Il 17% della foresta amazzonica è andato in fumo. La colpa è anche di Bolsonaro.
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All’inizio di agosto il professore di Harvard e politologo statunitense Stephen M. Walt immaginava su Foreign policy uno scenario futuro in cui i grandi del mondo si facevano la guerra per proteggere le risorse ambientali del pianeta. In particolare, si figurava gli Stati Uniti – evidentemente quella di dipingersi come i salvatori del mondo è una tentazione troppo forte da resistere per chiunque sia nato in quel Paese – attaccare il Brasile per salvaguardare la foresta amazzonica, minacciata, ancor prima degli incendi, dalla deforestazione massiva voluta e appoggiata dall’ex militare Jair Bolsonaro.

Meno di un mese dopo, la profezia di Walt si è plasticamente adattata alla realtà: Donald Trump, lontano dall’ideale del supereroe dell’ambiente, non si è nemmeno presentato alla riunione del G7 in cui si approvava lo stanziamento di 20 milioni di dollari per fermare gli incendi. Il Brasile, questi soldi, non li ha neppure accettati. Anzi, ha posto le basi per uno scontro istituzionale con la Francia di Emmanuel Macron, accusata di aver nascosto dietro gli “spiccioli” offerti ai Paesi coinvolti le proprie mire colonialiste. “Macron non riesce nemmeno a evitare un incendio prevedibile in una cattedrale parte del patrimonio culturale mondiale, cosa pensa di insegnarci?” ha domandato retorico Onyx Lorenzoni, il capo dello staff di Bolsonaro. Non una diretta dichiarazione di guerra, ma di certo l’inizio di un dialogo poco conciliante che ci spinge a riflettere su una questione che in effetti potrebbe diventare centrale in futuro, ovvero quanto la comunità internazionale sia legittimata a intervenire limitando la sovranità di quegli Stati che minacciano di distruggere l’ecosistema mondiale. Ed è sempre più evidente che il Brasile a guida Bolsonaro sia uno di questi, non solo per via delle idee folli che il presidente ha riguardo alla gestione del patrimonio ambientale e della tutela del popolo indigeno, ma perché il Brasile possiede il 60% degli oltre 5 milioni di km quadrati coperti dalla vegetazione della foresta amazzonica e questo lo pone in una posizione particolare.

Jair Bolsonaro
Onyx Lorenzoni

Si tratta, come hanno ricordato in molti in questi giorni, della foresta pluviale più grande del pianeta, che produce il 20% dell’ossigeno della Terra e assorbe ogni anno 2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Il famoso “polmone della Terra”. Ecco, Bolsonaro vorrebbe costruirci sopra autostrade, ponti e industrie. Lo dimostrano alcuni documenti riservati recentemente visionati da OpenDemocracy, ma questa non è una novità. Bolsonaro è stato eletto grazie ai soldi delle lobby dell’agroalimentare e del settore estrattivo e tutte le sue scelte fino a oggi sono andate nella direzione della deforestazione massiva affinché fosse possibile costruire, tagliare, estrarre e coltivare. Solo lo scorso luglio è stato disboscato al giorno in quell’area l’equivalente della superficie dell’Isola di Manhattan, l’88% in più rispetto all’anno scorso. In questa missione suicida, il più grande ostacolo è per ora posto dalle popolazioni indigene, gli ultimi custodi di questi territori, i primi ad essere colpiti dalla loro devastazione e primo fra i target di Bolsonaro quando si tratta di discorsi d’odio. Questi, infatti, dalla sua elezione sono aumentati, incentivando la violenza nei confronti degli indigeni da parte di estrattori e minatori, ma non solo. Secondo alcuni, sono proprio le politiche e gli atteggiamenti di Bolsonaro ad aver spinto alcuni di questi privati ad appiccare gli incendi di questi giorni, alimentando il fenomeno.

Secondo la Cnn sono stati quasi 73mila i roghi che hanno interessato il Brasile dall’inizio dell’anno e più della metà sono arsi nella foresta amazzonica. Circa 10mila si sono verificati solo nelle ultime due settimane. Quello degli incendi è un fenomeno naturale, ma quest’anno l’Istituto Nazionale per la Ricerca Spaziale brasiliano (Inpe) ha riportato un aumento dell’84% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Sempre secondo l’agenzia spaziale del Paese, tuttavia, non sono state rilevate a livello climatico o metereologico anomalie che possano far pensare a cause naturali. I luoghi in cui si sviluppano i roghi, sul limitare della foresta, offrono poi un indizio in più, che ha indotto la Nasa a pensare che si tratti di incendi dolosi, appiccati proprio per liberare terreno da dedicare alle coltivazioni. E sono in molti gli esperti a trovarsi d’accordo. L’astronauta italiano Luca Parmitano, ad esempio, ha pubblicato sul suo Twitter alcune foto che mostrano il fumo, visibile per migliaia di chilometri persino dallo spazio, parlando di “incendi dolosi”. Le stesse pesanti accuse sono state mosse da una rappresentante indigena e diffuse dall’Indigenous Environmental Network. “Non erano soddisfatti di aver distrutto i nostri fiumi e le nostre fonti di vita. Ora hanno dato il nostro villaggio alle fiamme. Non resteremo in silenzio,” ha detto, riferendosi a minatori, agricoltori e proprietari terrieri che minacciano la loro esistenza. E infatti, proprio le donne delle comunità indigene si sono recate a migliaia nella capitale Brasilia il 13 agosto scorso, per protestare contro le politiche del governo. “Siamo qui per denunciare il discorso d’odio del presidente, che ha incentivato la violenza e la distruzione dei nostri territori,” ha dichairato Sônia Guajajara, la leader di Apib, l’associazione che lotta per i diritti delle popolazioni indigene.

