Secondo un sondaggio pubblicato da Swg, il 24% dei millenials oggi voterebbe per Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez. Per quanto al momento si tratti solo di un’ipotesi non supportata da nessun dato o dichiarazione del diretto interessato, è impressionante constatare che se l’influencer scendesse davvero in politica riuscirebbe a intercettare un quarto delle preferenze degli italiani nati fra il 1981 e il 1996. Il consenso elettorale salirebbe addirittura al 27% tra gli appartenenti alla Generazione Z, la prima totalmente nativa digitale. Si tratta di numeri che fotografano un’inedita convergenza politica intorno a un individuo che, al di là dell’impegno rispetto ai diritti civili e alla battaglia per l’approvazione del ddl Zan, non ha mai fatto il minimo accenno all’ipotesi di creare un nuovo soggetto politico. L’eventuale peso elettorale di Fedez (a partire dall’esigenza di misurarlo) nasce evidentemente in seno a quanto è successo al concerto del primo maggio: il dibattito che ha accompagnato la vicenda, al di là delle polemiche, ha soprattutto il merito di aver reso finalmente visibile uno scontro fra due modelli culturali sempre più inconciliabili.
Da un lato troviamo il mondo digitale, dove il capitale sociale degli influencer permette loro di agire in nome di una legittimazione popolare facilmente misurabile: il numero dei follower esprime un peso specifico che può essere speso, come nel caso di Fedez al concertone, anche all’interno di un contesto mediale tradizionale per rivendicare una libertà di espressione inedita. Dall’altro lato abbiamo il Sistema dei media italiani classici, quello che chiede all’artista “di adeguarsi” a una specifica retorica in nome di un instabile equilibrio politico da preservare, fatto di nomine, rinnovi contrattuali e logiche partitiche da compiacere. Sono due forme di potere mediatico diametralmente opposte che faticano a coesistere, e il progressivo allontanamento dei giovani dalla fruizione televisiva (secondo uno studio dell’istituto Harris Interactive il 64% delle persone fra i 16 e i 35 anni eliminerebbe la TV in favore dei servizi streaming e dei contenuti online) suggerisce che sarà il medium digitale a prevalere rispetto all’apparato radio-televisivo, che storicamente si configura come il luogo della comunicazione istituzionale. Lo stesso mondo della politica, seppur molto lentamente, sta iniziando a comprendere che questa transizione mediatica sarà irreversibile.
Già un mese prima dello “scandalo” del primo maggio, infatti, il parlamentare del Partito Democratico Alessandro Zan (primo firmatario dell’omonimo disegno di legge) era stato ospite in una diretta Instagram di Fedez per discutere di diritti civili. Questo è solo un esempio di un fenomeno sempre più diffuso: Carlo Calenda, leader di Azione e candidato sindaco a Roma, si confronta in queste ore con Er Faina sul suo canale twitch; lo streamer Ivan Grieco ospita ormai settimanalmente deputati, senatori e perfino segretari di partito; la ministra Dadone inaugura il suo canale sulla piattaforma di Amazon Prime Video intervistando il campione di e-sport Riccardo “Reynor” Romiti, gamer professionista diciottenne. La sensazione è che i politici stiano tentando di usare gli influencer come emittenti per rivolgersi a un pubblico – e una potenziale base elettorale – che non riuscirebbero a raggiungere altrimenti, senza capire (almeno non del tutto) che la struttura dei Social non funziona come il medium radiotelevisivo a cui sono abituati.
I social, al contrario dei media tradizionali, possiedono ragioni strutturali costruite intorno alla “simmetria” che si sviluppa fra mittente e ricevente. La verticalità del modello televisivo, dove il pubblico vive passivamente la fruizione di un prodotto, sui social è stata soppiantata dalla possibilità di interagire costantemente con il creatore di un contenuto, il quale viene premiato dall’intelligenza artificiale delle piattaforme (in termini di esposizione e visibilità) tanto più riesce a sviluppare engagement attraverso interazioni, commenti e condivisioni. Il rapporto che si crea fra utenti e creator è, di fatto, una relazione parasociale a un’unica direzione: la familiarità con i contenuti di un influencer, unita alla loro fruizione prolungata e interstiziale – cioè dilazionata e inserita in diversi momenti della dimensione quotidiana – e induce la sensazione di conoscere “realmente” la persona seguita sui social.
