Mentre la nave Sea Watch 3, battente bandiera olandese, entrava nelle acque territoriali italiane, il vice premier Matteo Salvini chiedeva durante una diretta Facebook che “Qualcuno si svegli ad Amsterdam”. A parte il fatto che il governo dei Paesi Bassi ha sede a L’Aja, il mantra ripetuto dal ministro dell’Interno ogni volta che si presenta una situazione analoga non trova riscontro nei trattati internazionali che regolano la legge del mare.
Secondo l’articolo 94 della Convenzione delle Nazioni unite sui Diritti del Mare (Unclos – 1982), lo Stato di bandiera di una nave ha diversi obblighi nei confronti dell’imbarcazione in questione, ma non quello di far approdare sul proprio territorio eventuali naufraghi recuperati al largo. La convenzione SAR di Amburgo del 1979 prevede che gli sbarchi delle persone soccorse in mare debbano avvenire nel “porto sicuro” più vicino al luogo del soccorso. Nel Mediterraneo navigano imbarcazioni battenti tantissime bandiere, da Panama (come faceva l’Aquarius) all’Australia: è impensabile che chi viene tratto in salvo su una di queste navi debba poi fare il giro del mondo per toccare terra. È sbagliato anche pensare che sia compito dei Paesi Bassi esaminare le eventuali domande di asilo dei migranti a bordo. Se è vero che in base al diritto del mare (art. 91 della Convenzione Onu) il territorio di una nave è un’estensione giuridica di quello del suo Stato di bandiera, il Regolamento di Dublino adottato dall’Unione europea in materia di immigrazione smentisce questo assunto. All’articolo 13 si legge infatti che se “il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, quest’ultimo è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale”. La procedura si può applicare però soltanto a terra e non a bordo di una nave, come chiarito da una sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo del 2012.
I Paesi Bassi non hanno quindi nessun obbligo di accoglienza nello specifico e non è chiaro in cosa possa consistere il “passo formale” dell’ambasciatore italiano a L’Aja né quali siano le iniziative annunciate dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. “L’Olanda si assume la sua responsabilità in quanto Stato di bandiera, ma questo non significa che si prenderà i migranti”, ha dichiarato Ankie Broekers-Knol, sottosegretaria olandese responsabile per l’Immigrazione. In un caso simile verificatosi a gennaio 2019, il governo olandese rese noto che non avrebbe preso parte a soluzioni estemporanee finché non ci fossero stati accordi europei per soluzioni strutturali nella gestione del fenomeno migratorio. Al limite i Paesi Bassi potrebbero (ma non vogliono) farsi carico solo di parte dei migranti soccorsi, nell’ambito di una prassi negoziale ormai consolidata tra gli Stati dell’Unione, che analizza caso per caso e costringe navi cariche di persone a interminabili giorni di stallo.
Gli Stati dell’Unione europea che non hanno frontiere, marittime o terrestri, con Paesi terzi, non sembrano avere l’urgenza di adottare nuove “soluzioni strutturali”, come la modifica del regolamento di Dublino. Questa dovrebbe essere una priorità per l’Italia e per il suo ministro dell’Interno, che però sembra preferire comizi e salotti tv ai summit dell’Ue. Del resto, è difficile convincere gli altri Paesi dell’Unione a intraprendere un’efficace politica di redistribuzione dei richiedenti asilo, quando gli alleati della Lega al Parlamento europeo sono il Rassemblement National in Francia, l’FPÖ in Austria e Alternative für Deutschland in Germania, partiti schierati contro l’accoglienza dello straniero.
Pochi giorni fa lo stesso Matteo Salvini si è spinto a dire che le persone a bordo della Sea Watch 3 sarebbero dovute approdare in Libia, in virtù del fatto che il trasbordo sulla nave della Ong era avvenuto all’interno della zona Sar (Search and Rescue) libica, cioè la porzione di mare in cui uno Stato è responsabile dell’organizzazione di un sistema di salvataggio. Fare rotta verso la Libia sarebbe però stato illegale, come ha fatto notare l’equipaggio della nave basandosi sui trattati internazionali che prevedono che la condizione necessaria per l’approdo di un naufrago sia l’individuazione di un Pos (Place of Safety), ovvero “il luogo dove la salvezza dei sopravvissuti non è più minacciata e in cui i bisogni umani fondamentali siano raggiunti”. Non ci sono dubbi sul fatto che nessun porto libico possa soddisfare tali requisiti: lo hanno stabilito cinque sentenze di tribunali italiani e lo ha ribadito Dunja Mijatovic, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa. Ad aprile lo stesso Matteo Salvini aveva ammesso l’assenza di porti sicuri nel Paese, ma questo non impedisce al suo governo di collaborare (e finanziare) la Guardia costiera libica. “È una contraddizione insanabile: la Libia ha una Sar in cui sarebbe titolare del coordinamento dei soccorsi marittimi, ma nessun porto sicuro dove sbarcare i naufraghi. La sua Guardia costiera non compie salvataggi, ma catture di persone che scappano dal Paese”, spiega Paola Ottaviano, avvocato dell’associazione Borderline Sicilia, che fornisce supporto legale a persone migranti. Appaltando i soccorsi ai libici, il governo italiano da un lato allontana la sua responsabilità e dall’altro cerca di tagliare fuori le Ong.
