C’è un aggressore e un aggredito, abbiamo tutti questa frase impressa nelle nostre menti e ormai parte del dibattito pubblico, soprattutto in seguito all’invasione russa dell’Ucraina. E se l’aggressore nel conflitto iniziato il febbraio dello scorso anno è la Russia, nel conflitto israelo-palestinese ci sono pochi dubbi a riguardo: l’aggressore originario è Israele. Pur da sostenitore della causa palestinese, però, in questi giorni ho ovviamente sofferto di fronte agli attacchi di Hamas: centinaia di vittime, cittadini presi in ostaggio, persino un massacro di civili durante un rave. E mi sono chiesto quale sia il confine tra resistenza e terrorismo, tra diritto a difendersi e il fondamentalismo assassino. Trovandoci di fronte a una delle questioni geopolitiche più spinose degli ultimi settantacinque anni, le risposte non sempre possono essere nette e necessitano di riflessioni più profonde.
Al termine della seconda guerra mondiale, il popolo ebraico aveva il controllo sul 7% del territorio palestinese. Nel 1947, la neonata ONU, attraverso la Risoluzione 181, stabilì il Piano di partizione della Palestina: il 55% del territorio sarebbe stato destinato a uno Stato ebraico, il 44% a uno Stato arabo, Gerusalemme un luogo internazionale. L’anno successivo, con la Dichiarazione d’indipendenza israeliana, circa 700mila palestinesi furono cacciati dalle loro terre. Ancora oggi per indicare quel preciso momento viene usata una parola araba: “nakba”, catastrofe. Al termine delle ostilità, lo Stato di Israele tenne alla larga i profughi palestinesi, costretti da allora a vagare tra Cisgiordania, Libano, Siria e Gaza. I villaggi dei palestinesi furono rasi al suolo, per quella che anche Amnesty International definisce come pulizia etnica. L’organizzazione ha parlato anche di un regime di apartheid imposto da Israele ai palestinesi, con i decenni successivi segnati da oppressione, soprusi e frammentazione della popolazione.
La comunità internazionale, all’epoca, si trovò in una situazione di imbarazzo. Gli stessi accordi del 1947 erano sostanzialmente una concessione al popolo ebraico dettata dal senso di colpa: l’orrore dell’Olocausto, gli ebrei perseguitati e uccisi brutalmente, una macchia impossibile da rimuovere nella memoria collettiva. Quando però Israele continuò a espandersi ben oltre i confini segnati nel 1947, in particolare con la Guerra dei sei giorni e l’occupazione militare del 1967, l’ONU fu costretta ad agire con una nuova risoluzione, la 242, chiedendo “il ritiro dell’esercito israeliano dai territori occupati durante il recente conflitto, il rispetto e il riconoscimento della sovranità e dell’integrità territoriale palestinese”. L’ONU non venne ascoltata e Israele continuò a perseguitare i palestinesi e ad allargare i propri presidi territoriali. Arrivarono ulteriori risoluzioni, tra le più importanti delle quali vanno ricordate la 446 del 1979 e la 478 del 1980. Nella 446 veniva specificato che “la creazione di insediamenti da parte di Israele nei territori arabi occupati dal 1967 non ha validità legale” e in cui si chiedeva di “rispettare scrupolosamente le Convenzioni di Ginevra relative alla protezione delle persone civili in tempo di guerra”. La 478, invece, arrivò dopo la proclamazione di Gerusalemme intera e unificata come capitale di Israele. L’ONU definì questa scelta “una violazione del diritto internazionale” e le leggi instaurate “nulle”. Arrivati alla Risoluzione 2334 del 2016, nella quale vengono nuovamente definiti illegali gli ultimi insediamenti israeliani nei territori palestinesi, forse qualcuno alle Nazioni Unite si sarà accorto di non essere stato ascoltato per decenni e di non aver alcuna voce in capitolo di fronte alle mosse di Israele.
Analizzate le colpe originarie di Israele, e appurato il diritto della Palestina di difendersi, non si possono non ricordare però anche i lati più oscuri della resistenza palestinese. Nel 1987 nacque Hamas, organizzazione sunnita di estrema destra considerata di stampo terroristico da gran parte della comunità internazionale. Con gli anni la crescita di Hamas ha creato conflitti interni sempre più intensi, fino alle elezioni del 2006 che hanno portato a una divisione territoriale con Fatah – rappresenta la fazione socialista della politica palestinese – in Cisgiordania e Hamas nella cosiddetta Striscia di Gaza. Fatah, che fa parte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata in passato dal Premio Nobel per la pace Yasser Arafat, si contrappone ad Hamas a livello di ideali e strategie politiche. La differenza sostanziale nella resistenza è che Fatah ha riconosciuto il diritto a esistere dello Stato di Israele, mentre per Hamas, secondo il suo statuto, “non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel jihād”. Il continuo rimando a una guerra santa e il fondamentalismo di Hamas hanno portato l’Occidente a stringersi attorno a Israele, prezioso alleato soprattutto degli Stati Uniti, fino a dimenticare la radice della questione palestinese e a legiferare in modo improprio.
