Pur di non arrenderci, continuiamo a correre a perdifiato sulla nostra ruota da criceti - THE VISION
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Ci sono persone, come me, portate all’ostinazione, e non so se è una questione di cielo natale, genetica o educazione, ma sicuramente una volta che questa inclinazione si trasforma in un’abitudine è molto difficile da modulare. Vero è che nella società contemporanea essere ostinati viene considerato un pregio, cosa che rende ancora più difficile ridimensionare questa tendenza. Perché come sappiamo nella maggior parte dei casi le condizioni dell’intorno remano contro di noi: perché c’è competizione, perché c’è scarsità, perché in una grande città la vita è frenetica, perché c’è paura, invidia, aggressività. Questi fattori contribuiscono a creare un sostrato arido e poco nutriente, se non proprio dannoso per diversi aspetti.

L’ostinazione è qualcosa di simile a quella dei pugili. Ti arriva un colpo in faccia, te lo prendi, fa male, ma vai avanti, incassi, provi a reagire, ti difendi, a ritmo, provi a sferrare un attacco, e via di seguito. Incassare però è qualcosa di simile a dimenticare e rimuovere, cioè non ci si dà quel tempo necessario a percepire quel male, quel dolore generato dal colpo ricevuto, e si passa subito avanti, perché non c’è tempo, stare fermi significherebbe prendersi un altro pugno sul naso. E allora reagisci. Col male alle tempie, la testa che scoppia. Vai avanti. Il problema è che in un combattimento uno a uno in effetti la possibilità di vincere ce l’hai, almeno un 50%, nella società attuale invece no, o meglio, forse qualche traguardo lo otterrai anche, ma più per una serie di casualità piuttosto che per il tuo impegno e la tua perseveranza, e questo perché davvero, se non si è per qualche ragione dei privilegiati, semplicemente il divario per raggiungere le nostre piccole vittorie e soddisfazioni è talmente ampio da coprire che il tenere duro semplicemente ci logorerà, impedendoci di arrivare mai al traguardo di una distanza che sembra sfilata dal paradosso di Achille e la Tartaruga.

Eppure spopolano tuttora i post motivazionali sul non mollare mai, ricevuti in eredità dritti dritti dal fascismo e dal “Boia chi molla”, la cui origine è comunque precedente, ma comunque nasce in seno ad assedi e battaglie, come Caporetto. Il ché dovrebbe farci chiaramente capire la fregatura che sottintende, più che l’eventuale eroismo. Eppure è vero che non bisogna mollare, o quantomeno, non bisogna mollare subito. Soprattutto alla prima fatica, o sfida, perché purtroppo un risultato, che può essere dall’ottenimento di un lavoro alla chiusura di una maratona, non si porta a casa scoraggiandosi subito. È sicuramente necessario quindi allenarsi a una certa resistenza, ma è anche vero che bisogna imparare a capirne i confini, e ad accorgersi quando la nostra fatica, e la nostra sfida altro non è che una maledizione di Sisifo, in cui non c’è mai una tregua, un momento per stare in cima alla vetta e goderci col cuore pieno il risultato, riempirci gli occhi del panorama, riprendere fiato.

Quando mi sento particolarmente sotto stress, una delle sensazioni piacevoli più potenti che cerco di richiamare alla memoria, e che ancora funziona dopo tanti anni, è il senso di abbandono che sentivo lasciandomi cadere di schiena sui materassoni del salto in alto o del salto con l’asta dopo un duro allenamento di ripetute in pista, diciamo 10x200m con poco recupero. Quella fatica stupenda e quel lasciarsi andare per ricaricarsi. Ecco questa cosa non ci è più concessa. Perché è come se vivessimo costantemente immersi in una sorta di metabolismo di soglia, quel punto in cui fai una notevole fatica, e non per un periodo di tempo ridotto, anzi. Per di più nella nostra vita il recupero non sembra mai essere sufficiente, perché nelle pause da un dovere dobbiamo ottemperare ad altri doveri, e così via. Sentendoci sempre più stritolati.

E in questa estenuante corsa a ostacoli, in cui ci troviamo apparentemente costretti a lottare letteralmente per ogni cosa, come se ne andasse della nostra vita, perdiamo tempo per dedicare tutta la nostra intensità a ciò che “davvero” conta per noi, cosa che a volte non facciamo nemmeno in tempo a chiederci, troppo impegnati a non fermarci, per paura di essere travolti, eliminati. Il fatto è che è come se ci intrappolassimo da soli. Come nelle relazioni che non ci rendono felici entra in gioco il carico legato all’investimento che si è fatto su qualcosa. Come i giocatori d’azzardo, che continuano a scommettere, sperando di vincere, ma in maniera ancora più folle a pensarci, dato che forse ancora ancora una roulette una puntata vincente ce la darà, una persona tossica, beh, no, nemmeno per sbaglio, così una carriera senza possibilità di crescita e così via. Ma niente, pur di non fare i conti con il senso di perdita, lutto, tradimento e fallimento che il guardare questa consapevolezza negli occhi ci darebbe continuiamo a correre a perdifiato sulla nostra ruotina da criceti.

