In Italia ancora oggi agli occhi dell’opinione pubblica il hijab, il velo islamico, è visto spesso come sinonimo di oppressione e imposizione maschile. In una società come la nostra, in cui confusione e ignoranza su alcune tematiche restano all’ordine del giorno nonostante gli ampi mezzi di informazione, è facile creare stereotipi e pregiudizi fondati su realtà fittizie, che prendono in considerazione un solo punto di vista. Si fa fatica, infatti, a concepire che una donna possa liberamente scegliere di indossare il hijab, perché spesso c’è l’idea che la dimostrazione della libertà femminile stia in un corpo scoperto, che si mostra. Da un lato, ciò deriva dal cosiddetto “femminismo bianco” che vede nelle lotte occidentali, in particolar modo nei traguardi ottenuti contro la censura imposta dalla Chiesa, modelli vincenti e dunque da “esportare” come esempio anche in altri Paesi, senza tener conto della loro cultura, storia e società. Dall’altro, però, questa idea è fomentata da teorie islamòfobe, secondo cui sarebbe il marito o il padre a obbligare la donna a un certo tipo di abbigliamento, non riconoscendone l’autodeterminazione.
Per rafforzare questa tesi vengono di volta in volta utilizzate soprattutto le testimonianze di donne che, vivendo in Paesi autoritari con un forte dominio dell’Islam fondamentalista, vedono messa in discussione la loro libertà di scelta individuale. Tuttavia, non ci si può focalizzare su un singolo elemento di una società senza calarlo nel contesto di appartenenza e metterlo in relazione con il complesso sistema sociale e culturale dal quale è generato. In Paesi come l’Arabia Saudita, l’Afghanistan e l’Iran la libertà femminile viene sistematicamente lesa, perché la società si fonda su patriarcato particolarmente estremista, che deriva da antiche tradizioni tribali. Ma anche l’occidente si fonda sulla stessa organizzazione sociale. L’errore sta quindi nel rendere patriarcato sinonimo di Islam e di conseguenza nel ricondurre la lotta al patriarcato a quella dell’Islam fondamentalista e integralista.
La religione, in politica, è sempre stata un’arma vincente. I leader politici autoritari dei Paesi citati ottengono paradossalmente la legittimazione di un’ampia parte della popolazione proprio strumentalizzando e interpretando in maniera personale la religione, facendo leva sulla fede e sull’ignoranza dei cittadini. Allo stesso tempo queste dinamiche vengono sfruttate dai leader politici occidentali per diffondere odio e far crescere la paura, trovando nell’Islam e nei musulmani il perfetto nemico comune da combattere, anche a causa dei numerosi attentati che hanno ordito negli ultimi vent’anni. Questa narrativa risulta efficace grazie all’utilizzo dei media che contribuiscono a rappresentare le persone musulmane indiscriminatamente come terroristi, incivili, soggetti inferiori da acculturare e modernizzare.
Basta prendere come esempio l’ultima polemica avvenuta in alcuni Paesi europei contro la campagna del Consiglio d’Europa, che mirava a diffondere messaggi inclusivi per contrastare la discriminazione e la narrativa dell’odio. Lo slogan “La bellezza è nella diversità come la libertà è nell’hijab”, accompagnato da volti di donne con e senza il velo, ha destato molto scalpore. Il primo Paese a prendere posizione contro la campagna è stata la Francia, con la sottosegretaria di Stato per la Gioventù, Sarah El Haïry, figlia di genitori di origini marocchine naturalizzati francesi, che ha definito questo spot pubblicitario “opposto ai valori difesi dalla Francia”. La notizia ha raggiunto anche i politici italiani che non si sono fatti sfuggire l’occasione di diffondere i loro messaggi islamòfobi sfruttando l’ondata mediatica: “Coi soldi degli italiani il Consiglio d’Europa promuove l’utilizzo del velo islamico? Non basta ritirare questa demenziale campagna pubblicitaria, qualcuno in Europa deve scusarsi e dimettersi”, condivide sui suoi profili social Matteo Salvini.
Gli esiti infausti di queste controversie ricadono purtroppo duramente sulla comunità musulmana che vive in Occidente e che viene quotidianamente e ingiustamente etichettata, come se ci si dimenticasse che si tratta di persone che in piena libertà e coscienza ritrovano nell’Islam un posto sicuro, in molti casi dopo averne analizzato, studiato, raccolto e discusso informazioni provenienti dai testi sacri e dai teologi di tutto il mondo.
Sono infatti molte le testimonianze di donne musulmane, nate e cresciute in Italia, che hanno scelto in piena autonomia di indossare il hijab per esprimere ogni giorno la loro personalità, nonché il loro femminismo, attraverso questa scelta; anche per dimostrare che l’idea che in tanti hanno dell’Islam si fonda su stereotipi e pregiudizi, su cui fanno leva i media e i politici per aumentare i loro consensi. Come racconta a THE VISION Mariam El Haouat, studentessa di giurisprudenza e componente di Art3Collective, a volte la scelta di indossare il velo arriva dopo un lungo percorso di ricerche e consultazioni: “A sedici anni ho deciso di indossare il hijab. Sentivo il bisogno di metterlo alla luce delle informazioni che avevo raccolto e del rapporto che avevo instaurato con la mia fede. Ho pensato che il momento più adatto potesse essere l’estate, periodo in cui sarei andata in Marocco e sarei stata momentaneamente lontana dai pregiudizi delle persone che mi conoscevano e che non subito avrebbero capito la mia scelta. “Una volta tornata”, aggiunge El Haouat, “la cosa più brutta è che le persone si aspettavano che io fossi cambiata nel momento in cui mi sono messa il velo: si aspettavano che io smettessi di essere simpatica, di essere quella brava a scuola o che avessi smesso di saper parlare italiano. Pensavano che la mia scelta fosse dettata da un’imposizione familiare quando non era assolutamente così”.
