Non solo oggetto sistematico di violenze, molestie, disparità economiche e revenge porn, ma anche tra i bersagli principali dell’hate speech: le donne continuano a essere vittime di una società profondamente maschilista e sessista, nei luoghi pubblici, all’interno delle mura domestiche e anche sul web. A ulteriore conferma dell’esistenza e della gravità di questo fenomeno sono i dati diffusi in questi giorni dalla terza edizione del Barometro dell’odio, il monitoraggio dei social media realizzato da Amnesty International, dedicato quest’anno all’odio di genere e alla misoginia sui social network. Tra novembre e dicembre 2019, per 5 settimane, sono stati raccolti e valutati i contenuti relativi a 20 influencer, 10 donne e 10 uomini, noti nel panorama italiano e appartenenti a diverse categorie – come sport, spettacolo e politica. L’obiettivo della ricerca intitolata “Sessismo da tastiera” è stato analizzare la diffusione e le caratteristiche dell’odio di genere online.
Le prime due edizioni del Barometro dell’odio si sono svolte rispettivamente in concomitanza con le elezioni politiche del 2018 e con con quelle europee del 2019. In queste due occasioni erano stati monitorati i profili social (Facebook e Twitter) di tutti i candidati e leader politici. I dati ottenuti avevano evidenziato alcune tendenze e tematiche ricorrenti legate al fenomeno dei discorsi d’odio: la maggior parte delle segnalazioni, infatti, avevano al centro temi riguardanti l’immigrazione, le minoranze religiose, la comunità LGBTQ+, le donne e la parità di genere.
Vista la massiccia presenza di discriminazioni e di vero e proprio hate speech online nei confronti del genere femminile, Amnesty ha deciso di approfondire questo fenomeno con un nuovo studio, stavolta tutto incentrato sull’odio di genere sui social network. Il quadro che ne emerge è molto preoccupante, per non dire inquietante. Su 42.143 post e tweet analizzati, più di 1 su 10 (il 14%) è offensivo, discriminatorio o hate speech. Il tema “donne e diritti” continua a essere marginale, presente solo nell’1% dei commenti analizzati. Nonostante questo, circa 2 commenti su 3 hanno un’accezione negativa, mentre più del 29% è offensivo, discriminatorio o considerato hate speech. Inoltre, quando si parla di questo tema, i commenti offensivi, discriminatori o di odio, hanno nella maggior parte dei casi proprio le donne come bersaglio (23,2%, di cui 2,3% hate speech).
E questo non può essere un caso: le donne, infatti, in una società di stampo patriarcale come la nostra, non vengono offese solo per le proprie idee o per le proprie parole, ma spesso solo per il fatto di essere donne. Con la scusa, misogina e maschilista, secondo la quale le donne che pensano o che esprimono la propria opinione, sono spesso etichettate come “rompicoglioni” o problematiche. La donna, nella concezione patriarcale del mondo, è rappresentata dalla figura della moglie premurosa e devota o della madre sempre disponibile e in grado di sacrificarsi in ogni momento per il bene della famiglia. Insomma, un essere inferiore, che deve essere sottomesso e restare in silenzio, per non disturbare la narrazione monocanale del mondo.
Oltre agli attacchi personali diretti ad alcune donne specifiche, sono stati analizzati anche i commenti sessisti che avevano come bersaglio le donne in quanto categoria sociale. Si è avuta la conferma così che metà dei commenti sessisti (49%) non è rivolta a una tra le influencer, ma a un’altra donna o alle donne intese come gruppo sociale. A dimostrazione del fatto che sono molto diffusi anche gli attacchi contro l’intera categoria e non solo verso il singolo.
Secondo il report di Amnesty, inoltre, gli attacchi personali diretti a donne costituiscono più del 6% dei commenti offensivi, discriminatori o hate speech pubblicati sulle loro bacheche o in cui sono menzionate, un terzo in più rispetto a quella degli uomini, che non raggiunge il 4%. Passando poi agli episodi di sessismo esplicito, degli attacchi personali diretti a donne 1 su 3 risulta sessista (il 33%), anche se le percentuali degli attacchi sessisti oscillano molto da influencer a influencer, superando il 50% in tre casi e arrivando in altri fino al 71%, ovvero a quasi 3 attacchi personali su 4.
Fra i casi analizzati dal monitoraggio, sono state trovate similitudini e picchi particolarmente significativi in particolare in tre casi, che hanno avuto come bersaglio donne giovani solitamente non abituate a esporsi a livello mediatico e che, proprio in quell’occasione, sono state “messe alla gogna” sui social da esponenti politici, siti web e giornali per fini politici. In tutti e tre i casi gli utenti, una volta scoperti i loro nomi, hanno cercato queste donne sui social per scaricare su di loro tutto l’odio e la frustrazione personale che covavano. Al termine del picco di odio registrato, il bersaglio viene di solito completamente dimenticato dagli hater, anche perché spesso è la vittima stessa che decide di cancellarsi dai social, per non subire più la shitstorm.
