La portaerei nucleare statunitense Uss Abraham Lincoln, con i suoi 40 cacciabombardieri, sta facendo rotta verso lo Stretto di Hormuz, una sottile lingua di mare che separa l’Iran dall’Oman. Presto la nave sarà raggiunta dalla Uss Arlington, con la sua dotazione di jet e mezzi anfibi. La strategia statunitense messa in moto per contrastare l’influenza iraniana in Medio Oriente è molto simile a quella seguita nel 2017 da Donald Trump contro il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un, ma in questa regione gli sviluppi potrebbero essere completamente diversi a causa del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, noto anche con l’acronimo Mbs.
I rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita sono caratterizzati da una stretta collaborazione che prosegue dagli anni Trenta: la famiglia Saud ha unito le forze con l’alleato per combattere i sovietici in Afghanistan, ha sostenuto l’intervento statunitense durante le due guerre del Golfo e compra regolarmente armamentari recuperati dai magazzini del Pentagono. I rapporti si sono incrinati solo con l’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama, soprattutto dopo la firma del nuclear deal con l’Iran, storico rivale dell’Arabia Saudita nella regione mediorientale.
Grazie alla pressione dei lobbisti sauditi, l’amministrazione Trump sostiene sin dal suo insediamento nel 2016 il principe bin Salman, che ha lavorato nel corso degli anni per presentarsi all’Occidente come un riformatore moderato. Tre anni fa ha dato il via alla Saudi Vision 2030, un programma di riforme sociali e politiche che, tra le altre cose, ha permesso per la prima volta alle cittadine saudite di guidare. Nel 2017 l’alleanza tra Riyadh e Washington é stata rafforzata con un accordo commerciale da 350 miliardi di dollari.
Nonostante l’immagine pubblica, sono molte le indiscrezioni che hanno accompagnato l’ascesa di bin Salman. Fino al giugno 2017, il ruolo di principe ereditario era ricoperto da Mohammed bin Nayef, allora anche primo ministro del Paese, salvo poi rinunciare a ogni ruolo istituzionale per volere del re Salman bin Abdulaziz. Il mese successivo, il New York Times sosteneva che bin Nayef sarebbe stato imprigionato e torturato per costringerlo a rinunciare alle sue cariche. Il governo saudita ha smentito la ricostruzione, limitandosi a dichiarare che Nayef ha approvato la sostituzione “per i migliori interessi della nazione”.
Quale che sia la verità, re Salman bin Abdulaziz ha forzato il sistema per assicurarsi che il figlio, Mbs gli succeda al trono. Stando alle regole di successione saudite, una mossa simile è da considerarsi al limite dell’usurpazione: il re ha volontariamente scavalcato la scala gerarchica basata sull’anzianità per favorire Salman, intaccando i fragili equilibri della numerosa famiglia al Saud. Molti, tra nobili e potenti, hanno sollevato obiezioni e rimostranze per quanto accaduto. In risposta, nel novembre 2017, il principe Salman ha creato una commissione anti-corruzione: nel giro di pochi mesi sono stati prelevati e incarcerati nell’hotel Ritz-Carlton di Riyad ben 381 personalità del Paese. A fine processo il governo ha sottratto ai prigionieri più di 400 miliardi di riyal, circa 80 miliardi di euro, azzerandone le aspirazioni politiche e facendo di loro un esempio.
Mohammed bin Salman non esita a usare un approccio aggressivo anche in politica estera. Sempre nel novembre del 2017, il primo ministro libanese Saad al-Hariri, durante una visita in Arabia Saudita, annunciò improvvisamente di voler rassegnare le dimissioni. Secondo Hariri l’influenza iraniana sul Libano rappresentava una minaccia alla sua stessa vita: “Il mio sesto senso mi dice che alcuni mi vogliono morto. Non permetteremo che il Libano diventi l’innesco dell’insicurezza regionale. Le mani dell’Iran dagli affari del mondo arabo verranno recise”. Il presidente libanese Michel Aoun, sospettando che Hariri fosse tenuto in ostaggio, respinse le dimissioni. Solo l’intervento del presidente francese Emmanuel Macron costrinse la famiglia reale saudita a liberare il primo ministro libanese, disinnescando una potenziale guerra.
Sempre nel 2017 Mbs ha avuto un ruolo fondamentale nella decisione di imporre un embargo ancora in corso allo Stato del Qatar, accusato di finanziare gruppi terroristici, ma soprattutto il network televisivo Al Jazeera (ostile al governo saudita), oltre a intrattenere rapporti politici e commerciali con l’Iran sciita. Lo scontro per l’egemonia regionale con l’Iran è anche la causa reale della guerra civile in Yemen, dove l’intervento di una coalizione di Paesi a guida saudita ha già causato migliaia di vittime civili, spesso con azioni che gli osservatori internazionali hanno definito senza mezzi termini “crimini contro l’umanità”.