Quando una donna decide di indossare il hijab in un Paese occidentale è consapevole delle numerose difficoltà che troverà nel suo percorso, dettate, come già detto, da pregiudizi e stereotipi, ma, come dimostrano le parole di Mariam, la scelta di indossare il hijab e di vestirsi in maniera tradizionale, in Europa, è un’idea dettata, per molte più donne di quanto si possa credere, da un lungo percorso di introspezione e la decisione avviene in maniera del tutto autonoma e cosciente. Alcune persone dicono di aver passato gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza dominate dal pensiero che il hijab e l’Islam potessero ostacolarle nel lavoro che volevano intraprendere, per poi realizzare che in realtà non erano tanto il velo o il credo in sé a essere loro d’ostacolo ma il significato che viene ancora dato loro in Occidente. Faisa Abdullahi, modella nata e cresciuta in Italia di origine somala, a questo proposito, dice: “Prima di vedere Halima Aden sfilare, ho sempre pensato che una ragazza velata non avrebbe mai potuto lavorare nel mondo della moda, perché da piccola, sulle riviste, non avevo mai visto una ragazza con il velo, o Nera, su una copertina. Poi ho capito che il hijab è una cosa che fa semplicemente parte della mia identità: il hijab rispecchia la versione più autentica di me stessa”.
Il problema è che spesso, quale che sia la cultura a cui si appartiene, si pensa di poter giudicare e dare la propria opinione rispetto a cosa una donna possa o non possa fare e soprattutto come una donna debba o non debba vestirsi, non riconoscendone l’autodeterminazione. Che una donna decida di indossare o meno il hijab, si scontrerà molto probabilmente con il punto di vista di una persona – magari estranea – pronta a giudicarla e a mettere in discussione la sua scelta, non si sa bene con che diritto. “Quando indossi il hijab sei perennemente giudicata: da una parte c’è chi sostiene che tu sia oppressa, che la scelta non sia tua, e dall’altra ci sono persone della tua stessa comunità che ti rinnegano e ti giudicano per il modo in cui decidi di indossarlo”, spiega a THE VISION Esra Warda, ragazza italiana di origini egiziane e content creator, che vede diventare quotidianamente il suo abbigliamento oggetto di discussione.
In questo caso, quando si appartiene allo stesso tempo a due culture per certi aspetti opposte tra loro, come quella araba e quella italiana, è difficile che le proprie scelte vengano comprese a pieno dai singoli componenti delle due senza che diventino dibattito sociale: da una parte se indossi il hijab, i tuoi amici, colleghi, compagni di università magari faranno fatica a comprendere la tua scelta; dall’altra, se non lo indossi, o lo indossi a modo tuo, sarà probabilmente la tua comunità familiare a giudicarti e frasi come “sei troppo Occidentale” o “non è questo il modo dignitoso di vestirsi” saranno all’ordine del giorno. Insomma, le donne, a prescindere dalla cultura a cui appartengono sono perennemente giudicate, vengono fatte diventare oggetto passivo di dibattito. Anche Sumaia Saiboub, Head of Content di Colory* e digital creator ha dovuto sentirsi rivolgere spesso domande inappropriate nel mondo del lavoro causate dal suo modo di vestirsi: “[Queste domande] non hanno nulla a che vedere con quelle che possono essere le mie esperienze passate, i miei compiti sul luogo del lavoro o le mie competenze, che dovrebbero essere le uniche domande fatte in un colloquio di lavoro”.
Persino il femminismo a volte può essere inappropriato e creare difficoltà legate alla scelta del hijab. Ma una donna è veramente libera quando ha la possibilità di scegliere, e soprattutto quando le sue scelte identitarie non vengono criticate e messe in discussione, diventando costantemente oggetto di dibattito. Non può davvero dirsi femminista una persona che nega a una donna l’autodeterminazione e intende imporle il proprio pensiero e le proprie convinzioni culturali, con la pretesa di liberarla da chissà quale inesistente costrizione. I problemi del patriarcato, sia esso islamico od occidentale, come sappiamo sono ben altri, affondano le radici nello stesso sostrato e bisognerebbe occuparsene. Negazione dell’autonomia e imposizione del pensiero dominante sono esattamente i principi su cui si fonda il maschilismo. Come pretendiamo di vincere questa battaglia se usiamo esattamente gli stessi strumenti e modalità che ci auguriamo di vedere terminare. Finché una sola donna sarà costretta a giustificare agli altri il suo modo di essere e le sue scelte nell’esprimere la sua identità, non sarà possibile parlare di femminismo intersezionale come di una realtà realmente diffusa e inclusiva.