Sembra che per molti la questione israelo-palestinese sia iniziata il 7 ottobre 2023. Non è così. - THE VISION
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Sembra che per molti media italiani, il conflitto tra Israele e Palestina sia iniziato il 7 ottobre del 2023, giorno in cui Hamas ha attaccato città e villaggi israeliani uccidendo circa 1200 persone e prendendone in ostaggio 251. Un massacro indicibile, ingiustificabile, a cui è seguita la risposta di Israele: più di 40mila vittime palestinesi, tra cui molte donne e bambini, e un conflitto che mese dopo mese si è allargato coinvolgendo altri stati e organizzazioni terroristiche. Io, però, provo a immaginare la reazione di uno storico quando oggi è costretto a leggere le notizie “sull’anniversario della guerra tra Israele e Palestina”. Probabilmente, stupito, cercherà tra le sue carte un altro 7 ottobre: tra le aliyah iniziate alla fine dell’Ottocento, ovvero per gli ebrei “il ritorno a casa dalla diaspora”, con l’Impero ottomano a tentare di arginare l’immigrazione; oppure ai tempi della dichiarazione Balfour del 1917, quando il governo britannico firmò per tentare di trovare una casa per il popolo ebraico in Palestina; dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando una risoluzione delle Nazioni Unite creò la divisione tra uno stato ebraico e uno arabo; dopo gli scontri in seguito alla dichiarazione d’indipendenza dello Stato di Israele nel 1948, con centinaia di migliaia di palestinesi cacciati dalle proprie case. Qualcuno potrebbe spingersi persino alla Guerra dei sei giorni del 1967, che vide coinvolte anche Siria, Egitto, Giordania e Iraq. Eppure, lo storico in questione non troverà nulla, perché i media italiani si riferiscono unicamente al 7 ottobre dell’anno scorso. Prima sembra non sia successo niente. Dopo: la “reazione spropositata” di Israele – ovvero un modo più che annacquato per definire un genocidio.

Gaza, 2023

In realtà, Gaza era una prigione a cielo aperto anche prima delle reazioni seguite ai fatti del 7 ottobre. Certamente, poi, da quella data il governo di Netanyahu ha eliminato qualsiasi freno, esasperando ancor di più la violenza e il controllo su una popolazione pressoché inerme. I morti e le repressioni, però, non sono purtroppo una novità dell’ultimo anno. Io credo che il comportamento dei media sia stato condizionato dal ruolo dell’Italia in questo conflitto: da un lato una parte considerevole della società civile esplicitamente a sostegno del popolo palestinese, dall’altro un fatto incontrovertibile, ovvero l’alleanza con Israele. Su quest’ultima questione non c’è stata coesione nemmeno in Unione Europea, considerando che alcuni stati hanno riconosciuto formalmente lo Stato di Palestina, altri, come l’Italia, no. D’altronde la nostra destra ha sempre teso la mano a quella di Netanyahu, e adesso c’è una stretta anche contro le manifestazioni in piazza, con un DDL Sicurezza che reprime il dissenso – pure pacifico – e limita la libertà di protesta. Inoltre, il nostro principale alleato, gli Stati Uniti, nonostante flebili critiche di circostanza sostiene Israele. E così sui giornali le azioni contro i palestinesi vengono minimizzate o camuffate attraverso mezzi giornalistici di dubbio valore etico. Per esempio, in occasione della recente invasione in Libano, mi è capitato di leggere titoli del genere: “L’Idf colpisce in Libano, la rabbia dei cristiani: colpa di Hezbollah”. In questo titolo ci sono due elementi da analizzare: intanto l’uso del termine Idf, ovvero le forze di difesa israeliane, invece di un più semplice e deciso Israele, è quasi un omissis, perché non tutti i lettori collegano Idf a Israele; e poi l’assoluzione, incolpando altri.

Gaza, 1997
Gaza, 1993

Gli altri, appunto. Il problema del mondo palestinese è determinato anche dalla guida di organizzazioni terroristiche interne – Hamas – e il sostegno di quelle esterne – Hezbollah, ma anche l’intero stato iraniano che è conosciuto per non rispettare i più elementari diritti umani. Si crea dunque un retropensiero che porta a dire: “Israele sta comunque combattendo contro dei mostri”. È però un pensiero strumentalizzato. Intanto perché la formula Palestina=Hamas non è corretta, e poi perché la “mostruosità” degli avversari di Israele, che non sto di certo a sindacare, non cancella i crimini di Netanyahu. Per certi versi mi ricorda la guerra in Afghanistan, quando gli Stati Uniti si scagliarono contro i talebani. Furono i primi tempi per molte persone della mia generazione in cui si formò una coscienza politica, civile, e quella guerra fu convintamente contestata. Questo nonostante fossimo a conoscenza dei metodi bruti dei talebani e della loro concezione del mondo. Non a caso, una volta ritirate le truppe statunitensi, quando i talebani hanno ripreso il controllo è tornato il terrore. Eppure, quella guerra degli Stati Uniti, e di gran parte dell’Occidente, restava e resta tuttora sbagliata. E così sono inaudite le mosse di Israele, nonostante il fanatismo inaccettabile e pericoloso di Hamas o Hezbollah. Non a caso la Corte Penale dell’Aia ha chiesto un mandato d’arresto per Netanyahu. Gesto totalmente inutile – e mi sono vergognato quando, qualche giorno fa, mi sono trovato il leader israeliano a parlare tranquillamente all’Assemblea generale dell’ONU.