Un grave colpo all’immagine pubblica del principe Salman è arrivato il 2 ottobre 2018, quando uno squadrone della morte saudita ha raggiunto Istanbul per eliminare il giornalista Jamal Khashoggi, grande critico dell’establishment saudita, mentre compilava alcuni documenti matrimoniali presso il consolato dell’Arabia Saudita. A distanza di pochi giorni dall’accaduto, uno dei sospetti è stato coinvolto in un incidente automobilistico mortale, mentre gli altri membri del commando rischiano ora la pena di morte, secondo i giudici sauditi. Nonostante ciò, il 16 novembre diverse testate giornalistiche hanno sostenuto che la Cia avesse individuato nel principe ereditario il mandante dell’omicidio. “Le nostre agenzie di intelligence stanno ancora raccogliendo informazioni. È possibile che il principe ereditario fosse a conoscenza di questo tragico evento – forse lo sapeva, forse no! Detto questo potremmo non scoprire mai tutti i fatti dietro l’omicidio del sig. Jamal Khashoggi”, ha dichiarato in seguito all’accaduto Donald Trump, lasciando intendere che il suo governo ha tutto l’interesse ad appoggiare la politica aggressiva del principe saudita. Mentre John Brennan, ex-direttore della Cia, chiedeva inutilmente ai membri del Congresso statunitense di desecretare i risultati delle indagini, il presidente Trump aggiungeva: “abbiamo [in Salman] un alleato e voglio rimanere vicino a questo alleato che in molti modi ci ha dato cose buone”.
In cambio, gli Stati Uniti stanno intensificando la strategia di maximum pressure contro l’Iran. Con il pretesto di trovarlo poco conveniente per il suo Paese, l’anno scorso Donald Trump si è ritirato dall’accordo sul nucleare siglato dall’amministrazione Obama con Teheran, per poi costringere la Repubblica islamica ad accettarne uno nuovo sotto la minaccia di numerose sanzioni. Il risultato è che l’8 maggio 2019, dopo diversi mesi passati a chiedere l’intervento dell’Europa, l’Iran ha annunciato la sua intenzione di recedere dal contratto. Il 12 maggio, due petroliere saudite sono state sabotate e lievemente danneggiate da ordigni artigianali. Gli investigatori statunitensi, chiamati per un consulto, si sono detti certi che si tratti di un’azione iraniana. Non ci sono prove di questa affermazione, ma un ufficiale protetto da anonimato ha dichiarato che “questo è il genere di cose che potrebbe fare l’Iran, rispecchia il loro modus operandi”. L’ayatollah Ali Khamenei, leader supremo iraniano, cerca nel frattempo di evitare un’escalation militare, sostenendo che l’Iran non stia in alcun modo cercando lo scontro con gli Stati Uniti.
Oltre ai bombardieri, ai mezzi anfibi e alle portaerei, l’amministrazione Trump starebbe infatti valutando di dislocare 120mila uomini in Medio Oriente. Si tratterebbe di uno dispiegamento di forze molto vicino a quello impiegato da Georg W. Bush nel 2003, durante l’invasione dell’Iraq. L’influenza russa nella regione, il potere del Qatar, lo scarso coinvolgimento europeo e la titubanza dell’Egitto a far parte della coalizione anti iraniana sono al momento l’unica garanzia di rimandare il conflitto, ma tanto Trump quanto Salman sembrano cercare la reazione dell’Iran, provocandolo in modo costante. Intanto gli Stati Uniti hanno richiamato in patria il personale diplomatico dalle rappresentanze in Iraq, mentre Trump minaccia di “porre fine” all’Iran. Nel frattempo il re saudita Salman si prepara a un incontro con gli Stati del Golfo per il prossimo 30 maggio, dove discuterà con gli altri leader arabi di come sfruttare questo momento di instabilità politica, vista come una “opportunità significativa per i Paesi della regione per raggiungere i propri obiettivi nell’instaurare pace e stabilità”.
Trump sopravvaluta il ruolo statunitense, convinto che senza il suo sostegno il regno saudita crollerebbe “nel giro di due settimane” e che assecondare le mire di Mohammed bin Salman sia la strategia migliore per assicurarsi un alleato affidabile in Medio Oriente. Sempre fedele al suo motto “America first”, il presidente degli Stati Uniti sta paradossalmente indebolendo la posizione del Paese in Medio Oriente, rischiando di innescare in Iran la stessa situazione caotica che vive l’Iraq dall’invasione del 2003. Tutto per assecondare una strategia basata sulla fiducia in un uomo, Bin Salman, sempre più certo di essere intoccabile tanto nel suo Paese quanto all’estero.