Appare più complicato il discorso relativo a Tunisia e Malta, spesso citate da Salvini (e dai suoi colleghi di governo) come possibili destinazioni di approdo per i migranti soccorsi nel Mediterraneo centrale e in alcuni casi geograficamente più vicini al luogo del salvataggio rispetto all’isola di Lampedusa. Secondo l’Unhcr, la Tunisia potrebbe garantire effettivamente un Pos, ma non dispone di una normativa nazionale per la richiesta di asilo. In questo caso il rischio è che i migranti restino privi di protezione e vengano magari trasferiti in altri Paesi o riportati proprio in Libia. “Le convenzioni internazionali e quelle europee, come il regolamento Frontex, fanno tutte riferimento all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951”, ricorda Ottaviano. Questo articolo impone il “principio di non-refoulement” per cui nessuno può “essere espulso o trasferito verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate”. Nel caso in cui i naufraghi siano anche potenziali richiedenti asilo, l’accezione del termine “sicuro” fa riferimento anche ad altri requisiti: a questi individui va garantita la possibilità di richiedere asilo, altrimenti non è possibile parlare di “condizioni di sicurezza”. La Tunisia non riconosce “uno status di soggiorno legale e una sicurezza effettiva alle persone che ottengono un riconoscimento di protezione”, stando alle parole di Fulvio Vassallo Paleologo, docente di diritto d’asilo presso l’Università di Palermo e massimo esperto in materia.
Per quanto riguarda Malta, il problema è soprattutto la zona Sar, sproporzionata rispetto al territorio dell’isola. Gli Stati costieri hanno facoltà di decidere unilateralmente la propria Sar per poi comunicarla all’Imo (Organizzazione marittima internazionale), che le autorizza senza contestazioni: ne possiede una persino la Libia, che non ha un’autorità governativa unitaria. “Una zona Sar viene istituita per motivi economici, soprattutto in relazione al traffico aereo. Ma non è detto che poi lo Stato richiedente abbia i mezzi sufficienti per effettuare soccorsi in mare”, spiega Paola Ottaviano. In pratica, il Centro di coordinamento marittimo de La Valletta rifiuta spesso le richieste di soccorso (o meglio, non risponde affatto), lasciando l’incombenza a quello italiano. Malta, inoltre, non ha ratificato gli emendamenti alle Convenzioni Sar e Solas (Safety of Life at Sea) adottati nel 2014, evitando così l’obbligo di fornire un approdo sicuro ai naufraghi che si trovano nella sua area di competenza. Sicuramente si tratta di un atteggiamento poco solidale da parte delle autorità maltesi, che però devono tutelare un’isola di 460mila abitanti, con il territorio più piccolo e più densamente abitato tra tutti gli Stati dell’Unione.
Alle conseguenze legali che pendono sulla sua testa, il capitano della Sea Watch Carola Rackete opporrà probabilmente lo “stato di necessità”, che l’avrebbe spinta ad agire contro le leggi italiane. In attesa di decisioni che spettano alla magistratura, Matteo Salvini ha incassato la sua consueta dose di visibilità mediatica, e poco importa se a un’analisi approfondita molte delle sue accuse si rivelano infondate o discutibili. Sembra non contare anche che mentre viene fatta propaganda sui #portichiusi, in Italia nel 2019 siano approdati oltre 2500 migranti. La macchina della retorica del ministro funziona sempre a pieno regime: i soccorritori delle Ong continuano a essere definiti “delinquenti sequestratori di esseri umani”, le persone soccorse “clandestini” anche se in teoria sono tutti potenziali richiedenti asilo e la Sea Watch 3 è una “nave pirata”, accusa che non trova nessuna conferma nella definizione di pirateria dell’articolo 101 della Convenzione del 1982.
In un paradossale ribaltamento dei ruoli, è il ministro dell’Interno ad accusare l’organizzazione non governativa di portare avanti “uno schifoso giochino politico” e di fare “propaganda sulla pelle dei migranti”, due tra le accuse che solitamente vengono mosse proprio al leader della Lega. Da una parte c’è la capitana della Sea Watch, bloccata a circa un miglio da Lampedusa con 42 persone a bordo che desiderano soltanto toccare terra dopo due settimane in mezzo al mare. Nonostante le difficoltà del collegamento Skype e la situazione drammatica, nella diretta con la stampa estera Carola Rackete spiega con calma e parole misurate perché ha preso una decisione che ritiene inevitabile. Dall’altra c’è il “Capitano” del Viminale, che dalla terraferma manda “bacioni a fuorilegge e Ong”, dopo aver invitato Carola a non “venire a rompere le palle in Italia”, con un linguaggio più da ultras che da ministro dell’Interno e follower che gli chiedono di sparare su una nave carica di esseri umani. Ognuno può decidere da che parte stare.