Gli attacchi agli insegnanti delle scuole pubbliche, da almeno una decina d’anni, sono spesso particolarmente aggressivi. I pregiudizi che li colpiscono sono noti: pigri, mediocri, attaccati al posto fisso, hanno più di tre mesi di ferie e ricevono uno stipendio di tutto rispetto se paragonato al loro “reale” impegno. Questa retorica ha generato negli anni una profonda mancanza di stima nei confronti degli insegnanti. Eppure, molti possono dire di aver avuto almeno un maestro o un professore nel corso della loro formazione che ha contribuito a cambiare la loro vita e che li ha indirizzati nella loro evoluzione umana e professionale.
Nonostante gli innegabili limiti intrinsechi alla scuola italiana, la crescente mancanza di rispetto nei confronti del corpo docente non è però una prerogativa del nostro Paese, ma un dato di fatto trasversale a tutto il mondo occidentale contemporaneo: nel libro della giornalista nordamericana Dana Goldstein intitolato The Teacher Wars, “le guerre degli insegnanti”, pubblicato nel 2014, si ripercorre la storia degli Stati Uniti e viene evidenziata una situazione ricorrente, denominata dai sociologi “moral panic”: ossia la tendenza di buona parte dei media e della politica, in epoche di crisi socioeconomica, a rendere una o più categorie il capro espiatorio di un complesso problema sociale – come le disuguaglianze, vero e proprio emblema delle carenze del sistema educativo. “A quel punto,” scrive Goldstein, “i media ripetono fino alla nausea aneddoti su episodi riprovevoli compiuti da insegnanti. […] Questa narrativa, che si concentra sul peggio del peggio, falsifica la reale identificazione dei problemi. Come risultato, le persone recepiscono il messaggio che gli insegnanti della scuola pubblica – soprattutto quelli di città – sono sostanzialmente degli incapaci”. Gli insegnanti delle scuole pubbliche vengono inclusi tra i responsabili del degrado della società: devono essere artefici della crisi perché, secondo una logica ingannevole, hanno fallito nell’educazione dei giovani, premette Goldstein. Il risultato è che l’opinione pubblica accusa gli educatori di colpe che spesso vanno al di là dei loro poteri e delle loro competenze e di conseguenza, non di rado, si verificano episodi di aggressioni verbali e fisiche ai danni degli insegnanti.
La perdita di credito della figura dell’insegnante non è solo frutto di una narrativa distorta, ma è anche la conseguenza delle norme che regolamentano il sistema scolastico. In Italia, le numerosissime riforme che si sono succedute negli anni hanno contribuito a denigrare gli insegnanti delle scuole pubbliche in molti modi. La totale subalternità delle riforme scolastiche a una visione mercatocentrica ha trasformato la scuola da istituzione ad azienda, tale da rendere profetiche le parole pronunciate nel 1955 dal premio Nobel per l’economia Milton Friedman: “Le scuole saranno più efficienti se saranno sottoposte alle leggi del mercato capitalistico e, come tutte le aziende, entreranno in concorrenza le une con le altre per attirare i loro clienti: gli studenti”.
In Italia, l’inizio di questa svolta risale a più di vent’anni fa: la legge Bassanini del 1997, prima, e la riforma dei cicli scolastici del 2000 a firma di Luigi Berlinguer, poi, avviarono il percorso giuridico dell’autonomia scolastica. Una strada lunga che passa per la riforma Moratti del 2001, i correttivi del ministro Fioroni nel 2003, i drastici tagli al personale effettuati dal ministro dell’economia Tremonti in concerto con l’allora ministro dell’istruzione Maria Stella Gelmini nel 2008, fino alla “Buona scuola” del governo Renzi, diventata legge nel 2015. Nella recente storia italiana, ogni governo ha voluto influire sul sistema scolastico, ma nessuno ha contribuito a porre davvero il valore della cultura e dell’insegnamento al centro del dibattito politico. Le varie riforme hanno invece reso la scuola l’anticamera del mondo del lavoro – con risultati non sempre efficaci come nel caso dell’alternanza scuola-lavoro, il cuore della riforma della “Buona scuola” – e pochi sembrano essersi posti il problema di far diventare quei futuri lavoratori prima di tutto dei cittadini coscienti e preparati.
