Ogni anno 4mila nuovi sieropositivi. In Italia l’HIV si trasmette attraverso l’ignoranza.

Forse ricorderete una vicenda di cronaca che ha fatto scalpore qualche tempo fa: la storia di Valentino Talluto, il trentaquattrenne sieropositivo di Acilia etichettato dai media come “l’untore”, perché avrebbe volontariamente trasmesso il virus dell’Hiv a più di trenta ragazze. Quelle che hanno testimoniato contro di lui nel corso del processo lo ricordano come una persona gentile ed educata, il classico bravo ragazzo. Bravo è stato sicuramente a tacere, intrattenendo rapporti con più donne contemporaneamente senza farsi scoprire, almeno fino a quando una di loro, avuta notizia della sua sieropositività, ha deciso di chiedergli un test dell’Hiv: lui si è procurato un certificato medico falso, e da lì sono partite la denuncia e la nota vicenda. Da un numero iniziale di sei ragazze contagiate, gli inquirenti sono arrivati a rintracciare una trentina di persone che avevano avuto rapporti sessuali con Valentino ed erano rimaste infettate. Valentino usava il preservativo in modo irregolare e sembrerebbe casuale, su ammissione delle stesse ragazze ascoltate in udienza: a volte sì e a volte no, con alcune lo indossava, con altre mai, perché diceva di essere allergico o perché “era più bello senza”. La prova scientifica lo schiaccia: il ceppo virale presente nel corpo di Talluto è lo stesso delle ragazze rimaste contagiate.

Valentino Talluto

Valentino sapeva di essere sieropositivo almeno dal 2006 e ha probabilmente contratto l’Hiv attraverso un rapporto eterosessuale. Per destino o per caso, sua mamma è morta di Aids quando lui aveva soltanto 4 anni. Qualche decennio dopo, nell’ottobre del 2017, Valentino Talluto è stato condannato in primo grado a 24 anni di carcere per il reato di falso e lesioni gravissime, per aver consapevolmente trasmesso il virus dell’Hiv a decine di partner. Abbiamo letto titoli sensazionalistici e visto trasmissioni televisive a suon di “Botte all’untore!” che hanno ritratto un personaggio somigliante a quelli che, durante la peste di Milano del 1630, furono sospettati di diffondere l’epidemia spalmando unguenti velenosi sulle persone, e quindi perseguitati da popolo e giudici. Naturalmente non era vero e questo unguento nemmeno esisteva; già Manzoni, due secoli dopo, ne faceva un simbolo di suggestioni irrazionali e ignoranza collettiva. Un altro paio di secoli dopo, il “misterioso e letale” unguento si scopre essere lo sperma. Con l’untore in prima pagina, l’effetto gogna è assicurato. Il mostro lo guardiamo con morbosità perversa: è lì a ricordarci quanto male ci sia nel mondo, e che c’è sempre qualcuno peggiore di noi. Ma il rischio, in questi casi, è quello di mancare il focus e non fare quel salto di qualità che rende la cronaca una questione sociale e materia di riflessione, soprattutto quando si hanno davanti agli occhi vicende tragiche e controverse come questa. L’aspetto più importante e impressionante di questa storia, è che quasi tutte le persone coinvolte hanno scoperto la propria sieropositività per caso, dopo anni dal momento del contagio; o perché donatrici di sangue o, molto più spesso, perché chiamate dalla Procura o contattate dalle trasmissione Chi l’ha Visto?, che ha lanciato l’allarme all’untore. Alla luce del fatto che a dare una notizia così personale e delicata siano stati giornali e televisioni, si apprende che quasi nessuna delle persone contagiate si era mai fatta un test dell’Hiv nel corso di svariati anni. Oltre al danno, la beffa più odiosa è che alcune tra queste giovani donne hanno a loro volta contagiato i propri successivi partner, scatenando una reazione a catena.