Il caso più lampante riguarda Donald Trump, che nel 2020 firmò con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e con i rappresentanti degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein gli Accordi di Abramo, una sorta di piano di pace raffazzonato che contemplava nei negoziati sostanzialmente tutti tranne i palestinesi, che infatti protestarono apertamente. Tre anni prima, nel 2017, Trump la combinò ancora più grossa: una mattina si svegliò e decise di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. D’altronde, inazionalismo di destra di Netanyahu non poteva che fare breccia in un periodo storico segnato proprio da questa ondata politica, e ha inasprito i rapporti già tesi con il mondo arabo, oltre che adottare metodi da autocrazia anche in patria. In questi anni, le critiche a Israele e al governo di Netanyahu sono state passate al setaccio cercando in modo forzato un germe di antisemitismo laddove non c’era. Contrastare i soprusi di Israele non vuol dire andare contro la comunità ebraica. Certo, probabilmente esisterà sempre chi negherà l’Olocausto o gli antisemiti da tastiera (e non solo), ma criticare legittimamente Israele non vuol certo dire mettere in discussione la Storia.
Allo stesso tempo, sembra che si sia creata una polarizzazione per cui il sostegno alla Palestina sia per forza associato all’appartenenza al blocco antioccidentale. Per esempio, il regime iraniano, che ha appoggiato Hamas nei recenti attentati, non può di certo essere tollerato – pur sostenendo la causa palestinese. Sembra prevalere però, come al solito, la logica “il nemico del mio nemico è un mio amico”, e dunque anche la Russia, su cui ci sono forti sospetti di via libera per gli atti di Hamas, rientra nello scacchiere geopolitico creando una rete di filo-palestinesi ammiratori di Putin. Teoricamente è un paradosso, perché i palestinesi sono stati vessati come lo sono adesso anche gli ucraini, ed è Putin a esserne il carnefice. Solo che è sufficiente andare contro il blocco Occidentale e la Nato per accomunare tutti nello stesso calderone. Qualcuno trova rifugio nell’equidistanza e nel cerchiobottismo, ma credo che sia necessario giudicare le singole situazioni in modo netto, senza lasciarsi influenzare da eventuali alleanze o ideologie di rimando. Come detto, mi considero a fianco del popolo palestinese. Questo non mi impedisce però di condannare le stragi di Hamas. Trovo insopportabile la logica secondo cui, siccome l’Occidente supporta Israele, allora non sia lecito essere filo-palestinesi, perché se lo si è si viene considerati contemporaneamente filo-putiniani. Non c’è alcun nesso: sostengo la resistenza ucraina esattamente come quella palestinese. Ma qui torniamo alla domanda originaria: qual è il confine tra resistenza e terrorismo?
Il conflitto Israele-Palestina si è ormai cronicizzato da tempo, ma le ultime azioni di Hamas hanno spostato l’asse della guerra in una direzione di non ritorno. Vedere le immagini delle bambine palestinesi con il mitra in mano mi ha fatto impressione, così come osservare le fotografie dei cadaveri di civili israeliani lasciati per strada. Allo stesso tempo era tremendo guardare quelle dei cadaveri palestinesi, ovvio. Forse la differenza tra la resistenza ucraina e quella palestinese è che i primi non usano le armi straniere per bombardare San Pietroburgo, ma per difendere il proprio territorio. Qualcuno potrebbe controbattere dicendo che anche I’attuale Israele è considerato “il proprio territorio” per i palestinesi. Ed è vero, sono stati cacciati dalla loro terra con la violenza e non vi hanno più fatto ritorno. Ma stiamo parlando di un’organizzazione – Hamas – che negli anni ha ucciso gli stessi palestinesi, torturandoli e giustiziandoli a freddo – come documentato da Amnesty International – perché accusati di “collaborare” con lsraele e altre entità, tra cui Fatah.
Fatah e Hamas non sono la stessa cosa, e in generale un popolo vessato rimane tale a prescindere da chi lo rappresenta o da chi giunge al potere. Altrimenti non dovremmo sostenere gli ucraini perché hanno messo in atto la strage di Odessa o perché all’interno del loro esercito ci sono diverse cellule neonaziste. Eppure il contadino ucraino o il rifugiato palestinese non sono automaticamente neonazisti o terroristi. Addirittura in Palestina non si vota da diciassette anni, quindi non si può nemmeno parlare di una rappresentanza popolare; semmai di giochi di potere dall’alto e di organizzazioni che si spartiscono i ruoli e i territori. Non c’è dunque una contraddizione nel supportare i palestinesi e gli ucraini, nel condannare Netanyahu e Putin, nel riconoscere le malefatte di Israele e contemporaneamente condannare le azioni di Hamas. Anche perché non si combatte l’invasore ammazzando delle persone che ballano durante un rave. Deve esserci un’universalità nella condanna della violenza. Noi condanniamo quella di Hamas, e sarebbe auspicabile che l’Occidente facesse lo stesso anche di fronte a quella israeliana.