non consideravano la propria religione un fattore etnicizzante, o comunque un fattore abbastanza forte da renderli una comunità separata da quella nazionale in cui erano inseriti. Ma la crescita dell’antisemitismo in Europa e la Shoah spinsero molti di loro ad abbracciare l’idea di uno Stato nazionale ebraico.
La nascita di Israele dopo la seconda guerra mondiale diede via a una guerra fra i partiti sionisti e gli abitanti della Palestina, che vennero cacciati dalle terre dove doveva sorgere il nuovo Stato, in quello che si potrebbe dire un processo di pulizia etnica, come lo definì lo storico israeliano Ilan Pappe. La creazione da zero di un’identità nazionale si concretizzò nella distruzione degli insediamenti palestinesi, in massacri indiscriminati, in un esodo forzato da quelle terre. I loro abitanti ancora chiamano quegli avvenimenti “Nakba”, termine ebraico il cui significato (“tragedia”) lo rende drammaticamente simile al termine Shoah, usato per le persecuzioni naziste ai danni degli ebrei.
Già all’epoca, numerosi intellettuali si schierarono contro queste politiche discriminatorie nei confronti dei palestinesi che, sempre secondo lo storico Ilan Pappe, erano state decise dalla leadership dei partiti sionisti già negli anni Trenta. Albert Einstein, insieme ad altri intellettuali ebrei tra cui Hannah Arendt, pubblicò una lettera di protesta sul New York Times il 4 dicembre 1948, pochi mesi dopo la dichiarazione d’indipendenza di Israele, mentre centinaia di villaggi palestinesi venivano demoliti dopo l’espulsione dei loro abitanti. La lettera denunciava il nuovo partito di destra Herut e il suo giovane leader Menachem Begin, a cui in seguito venne conferito il Premio Nobel per la Pace. Herut proveniva dall’Irgun, il famigerato gruppo terroristico noto per i numerosi attacchi contro le comunità arabe palestinesi. Nella lettera, Einstein e colleghi descrivevano Herut come un partito politico che, per la sua organizzazione, i metodi, la filosofia politica e l’approccio populista era strettamente affine a quello nazista e fascista. Anche un sopravvissuto alla Shoah fece sentire la propria voce: Marek Edelman, che combatté nella rivolta del Ghetto di Varsavia, si oppose alla creazione di uno Stato ebraico restando a vivere in Polonia fino alla fine dei suoi giorni.
Dopo il 1948 il sionismo, avendo formalmente raggiunto il proprio obiettivo, divenne un movimento internazionale di sostegno all’esistenza dello Stato di Israele e alle sue politiche di discriminazione nei confronti del popolo palestinese, giustificate in nome della difesa del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico. Allo stesso modo anche oggi l’antisionismo è sostenuto da numerosi ebrei che di certo non possono essere tacciati di antisemitismo. Prendiamo come esempio Norman G. Finkelstein: storico e politologo statunitense di origini ebraiche, ha dichiarato più volte che la Shoah – che vide coinvolta tutta la sua famiglia – non può essere paravento per le violenze che Israele perpetra ai danni dei palestinesi. Lo stesso Noam Chomsky, uno dei più grandi linguisti viventi, si è opposto al sionismo ebraico, spiegando i legami fra la nascita di Israele e gli interessi geopolitici degli Stati Uniti d’America, ma anche con il cosiddetto sionismo cristiano di numerosi membri delle amministrazioni americane sotto Roosvelt, Truman, Wilson. Chomsky fa esplicito riferimento a figure come Harold Ickes che, in quanto cristiano osservante, credeva che il ritorno in Palestina degli ebrei fosse il compimento di uno dei dettami dell’Antico Testamento. Ickes fece di tutto per favorire la fine della diaspora ebraica, e paragonò i coloni sionisti in Palestina ai profughi protestanti che giunsero in America nel 1620 a bordo della nave Mayflower.
Ma non si tratta solo di voci isolate fra gli intellettuali: nel 2011 migliaia di manifestanti israeliani e palestinesi hanno marciato a Gerusalemme per dichiararla capitale di tutti, multireligiosa e multiculturale. Nel 2014, in una lettera pubblicata dal New York Times, 327 tra sopravvissuti e discendenti di vittime della Shoah hanno condannato gli attacchi dell’esercito israeliano contro la Striscia di Gaza nell’ambito dell’operazione Piombo Fuso. Del resto a Gerusalemme esistono da decenni gruppi di ebrei ortodossi che si oppongono all’esistenza stessa dello Stato d’Israele: è il caso dei Neturei Karta che rifiutano di prendere parte alle elezioni per la Knesset e di ricevere fondi dallo Stato sulla base di una rigida interpretazione della Torah. Come ha spiegato lo storico Furio Biagini in un suo recente volume, questo movimento religioso ha migliaia di affiliati sparsi in tutto il mondo, dal quartiere di Mea Shearim a Gerusalemme fino a comunità negli Usa e in Italia.
C’è quindi un movimento d’opinione internazionale che critica le politiche dello Stato di Israele e discute sulle possibili soluzioni della situazione in Palestina. Un movimento che ha molte anime, ma che non può essere in alcun modo assimilato al razzismo e all’antisemitismo.