Questa vicenda è emblematica perché specchio dei maggiori problemi legati all’Hiv. Al di là del piacere voyeuristico di sbirciare nella vita sessuale altrui, che è la lente attraverso cui è stata affrontata dai media nazionali, chiama a una profonda riflessione sociale: quasi nessuno in Italia fa sesso protetto – negli ultimi anni le malattie sessualmente trasmissibili  sono aumentate vertiginosamente – e soprattutto non ci si controlla, non ci si testa per l’Hiv dopo aver adottato comportamenti a rischio. Non a caso, il principale serbatoio d’infezione nel nostro Paese è dato da quelle persone che hanno il virus ma non lo sanno. Sono proprio loro a essere pericolose e rischiare di contagiare gli altri. Eppure la possibilità di entrare a contatto con questa patologia sembrerebbe non riguardarci, e la fotografia che ci viene restituita è quella di un immaginario collettivo rimasto fermo agli anni Ottanta e Novanta, quando contrarre il virus equivaleva a una sentenza di morte per Aids, e a doverla scontare sembrava fossero soprattutto tossicodipendenti e omosessuali. In realtà l’Hiv può colpire chiunque adotti comportamenti a rischio. La drammatica storia di Valentino e delle ragazze coinvolte, alcune giovanissime, mostra in tutta la sua tragicità la voragine culturale ed educativa del nostro Paese. Ci restituisce allo specchio la nostra ignoranza e superficialità, il banale pensiero che queste sono le classiche cose che capitano agli altri e mai a noi; sentenzia il persistere dello stigma, dell’Hiv come vergogna pubblica. Non è un caso se le decine di donne che hanno testimoniato, lo hanno fatto tutte a volto coperto. Hanno un’infezione, non sono colpevoli di alcun reato, eppure non mostrano il volto. Le persone sieropositive hanno paura di rivelare il proprio stato sierologico sia sul luogo di lavoro, ma anche agli amici e alle persone più vicine. Secondo una ricerca condotta dalla Lila, la Lega Italiana per la Lotta all’Aids, più della metà delle persone sieropositive ha segnalato un trattamento ingiusto o discriminatorio, mentre in un sondaggio dell’università di Bari, più del 20% delle persone intervistate ha dichiarato di non voler lavorare con sieropositivi.

I giovani sono la fascia più colpita dalle nuove diagnosi di Hiv e la loro disinformazione è allarmante. Secondo un’indagine condotta dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, il 37,5% dei ragazzi intervistati crede che le zanzare possano trasmettere l’Hiv e il 36,5% ritiene la pillola un metodo efficace per scongiurare il pericolo del contagio. l 20% dei ragazzi crede che il test dell’Hiv serva a sapere quando si è geneticamente predisposti all’Aids, mentre il 16,8% ritiene che una persona sieropositiva non corra il rischio di infettare amici o conoscenti solo “Se è attenta a evitare baci o contatti troppo stretti”. In materia di rischi nella convivenza con chi è sieropositivo, la mancanza di informazione è pressoché totale: il 95% dei ragazzi ha risposto in modo inesatto o dichiarato di non sapere nulla. E non è una realtà locale: simili lacune sono state riscontrate alla Sapienza di Roma, dove molti studenti non conoscono la differenza tra Hiv e Aids. Ma quando a utilizzare una terminologia sbagliata e a confondere il virus con la malattia sono i professionisti dell’informazione delle maggiori testate nazionali, c’è più di qualcosa che non va. L’Aids non si trasmette, al massimo il virus dell’Hiv che, se non trattato, sfocia in Aids. Di certo, l’uso di connotativi come “untore” non fa che alimentare lo stigma verso le persone sieropositive. Ma oltre che discriminatorio nei confronti di quanti con l’Hiv ci convivono, è fuorviante: oggi le persone sieropositive, se trattate in modo efficace dalla terapia da più di sei mesi e senza altre infezioni a trasmissione sessuale, non trasmettono il virus. Neanche sessualmente. È notizia del 2008, eppure pochi lo sanno e pochissimi lo dicono.

Il messaggio che il racconto mediatico veicola relativamente a certi fatti di cronaca, è che una persona con l’Hiv sia pericolosa perché trasmette il virus: in realtà, quelle persone salite tristemente alla ribalta come “untori”, hanno trasmesso il virus perché non erano in trattamento. Nel caso di Valentino, ha potuto contagiare altre persone perché non era in terapia: non gli era stata prescritta in quanto il suo sistema immunitario non aveva subìto danni rilevanti. Fino al 2014 le linee guida sanitarie nazionali non prevedevano per i medici l’obbligo di raccomandare la terapia se i cd4, le cellule che rilevano lo stato del sistema immunitario, non fossero scesi sotto una certa soglia. E Valentino stava bene. Oggi quelle linee guida sono cambiate e la terapia antiretrovirale, ritenuta la migliore strategia di prevenzione globale, si prescrive immediatamente, a prescindere dal numero di cd4 nell’organismo. È la strategia che porta maggiori benefici per il singolo e per la salute pubblica. Lo stesso Valentino Talluto oggi, se in cura, avrebbe grandemente ridotto, se non escluso, la possibilità di contagiare Talluto risponde penalmente alla giustizia per i reati commessi. Per tutti gli altri basterebbe sapere che dall’Hiv ci si può proteggere, e ricordarsi, soprattutto in quei momenti che viaggiano all’intensità del desiderio e tutto sembra perdere importanza, che è ancora più importante: la protezione è una responsabilità condivisa, per sé stessi e per gli altri. Trovare un capro espiatorio su cui addossare le colpe è solo un meccanismo consolatorio che ci fa sentire più puliti e ci vorrebbe sollevare dalle nostre responsabilità.

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