Il 23 maggio in piazza Marsala, a Genova, si è tenuto il comizio conclusivo di CasaPound, in vista delle elezioni europee. In risposta, Cgil, Anpi, Arci, Comunità San Benedetto e Libera, si sono dati appuntamento sotto al palazzo del Governo, la prefettura della città, che dista pochi metri dalla piazza, mentre il gruppo Genova Antifascista si è riunito in piazza Corvetto, per arrivare il più possibile vicino al comizio del partito di estrema destra. Per evitare tensioni e impedire lo scontro tra i militanti di CasaPound e quelli antifascisti, è stata creata una “zona rossa” con lo schieramento di trecento poliziotti e transenne metalliche
La presenza dei neofascisti a Genova ha rievocato nella memoria di chi ha protestato le violenze del 30 giugno 1960, quando la città medaglia d’oro alla Resistenza scese in piazza contro la convocazione del congresso del Movimento Sociale Italiano, dichiaratamente fascista. Lo scorso 23 maggio, la tensione tra antagonisti e forze dell’ordine è degenerata in scontri che hanno portato a lanci di bottiglie e altri oggetti da parte dei manifestanti e alla risposta degli agenti con i lacrimogeni. Ha fatto discutere la violenza delle forze dell’ordine anche contro chi si stava allontanando dalla manifestazione – come la ragazza accerchiata e colpita ripetutamente alle spalle con i manganelli – e, soprattutto, nei confronti del giornalista Stefano Origone.
L’inviato di Repubblica è stato prima buttato a terra, poi manganellato e preso a calci. Il pestaggio è stato fermato dall’intervento di un ispettore della Questura di Genova che conosceva Origone e si è accovacciato su di lui per proteggerlo da ulteriori percosse. Oltre a cercare di fermare i suoi colleghi, l’ispettore ha più volte ripetuto che si trattava di un giornalista, nella speranza di fermare il pestaggio. Lo stesso Origone – che ora si trova in ospedale con due dita fratturate, una costola rotta e molteplici contusioni – nei giorni successivi ha detto di aver temuto per la propria vita, mentre a terra cercava di proteggere il proprio corpo dai colpi degli agenti che hanno continuato a picchiarlo anche dopo la sua dichiarazione di essere un giornalista.
Il dibattito pubblico e politico sulla vicenda si è focalizzato su due aspetti: l’introduzione del numero identificativo per le forze dell’ordine e l’attenzione mediatica sull’episodio di violenza, dovuta al fatto che la vittima è il cronista di una delle principali testate nazionali. L’Italia non ha ancora adottato la raccomandazione n. 192 della risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata dal Parlamento europeo nel 2012. La direttiva sollecita gli Stati membri a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo, per tutelare i cittadini dall’uso della forza sproporzionata da parte delle forze dell’ordine. Diversi Paesi hanno già adottato questa risoluzione, allineandosi a quelli che avevano introdotto il sistema ancora prima della decisione di Bruxelles. Tra questi si trova la Grecia, che nel 2010 ha stabilito l’obbligo per tutti gli agenti di rendere visibile il codice di riconoscimento sia sulle spalline dell’uniforme che sul casco. La Francia ha imposto l’obbligo di esporre il codice a tutti gli agenti in servizio, sia in uniforme che in borghese, con un decreto del 2013 dell’allora ministro dell’Interno Manuel Valls. Anche in Spagna esiste sulla carta un obbligo di identificazione pubblica per gli agenti, anche se non ci sono misure per garantirne l’effettivo rispetto. Nel Regno Unito e in Germania, invece, la regolamentazione varia di regione in regione. Nel resto del mondo il tema è molto sentito, soprattutto negli Stati Uniti, dove le bodycam, telecamere da attaccare all’uniforme, sono state adottate da tempo. Tuttavia, secondo uno studio condotto sui dipartimenti di polizia di Washington e di altre grandi città statunitensi, neanche la loro introduzione ha davvero placato la brutalità della polizia, né ha modificato la percezione dei cittadini nei confronti degli agenti.
Quanto accaduto a Genova ha reso di nuovo attuale la campagna lanciata da Amnesty International lo scorso anno. La Ong non si limita a chiedere alle forze di polizia italiane di “metterci la faccia”, come recita lo slogan della campagna, ma esorta anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini e il capo della Polizia Franco Gabrielli a promuovere la campagna per tutelare i cittadini. Come ha sottolineato il presidente di Amnesty International, Antonio Marchesi, “Questa campagna non è ‘contro le forze di polizia’, che sono attori chiave nella protezione dei diritti umani. Affinché questo ruolo sia riconosciuto nella sua importanza e incontri la piena fiducia di tutti, è però fondamentale che eventuali episodi di uso ingiustificato o eccessivo della forza siano riconosciuti e sanzionati adeguatamente, senza che si frappongano ostacoli all’accertamento delle responsabilità individuali”.