Non stupisce, allora, che in base al rapporto del Global Teacher Status Index – gli ultimi dati sono del 2018 – la metà degli italiani ritiene che gli insegnanti dovrebbero essere pagati in base ai risultati dei loro alunni. “Mi è capitato che gli alunni e i genitori contestassero le mie valutazioni,” dice Lola, 30 anni, insegnante di inglese e tedesco dal 2017. “La contestazione del metodo di valutazione genera pressione nello svolgimento del mio lavoro. Purtroppo, a volte, i genitori sentono di potersi sostituire all’insegnante non considerando l’articolo 33 della Costituzione ‘l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento’”. Sempre il rapporto Global Teacher Status Index ha valutato la reputazione sociale dei professori dalle elementari alle superiori in 35 Paesi e l’Italia è al penultimo posto: gli insegnanti meritano rispetto solo secondo il 16% degli intervistati.
Tra gli italiani, l’insegnamento è una professione considerata di fascia media: la maggior parte, il 21%, considera che la professione più simile a quella degli insegnanti sia quella degli assistenti sociali, mentre in Paesi come Cina e Russia, gli insegnanti vengono considerati simili ai medici. “Dovremmo chiederci qual è il ruolo dell’insegnante nella nostra società,” afferma Marina, 59 anni, insegnante di diritto dal 1995, “l’insegnante è un preparatore al mondo del lavoro o l’educatore a cui le famiglie affidano i loro figli per formare degli esseri umani e dei cittadini? Il compito primario dell’insegnamento è quello di formare un individuo, rafforzando la sua capacità critica”.
Questa mancanza di stima nei confronti del corpo insegnanti sottende, spesso, un argomento di cui è difficile parlare: la constatazione che è il sistema, e quindi la nostra società, a non saper educare. E uno dei motivi è che spesso l’unico fine che viene perseguito è il ritorno economico. Come spiegato nel saggio intitolato La società della prestazione di Federico Chicchi e di Anna Simone, il neoliberismo ha definito i contorni di un nuovo modello sociale legato alla diffusione della competitività come criterio fondamentale di giudizio sul valore della persona. Questo processo, legato ad altri di stampo prettamente capitalista e unito alla crescente individualizzazione, delinea un nuovo tipo di configurazione sociale che si può definire con il termine di “società della prestazione”. “Quest’ultima non solo manifesta la centralità crescente della retorica manageriale d’impresa,” scrivono gli autori, “ma prefigura la nascita di una nuovo modello antropologico basato sulla centralità della performance come imperativo sociale”: un paradigma che ormai è mutuato in tutti i campi della società contemporanea, anche quello della scuola.
In un mondo in cui la cultura non è un valore perché, come abbiamo sentito dire più volte, “con la cultura non si mangia”, il ruolo degli insegnanti è di conseguenza screditato, ma questa frase non è solo misera, è anche falsa: se il Paese vuole davvero uscire dallo stallo in cui versa, deve investire le sue energie per condividere il messaggio che lo studio è l’unico modo per ottenere una vita dignitosa. Gli economisti Robert J. Barrow e Jong Wha Lee dai primi anni Novanta studiano le relazioni tra crescita dell’istruzione e sviluppo economico: hanno analizzato il variare del reddito in rapporto al variare dei livelli di istruzione in centoventi Paesi del mondo tra 1950 e 2010: da quelli più poveri ai più ricchi la crescita della scolarità e dei livelli di istruzione è stata un fattore decisivo degli incrementi di reddito. L’istruzione è quindi chiave di volta dello sviluppo sociale ed economico.
Questo non vuol dire che non esistano cattivi insegnanti, ma la loro esistenza non giustifica l’attacco all’intera categoria. Esistono ad esempio anche pessimi medici, ma le numerose cause legali intentate contro di loro non ci spingono a considerare l’intero ordine come bacato. The Teacher Wars suggerisce che per migliorare il sistema scolastico sia necessario gratificare e aiutare gli insegnanti, invece di sottoporli a continui test sulle loro performance, migliorando il racconto mediatico, dimostrando rispetto per il loro ruolo di educatori, e soprattutto smettendo di incolparli per tutte le storture della nostra società, che per primi subiscono.