Un’analisi condotta dal New York Times sulla psicologia della condivisione intitolato The psychology of sharing: why do people share online? rivela che i contenuti più “ingaggianti” possiedono tutti un’altissima carica emotiva. In altre parole, sono soprattutto le foto, i video e i post che coinvolgono direttamente il creator in termini personali, etici ed esperienziali a risultare più interessanti, poiché consentono all’utenza di provare empatia (che è la ragione psicologica dell’interazione). Non a caso gli influencer – almeno quelli più mainstream – creano un racconto pubblico della loro sfera privata, intessendo una relazione parasociale tanto più solida quanto più intimi diventano i loro contenuti multimediali. I “Ferragnez” sono l’emblema di questo modello comunicativo: dal matrimonio alla nascita dei figli, ogni momento della loro vita personale viene ampiamente documentato e condiviso sui social. Pur attirando numerose critiche in merito alla presunta dimensione utilitaristica della loro relazione e del racconto dell’infanzia dei loro bambini, decine di milioni di follower premiano quotidianamente questa retorica del privato che diventa pubblico all’interno di un inedito voyerismo digitale. È proprio la sensazione di conoscere davvero un influencer a legittimarne un eventuale impegno sul piano etico (e secondariamente politico). Per essere chiari: quando Fedez parla dell’importanza del ddl Zan, le sue parole possiedono un carico emotivo con cui nessun politico può sperare di competere. La battaglia dell’influencer si gioca in un terreno che premia l’esposizione personale, intima: se “uno come lui” reclama a gran voce l’estensione dei diritti civili è perché – almeno nella percezione più diffusa – ci crede davvero. L’impegno di un politico professionista, in virtù del suo stesso ruolo, possiede invece un secondo fine che si misura sempre all’interno di logiche elettorali, di equilibri di coalizione, di convenienza personale.
Una retorica così marcatamente antipolitica non è una novità nel panorama italiano, anzi accompagna l’intera storia della seconda Repubblica. Dall’ascesa di Berlusconi – l’imprenditore di successo che non aveva bisogno della politica e che avrebbe fatto soltanto il bene degli italiani – fino alla parabola del Movimento 5 Stelle che avrebbe dovuto “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, il fascino di chi si presentava come un soggetto esterno alle Istituzioni ha sedotto milioni di elettori. In entrambi i casi, troviamo un potere mediatico inedito che si scontra contro il sistema dei media tradizionali. Se Berlusconi era l’espressione della TV commerciale (il privato che scavalca il pubblico perché faceva meglio in termini economici), Grillo, e con lui il Movimento 5 Stelle, raccoglieva in sé la spinta contro-culturale dei forum e dei blog (quello dell’ex capo politico dei 5 stelle era uno dei più seguiti al mondo) che promettevano un’informazione libera dal condizionamento dei partiti, delle lobbies e dai gruppi editoriali. Tornando al 2021, quel 24% di millenials pronti a votare Fedez esprimono, oggi, il valore politico di un nuovo sistema mediatico che non può più essere arginato. La vicenda del concerto del primo maggio, fra il maldestro tentativo di edulcorare parti del discorso di Fedez e l’interrogazione parlamentare che ha imbarazzato i vertici Rai, ha solo portato alla luce uno scontro mediale che si sta consumando da diversi anni.
I rappresentanti politici, nel tessuto sociale contemporaneo, appaiono ai più giovani come delle barriere anacronistiche e superflue. Il 27% dei ventenni che voterebbe per Fedez suggerisce la propensione culturale che reclama una politica più digitalizzata. La comunicazione simmetrica dei Social è arrivata a destituire parte del senso pratico (e filosofico) della rappresentanza democratica. Le interazioni immediate e incessanti a cui siamo abituati stanno sostituendo la progettualità e la visione politica: nella percezione collettiva, il modello di consumo che orienta le logiche strutturali delle piattaforme è più efficace della mediazione e dell’arte del compromesso tipiche della politica. Il potere che viene accordato all’utente-consumatore digitale è ora incredibile e, soprattutto, facilmente misurabile: un nuovo sistema politico costruito sul feedback costante del pubblico sarebbe il trionfo della trasparenza, ove nessun interesse personale (o partitico) si potrebbe interporre fra le richieste dello “sciame” digitale e la loro messa in atto.
Il filosofo Byung-Chul Han, uno dei più attenti osservatori delle traiettorie disegnate della rivoluzione digitale, scrive: “la trasparenza totale impone alla comunicazione politica una temporalità che rende impossibile una programmazione lenta e a lungo termine”. L’agenda politica finirà per seguire i trend topic, invece di dettarli: in una perfetta equazione di consumo, gli utenti digitali interagiscono con quello che desiderano e, in termini di visibilità concessa al creator, comprano ciò che amano guardare. Oggi il like è una moneta di scambio. Dopotutto “nell’agorà digitale” – continua Byung-Chul Han – “nella quale seggio e mercato, polis ed economia coincidono, gli elettori si comportano come consumatori”. Lentamente, e forse inesorabilmente, il ruolo dell’utente sta sostituendo quello del cittadino.