Donne indigene prendono parte alle proteste contro il presidente Bolsonaro a Brasilia

La violenza tra gli indigeni e i proprietari delle terre circostanti ai loro territori non è una novità, ma sembra essersi intensificata negli ultimi tempi: solo il mese scorso un gruppo di una quindicina di minatori d’oro ha invaso una riserva indigena nel nord del Paese, territorio della comunità di Wajãpi e ha accoltellato a morte un loro leader, il sessantottenne Emyra Wajãpi. Il presidente Bolsonaro non ha mai nascosto il suo disinteresse nei confronti dei diritti e delle sorti di questi popoli, né tantomeno della foresta. Anzi, è lecito pensare che minatori e proprietari terrieri si siano sentiti e continuino a sentirsi protetti dal nuovo governo, sordo alle richieste di chiunque faccia notare i limiti dell’approccio predatorio in un territorio così delicato. Con i suoi discorsi e le sue scelte politiche Bolsonaro, coadiuvato dal ministro per l’Ambiente Ricardo Salles, non solo ha “permesso i fuochi”, ma ha anche incoraggiato le persone ad appiccarli, come scrive il parlamentare brasiliano David Miranda sul Guardian. La stessa nomina di Salles, condannato per aver modificato alcuni documenti per favorire le compagnie estrattive mentre serviva come funzionario statale per l’ambiente, dà l’idea dell’impronta che l’ex militare ha voluto dare a questo ministero, affidato a un uomo che voleva usare un fucile come simbolo elettorale, rimandando a questo come alla soluzione per il “problema indigeno”.

Alcuni membri della popolazione indigena protestano contro le politiche di Bolsonaro e chiedono intervento immediato per gli incendi in Amazzonia; Bogotá, Colombia

Durante il suo governo, Bolsonaro ha tagliato i fondi alle associazioni che tutelano i diritti degli indigeni, ha permesso l’utilizzo di una serie di pesticidi che in precedenza erano vietati, ha accusato le Ong di essere le responsabili dei roghi, appiccati, secondo le sue dichiarazioni, per screditarlo, e ha licenziato chi gli faceva notare i limiti di questo approccio predatorio al territorio. Nulla di tutto ciò fa sperare in qualcosa di buono per il futuro dell’Amazzonia, e quindi del mondo. Il 24 agosto, probabilmente spinto dalla pressione internazionale e da quella generata dalle proteste interne, Bolsonaro ha deciso di mandare l’esercito nelle regioni colpite dai fuochi. Ieri ha però rifiutato i soldi offerti dal G7. Certo, per quanto questa decisione in un momento tanto drammatico per l’Amazzonia suoni assurdo, che si tratti di spiccioli non è un’opinione diffusa solo tra i negazionisti del cambiamento climatico, ma anche tra gli stessi ambientalisti. Lo stesso termine lo ha usato Richard George, il capo del dipartimento forestale di Greenpeace Uk, sentito dal Guardian. C’è poi anche un altro aspetto che pone gli Stati del G7 in una posizione difficile per chi vuole parlare dall’alto di un pulpito: molta della pressione che a oggi è posta sulla foresta amazzonica è legata anche alle richieste alimentari del mercato occidentale (un esempio su tutti è quello della soia, la cui produzione in Brasile ha raggiunto l’anno scorso le 123 milioni di tonnellate, superando gli Stati Uniti). Non è nemmeno un caso se Bolsonaro ha auspicato  una collaborazione con “il primo mondo” per lo sfruttamento delle risorse minerarie dei territori della foresta amazzonica: anche in questo settore l’Occidente ha diverse colpe.

Senza voler appuntare nessuna medaglia sul petto dei leader occidentali, la comunità internazionale non poteva non reagire di fronte a quello che sta accadendo in Brasile e, non potrà non continuare a farlo anche quando i riflettori su questa parte del mondo si saranno spenti, finanziando le associazioni locali che si occupano di ambiente e diritti delle popolazioni indigene dell’Amazzonia. Secondo il climatologo brasiliano Carlos Nobre, se tra il 20 e il 25% della foresta venisse distrutto, l’ecosistema potrebbe raggiungere una sorta di punto di non ritorno e trasformarsi in una savana. Al momento la perdita è attorno al 17%. Fare qualcosa è un compito dei governi di tutto il mondo, e deve andare aldilà di qualsiasi considerazione politica ed economica.

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