Non solo Amnesty Italia si è occupata del monitoraggio dell’odio sui social, ma anche altre sezioni di Amnesty International, come il rapporto “#ToxicTwitter: violenza e molestie online contro le donne”, che si basa su una ricerca condotta nell’arco di 16 mesi su interviste a 86 donne tra cui giornaliste, attiviste, blogger, scrittrici, attrici, politiche e utenti comuni del Regno Unito e degli Usa, riguardo al loro giudizio di fronte al fatto che Twitter non ha preso sul serio le segnalazioni di molestie. È stata rilevata un’incidenza del 7,1% di tweet problematici e di incitamento all’odio, pari a 1,1 milioni di contenuti. Inoltre, dalla ricerca risulta che le donne di colore hanno il 34% in più di possibilità di essere menzionate in commenti negativi e problematici.
Un altro progetto, stavolta nato in India, “Troll Patrol India: Exposing Online Faced by Women Politicians in India”, ha monitorato i profili di Twitter di 100 rappresentanti politiche per tre mesi durante il periodo elettorale. Il 10,5% dei contenuti si è rivelato problematico, il 3,3% hate speech. Un contenuto problematico ogni 5, inoltre, è a sfondo sessista o misogino. Il bersaglio preferito dell’odio online sono però le donne musulmane, o percepite come tali, che ricevono il 55,5% in più di contenuti problematici e di odio.
Tutti questi dati confermano, purtroppo, che le donne in Italia e nel mondo sono ancora oggi uno dei bersagli prediletti dell’hate speech e dei discorsi sessisti. Queste vicende e questi comportamenti, nonostante le lotte femministe italiane degli ultimi cinquant’anni e i loro importanti successi, rappresentano un esempio concreto di come il machismo e la cultura patriarcale continuino a plasmare profondamente la mentalità di milioni di persone e a mietere vittime ogni anno. La dinamica è sempre la stessa: si sceglie un obiettivo femminile, meglio se popolare, da una parte si diffondono contenuti privati e intimi che possano metterla in imbarazzo, dall’altra, al reato, si accompagnano la gogna, le offese e discorsi di odio contro le donne per distruggere la dignità della persona.
Qualcosa, però, sta finalmente cambiando, e paradossalmente, proprio grazie a internet e ai social, quegli stessi strumenti che, se usati in modo erroneo e spregiudicato, possono arrivare a rovinare intere esistenze. Ciò che fa la differenza sono la consapevolezza e la conoscenza di questi strumenti, dei loro limiti e dei loro pericoli. Come spiega la sociologa Silvia Semenzin in Sessismo da tastiera: “Se vogliamo promuovere i diritti umani anche su internet, dobbiamo sforzarci di dare esempi positivi invece di comportarci come chi odia, anche se il nostro primo impulso può essere quello di rispondere e denigrare a nostra volta certi discorsi. So che non è facile, ma è necessario”.
Non bastano infatti le leggi, come quella definita “Codice rosso” che dal 2018 riconosce in Italia il reato di condivisione non consensuale di materiale intimo, a contenere e arginare fenomeni tossici come la misoginia, l’hate speech e il sessismo maschilista. Su questi temi serve un maggiore coinvolgimento delle istituzioni, ma anche della scuola e delle famiglie. È necessario partire quindi dall’educazione digitale e sessuale e da una vera e propria rivoluzione culturale, che possa insegnare alle persone a convivere in maniera civile e tollerante, dal vivo così come online.
In attesa dell’approvazione della legge contro l’omolesbobitransfobia, la misognia e la discriminazione verso i disabili, se siamo vittime di hate speech o se vogliamo segnalare commenti e comportamenti offensivi e/o violenti online, possiamo rivolgerci a piattaforme online come “Odiare ti costa” o “Chi odia paga” che offrono sostegno, aiuto e supporto alle vittime di odio sul web. Due alleati preziosi nella battaglia contro l’intolleranza e la violenza.
Oltre agli strumenti della denuncia e dell’educazione, un’altra realtà su cui si dovrebbe intervenire sono le piattaforme come i social network, dove l’odio si propaga sempre più velocemente. Questi dovrebbero infatti intensificare l’attività di monitoraggio al fine di intervenire con la tempestiva chiusura di gruppi che incitano all’odio e alla discriminazione di genere e fornire strumenti e guide utili a combattere la violenza e l’odio contro le donne, contribuendo a formare ed educare utenti sempre più attenti e consapevoli dell’ecosistema digitale in cui si muovono ogni giorno.