Membri di Hamas a Gaza, 1993

Durante il discorso Netanyahu ha minacciato l’Iran, parlato degli obiettivi in Libano e sbraitato contro una “palude antisemita” da cui Israele deve difendersi. E qui entra in gioco l’altro grande protagonista dell’ultimo anno: dopo il 7 ottobre scorso, qualunque critica allo Stato israeliano è infatti stata accostata all’antisemitismo. Sia chiaro, non parliamo degli attacchi e degli slogan dei provocatori che si scagliano contro Liliana Segre o delle spaventose scritte criminali e antisemite apparse in alcuni quartieri ebraici italiani. Qui si tratta di subumani che hanno approfittato del disappunto diffuso per le azioni di Israele per tirare fuori la loro anima nazifascista. Nell’ultimo anno, le critiche più lucide a Israele non sono mai state accompagnate da un supporto ad Hamas o ad alleati esterni della Palestina. È stato solo chiesto a Israele di smetterla di massacrare i palestinesi, di garantire loro una vita degna di essere vissuta, di lasciarli nelle loro case e far avere loro acqua, elettricità e i beni primari. Non c’è traccia di antisemitismo in questo, e non c’era nemmeno quando si manifestava a favore del popolo palestinese prima del 7 ottobre, quando i giornalisti documentavano le condizioni di Gaza già diversi anni fa, quando Netanyahu veniva criticato anche ai tempi di Trump presidente degli Stati Uniti, con la firma degli Accordi di Abramo. Invece si vuol far passare i sostenitori del popolo palestinese – che poi in molti casi spingono per la soluzione “due popoli e due Stati”, mica per la cancellazione di Israele – per dei protonazisti solo perché qualche cialtrone isolato con il simbolo delle SS tatuato sul braccio scrive una boiata sui social contro gli ebrei. Che poi: come la mettiamo con il paradosso delle comunità ebraiche di tutto il mondo che hanno manifestato contro i massacri a Gaza? O siamo di fronte alla creazione frankensteniana dell’ebreo antisemita o forse si tratta semplicemente di umanità.

Benjamin Netanyahu

Inoltre, il senso di ridurre la questione Israele-Palestina a una fascia temporale così breve annulla di fatto settant’anni di risoluzioni dell’ONU contro Israele. Tutte disattese. Ce ne sono di tutti i tipi, da quelle in cui si chiedeva di riaccogliere i profughi palestinesi a quella di lasciare i territori occupati impropriamente; dalla richiesta di ritiro dal Libano (e stiamo parlando del 1978, non del presente, quindi tutto si ripete) a quella di evitare la repressione e l’insediamento di coloni. Se il sangue scorre in quelle terre da tempo ormai immemore, il 7 ottobre del 2023 non è altro che uno dei momenti cruenti di un doloroso processo geopolitico ben più lungo; tappa vergognosa, censurabile e tutti gli aggettivi che vogliamo attribuire alle azioni delle milizie di Hamas, ma che si inserisce in un contesto cronicizzato di azioni, risposte prepotenze e rappresaglie da considerare nel suo complesso.

Soldati dell’IDF a Gerusalemme, 1989

Oggi, a un anno di distanza da quelle stragi, possiamo solo constatare l’immobilismo dell’Occidente, una complicità silenziosa, e l’allargamento del conflitto. Perché se entra a muso duro l’Iran, l’Occidente inevitabilmente si schiera con Israele. Sembra che la geopolitica si sia ridotta al motto “Il nemico del mio nemico è il mio amico”. Come in Ucraina, in Siria o in tanti altri Paesi che hanno quasi patito mediaticamente l’exploit del 7 ottobre, perché gli occhi del mondo si sono spostati altrove, in un luogo dove già il conflitto era incandescente nonostante molti facciano finta che sia una guerra inedita e che oggi sia il primo anniversario di una delle diatribe in realtà più antiche della modernità. Io fino all’ultimo ho sperato di leggere altro sui quotidiani. Invece, oggi, 7 ottobre, sulla home di Repubblica trovo uno accanto all’altro due titoli. “Il conflitto il giorno dell’anniversario. Israele triste e in ansia ricorda il 7 ottobre” è il primo. Qui la parola Israele viene scritta senza remore, martirizzandola e parlando ancora dell’anniversario del conflitto come se fosse l’origine di tutto. Il secondo: “L’Idf torna ad attaccare. Raid a Gaza: decine i morti tra i civili”. Qui non appare più la parola Israele, i civili palestinesi sono stati ammazzati da un acronimo sconosciuto ai più. Per giunta nel giorno di un anniversario che non esiste.

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