Se negli ultimi giorni non siete stati completamente assorbiti dal diabolico piano neonazista per uccidere Matteo Salvini, o dal diabolico piano del Pd per rubarvi i figli e darli in adozione ai gay, può darsi che anche voi abbiate sentito parlare dell’ultimo rapporto Invalsi, appena pubblicato. Può darsi che sulle vostre bacheche sia comparso qualche titolo disperato: un terzo degli studenti non sa leggere un brano in italiano! Può darsi che vi siate imbattuti in qualche accigliata riflessione: avete voluto il sei politico e adesso guarda cos’è successo, alle medie non si fa più analisi grammaticale e il risultato è una catastrofe. Può davvero darsi che abbiate letto cose del genere – ebbene, indovinate: non è praticamente vero niente.
Niente. Non solo non risulta a nessuna Procura un complotto neonazista contro Salvini. Non solo non risulta fin qui nessun dirigente Pd indagato denunciato per aver tolto un figlio a un genitore. Non è nemmeno vero che alle medie non si faccia analisi logica e grammaticale: dispiace che Corrado Augias non abbia potuto controllare su un qualsiasi libro di testo, prima di consegnare le sue osservazione a Repubblica. Quanto al 6 politico, è più una leggenda metropolitana che altro: se davvero fu assegnato a qualche classe negli anni Settanta, ormai quegli studenti sono genitori di altri studenti passati attraverso altre quattro riforme scolastiche, tanto vale dare la colpa alla riforma Gentile, se non direttamente a Carlo Magno. Non è nemmeno vero che un terzo degli studenti non sappia leggere un testo: anzi, è proprio un caso di scuola di come un dato statistico possa essere deformato in senso propagandistico, o anche solo perché nelle edicole il titolo allarmista scaccia sempre il titolo accurato.
I test Invalsi sono costruiti proprio per mantenere un terzo del campione al di sotto della sufficienza: è quel che prevede il modello teorico che li ispira. Lamentarsi che un terzo dei candidati non superi la sufficienza è un po’ come lamentarsi della qualità del tennis giocato a Wimbledon perché su 128 iscritti solo la metà riesce a passare il primo turno. Senz’altro la comprensione del testo di troppi studenti medi italiani lascia ancora a desiderare, ma di fronte a un giornalismo del genere sorge il dubbio che sia il minore dei mali: che senso ha imparare a leggere meglio se poi quel che c’è da leggere in edicola è una rifrittura delle stesse opinioni stantie prodotte entro il 1989 e poi chiuse in un cassetto? Chi è che ancora necessità di leggere attacchi a fantasmi polemici come il “6 politico”, il famigerato “Sessantotto”, una mai meglio definita “didattica delle competenze”, eccetera eccetera?
E dire che l’Invalsi per primo fa tutto il possibile per stimolare una discussione più interessante. Il rapporto somiglia a una brochure pubblicitaria, i grafici sono abbastanza chiari, gli argomenti scelti con molta attenzione. Oltre a valutare la scuola pubblica nel suo complesso, l’Invalsi ogni anno valuta se stessa e non è una sorpresa che si promuova sempre. Chi la vuole criticare senza indulgere ai luoghi comuni si trova invece in difficoltà: un po’ perché la mole di dati a disposizione è effettivamente abbondante; un po’ perché comunque conosciamo solo i dati che l’Invalsi vuole farci conoscere. Per dire: l’insegnante che ha trovato la domanda X un po’ assurda non ha la possibilità di verificare se i suoi studenti siano riusciti comunque a rispondere in modo soddisfacente. In compenso ha tutti i dati a disposizione per osservare i fenomeni che l’Invalsi vuole farci osservare.
Ad esempio: la parola chiave di quest’anno è senz’altro “divario”. Divario tra generi (i maschi vanno meglio in matematica, le femmine in inglese), divario tra le regioni: il Nord ha risultati migliori della media, il Sud inferiori. Nulla di nuovo o sorprendente, e infatti una critica che si può muovere all’Invalsi è che ci fa spendere molti soldi per dirci qualcosa che in sostanza sapevamo già: nelle zone in cui il reddito pro capite è più alto, anche l’offerta formativa è migliore. Lo strumento che secondo alcuni dovrebbe servire a valutare i docenti finisce per suggerire che la possibilità dei docenti di fare la differenza sia scarsa o nulla: un insegnante scarso a Nord avrà comunque studenti più brillanti di un insegnante motivato a Sud. Nei rari casi in cui questo non succede, il meccanismo dell’Invalsi di solito non individua un insegnante meritorio, ma un insegnante scorretto che ritocca i risultati. Un fenomeno, il cosiddetto cheating, che negli ultimi due anni si è bruscamente ridotto, ci avverte l’Invalsi, senza fornirci spiegazioni.