Salvini, da sempre contro il numero identificativo per gli agenti descritti come le vittime di “delinquenti”, ha deciso di liquidare i fatti di Genova concentrandosi sul “casino” causato dai centri sociali, senza nessun cenno alla brutalità degli agenti coinvolti nel pestaggio di Stefano Origone. La posizione del ministro non sorprende ed è ormai chiara: non sono nuove le sue dichiarazioni a favore delle forze dell’ordine e di come la loro posizione debba essere rafforzata per garantire l’ordine con ogni mezzo, come dimostrano le sue dichiarazioni del 2015 contro l’introduzione del reato di tortura o la recente adozione del taser per gli agenti. Francesco Paolo Russo, segretario generale del Sap (Sindacato Autonomo di Polizia) Lazio, ha commentato le posizioni di Salvini parlando di “connubio indissolubile” tra la Lega e la Polizia di Stato.
La gravità di quanto avvenuto nel capoluogo ligure è data anche dalla violenza subita da Stefano Origone. Sapendo che l’ispettore ha cercato di fermare il pestaggio da parte dei colleghi dicendo che si trattava di un giornalista, sorge spontaneo chiedersi che cosa sarebbe successo se l’ispettore non avesse conosciuto Origone o se la vittima fosse stata uno dei tanti ragazzi presenti alla manifestazione. L’abuso della forza non è una novità per le forze dell’ordine italiane, come hanno dimostrato i fatti della scuola Diaz proprio nella stessa Genova, durante il G8 del 2001. Anche in quell’occasione giornalisti, studenti e comuni manifestanti sono stati brutalmente pestati fino a perdere i sensi, anche da gruppi di cinque agenti per volta che hanno infierito sulle vittime già a terra. Nelle stesse ore le persone detenute nella caserma di Bolzaneto hanno subito minacce di stupro, pestaggi e un atteggiamento squadrista da parte delle forze di polizia, che in diversi casi hanno costretto i prigionieri a gridare “Viva il Duce” e “Viva Pinochet”, pena ulteriori manganellate. Questi gravi episodi sono costati all’Italia, nonostante diversi tentativi di depistaggio nelle indagini, una condanna da parte della corte Europea dei diritti umani di Strasburgo per atti di tortura ai danni di 59 persone trattate “come oggetti per mano del potere pubblico, hanno vissuto durante tutta la durata della loro detenzione in un luogo ‘di non diritto’ dove le garanzie più elementari erano state sospese”.
Il vicequestore Giampiero Bove, intervenuto per salvare Stefano Origone, ha affermato che i suoi colleghi, ora sotto inchiesta, non sono folli, ma hanno agito in quel modo perché avevano scambiato il giornalista per uno dei manifestanti – colpevole quindi di non avere avuto una pettorina per il riconoscimento. Suscita inquietudine leggere tra le righe che se si fosse trattato davvero di un comune manifestante il loro atteggiamento sarebbe stato giustificato. I recenti fatti di Genova non devono essere archiviati con facilità come fa chi dice di essere “sempre dalla parte delle forze dell’ordine”. L’Italia ha un evidente problema di omertà mai risolto: quando si mette in discussione l’operato delle forze dell’ordine, lo si fa anche con uno Stato che ha molta difficoltà a mettersi in discussione quando si verificano casi di abusi e maltrattamenti. Di conseguenza, chi fa parte delle forze di polizia tende spesso a nascondere e a tacere, anziché denunciare il comportamento violento dei propri colleghi.
La campagna lanciata da Amnesty International e tutti coloro che lottano per l’introduzione del numero identificativo per le forze dell’ordine è sicuramente un segnale importante, ma il vero cambiamento deve partire dallo Stato stesso e dai suoi corpi di polizia. È impossibile parlare di tutela e sicurezza dei cittadini se le forze dell’ordine non riescono a essere trasparenti sulle azioni di alcuni dei suoi membri, denunciando comportamenti che minacciano le basi dell’impianto democratico. Una democrazia sana esiste solo in quei Paesi dove viene garantito uno stato di diritto e non dove, per paura o convenienza, viene tollerato uno di polizia.