Il punto è che, come dicevo all’inizio, l’ostinazione è una qualità a doppio taglio, e a cui ci si abitua molto facilmente, così si diventa schiavi del perfezionismo, pensiamo che se saremo sufficientemente bravi, idonei, talentuosi prima o poi verremo premiati, nella disperazione, insomma, ci affidiamo a un’idea completamente mendace e sfalsata di merito. A volte è necessario imparare ad arrendersi. Non tutti i carichi sono alla nostra portata, e non c’è nulla di male in questo. Penso che la maggior parte dei lettori sia d’accordo nel considerare stupido lo spaccarsi la schiena per sollevare il quadruplo del proprio peso. Eppure nessuno lo pensa legato a un licenziamento da un posto con un contratto a tempo determinato, o – almeno dall’esterno – nel restare in una relazione violenta. Non sappiamo più riconoscere il nostro limite, e non in maniera eroica o epica, in maniera ottusa e miope. Avere la misura delle cose è fondamentale, ed è una forma di intelligenza, anche per riuscire via via a gestire quegli stessi carichi. È fondamentale esercitare quel tipo di volontà che ci spinge a non mollare, a non arrenderci, a crederci fino in fondo quando serve, ma anche ad arrenderci e a lasciar perdere quando lo sforzo sovrasta la nostra misura.

Arrendersi è come morire, rinunciare a un possibile sé Altro, vincente, capace di superare certi ostacoli, o anche solo di resistere appunto, di spingere un po’ oltre. La nostra vita però è una narrazione, e dovremmo averlo ben chiaro in testa, razionalmente. Perché, be’, le storie non sono altro che “gare” (per farvi capire quanto ci siamo fottuti il cervello dall’alba dei tempi). Le storie sono gare in cui l’atleta vince, su tutti, o perde, oppure a volte vince, perdendo qualcosa, o a volte perde magari la finale, ma vince la semi, o insomma capisce che voleva vincere una cosa che non gli serviva veramente e invece si arricchisce di qualcosa di più importante. In gergo queste situazioni vengono sintetizzate come in matematica: ++, – -, + -, – + . Mi piace perché per un attimo fanno sembrare la vita – e le storie – assolutamente ordinate e comprensibili, e non quel caos di mille variabili diverse, pianeti, linguaggio non verbale, paure, ferite e colpi di testa che obiettivamente sono. 

L’ho imparato quando studiavo sceneggiatura, e quando ho imparato anche che le tragedie sono tali proprio perché l’eroe non accetta di cambiare, e va avanti fino alla fine per la sua strada, ovvero “incontro alla tragedia”, alla disfatta, alla catastrofe, perché semplicemente gli eroi tragici sono dei testoni, non ascoltano i messaggi che gli arrivano dalla vita, né dagli aiutanti, né dagli sceneggiatori e soprattutto a loro non interessa essere “felici”, come se avessero disattivato il tasto relativo al buon senso e all’istinto di sopravvivenza. Ci piacciono tanto proprio per questo spesso, ci affascinano, e devono essere così per mostrarci determinate cose, su cui è importante avere barlumi di consapevolezza. Ma queste storie, così potenti, ci hanno evidentemente ottenebrato il cervello. Se il tuo capo ti prende in giro, ti lusinga e poi ti demansiona, non importa se è da vent’anni che dai il sangue per la stessa azienda che probabilmente ti ha convinto di essere “parte della famiglia”: non siamo in una tragedia di Sofocle, anche se spesso sembra, possiamo scegliere di essere in una commedia cazzona – ma saggia – anni ‘90, in cui possiamo sempre cavarcene fuori, non avremo meno valore per questo, anzi, questa è probabilmente la miglior dimostrazione di forza. Si tratta solo, come molte volte, di cambiare in maniera piuttosto radicale il nostro punto di vista. Per questo percepiamo l’arrendersi come una “petite mort”, certo peggiore di un orgasmo, ma al pari una perdita totale del nostro controllo ipertrofico, che sconfina la nostra identità per estendersi al mondo intero, come se dipendesse tutto da noi, e dal nostro stringere i denti, fino a perderli, e non poter più “addentare” nient’altro. Nelle tragedie tutto dice: devi cambiare per sopravvivere, se non lo farai verrai annientato, e quella si che è la vera fine, non cambiare strada. Mi chiedo quando abbiamo iniziato a vivere la vita come una brutta tragedia.

A volte la cosa più “eroica”, e saggia, e zen da fare, è arrendersi, lasciarsi trasportare per un po’ dalla corrente, imparare a conoscerla, accettare, senza farsi travolgere dalla paura, di non aver tutto sotto controllo, andare nella stessa direzione del mondo, invece di opporre costantemente una forza contraria, che non potrà mai essere pari. Avere il coraggio di accettare la perdita, e l’abbandono, e la delusione delle aspettative, e l’infrangersi di quello che poteva essere stato un sogno, un ideale, e imparare da questa resa, da questa sconfitta, solo così è possibile cambiare, essere realmente “resilienti”, come va tanto di moda dire con un’accezione piuttosto distorta, e forse passo dopo passo rischiare di essere felici, non di una felicità idealizzata, irraggiungibile, di una felicità piena e presente.

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