Ne azzardo una io, almeno per quanto riguarda la prova di terza media: fino a due anni fa si somministrava durante l’esame di licenza e faceva media, il che esponeva gli studenti a un rischio di bocciatura e i consigli di classe al rischio di contestazioni e ricorsi. Dal 2018 la prova si fa in primavera e non fa più media: inoltre è finalmente computer based, ovvero gli insegnanti non la correggono più a mano, e quindi non potrebbero truccare i risultati nemmeno se volessero. In compenso la prova non è più ritenuta importante dagli studenti che a volte di fronte all’ennesimo quesito a crocette possono cedere alla tentazione di rispondere a caso. Il fatto che un terzo degli studenti non abbia risposto in modo soddisfacente a un questionario di comprensione di un testo in effetti si potrebbe anche formulare così: un terzo degli studenti non ha capacità o voglia di mettere le crocette nelle caselle giuste. Dove l’Invalsi registra un problema di competenze, un insegnante sul campo potrebbe anche riconoscere un problema di motivazione, e più spesso un insieme dei due (chi volesse provare una simulazione delle prove al computer le trova qui: sono meno facili di quel che possono sembrare a prima vista).
Il fatto che anche gli insegnanti non abbiano più la necessità o l’opportunità di alterare le prove Invalsi non significa che abbiano superato un generale atteggiamento di diffidenza, che è poi la naturale reazione di una categoria a uno strumento imposto dall’alto senza discussioni. È anche vero che in molti casi questa diffidenza assume forme irrazionali: il ministero vuole sostituirci coi computer! Al luddismo dei docenti, l’Invalsi contrappone un entusiasmo positivista che a volte lascia perplessi. Gli esperti e i tecnici dell’ente ministeriale sembrano genuinamente convinti che tre o quattro test abbastanza brevi, quasi tutti a crocette, possano “certificare le competenze”. È la stessa pretesa dei test PISA promossi a livello internazionale dall’OCSE, che però sono più articolati e presentano più quesiti a risposta aperta, quel tipo di domande che meglio consentono all’insegnante di comprendere fino a che punto lo studente ha compreso la domanda (o se si è limitato a copiare la risposta dal compagno). Sappiamo tutti benissimo che le risposte aperte funzionano meglio, così come sappiamo che sono quelle che richiedono più impegno da parte dell’insegnante che corregge, e che sono le più complicate da elaborare meccanicamente: possono funzionare in test somministrati a campione (come appunto quelli OCSE-PISA), mentre creerebbero troppi problemi in un test somministrato a tutta la popolazione scolastica. A chi critica questo aspetto viene fatto notare che comunque i risultati dell’Invalsi non si discostano più di tanto da quelli OCSE-PISA, ma il punto è esattamente questo: se l’Invalsi non fa che scoprire le stesse cose che sappiamo già, viene da chiedersi che senso abbia spenderci così tanto.
Sotto l’impianto scientifico, alcuni insegnanti sospettano che l’Invalsi sia più propaganda che scienza: ogni estate ci ricorda che la scuola va male, e a Sud molto peggio che a Nord. Si sapeva già, ma è comunque utile ribadire. Utile a chi? In tempi di egemonia progressista poteva essere un buon argomento per ispirare investimenti cospicui nelle scuole del Sud. Oggi che sovranismo e localismi vanno per la maggiore e al MIUR siede un leghista, i risultati Invalsi possono essere ugualmente sbandierati da chi chiede la regionalizzazione della scuola (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna): la scuola del Sud è spacciata, tanto vale lasciarla al suo destino.
Alcuni insegnanti temono esattamente questo: l’insistenza con cui l’Invalsi qualche anno fa sottolineava i fenomeni di cheating in meridione, e oggi punta il dito sul divario tra i risultati del Sud e quelli del Nord, è funzionale a un preciso discorso di delegittimazione. Quando un insegnante che lavora in un contesto disagiato decide di dare un 10 e lode a un suo studente, è possibile che in quel voto rientri anche una considerazione soggettiva sulle capacità del ragazzo di ottenere risultati in condizioni avverse. Poi arriva l’Invalsi, somministra un test a crocette, incrocia i dati, e rivela a tutti che il 10 e lode di quel contesto disagiato vale come un 7 di una ricca città padana. Lo dice la scienza, eh: i docenti che brontolano hanno senz’altro paura di perdere i loro privilegi. Proprio mentre domanda equità, l’Invalsi non si rende conto di fornire argomenti a chi la ostacola. Magari i test sono davvero uno strumento scientifico, ma questo non impedisce a nessuno di brandirli per fare politica. Nessuno strumento scientifico, per quanto sofisticato, può controllare la mano che lo impugna.