Il marketing è dappertutto: quando chiediamo un favore a qualcuno, facciamo marketing; quando chiediamo un aumento al nostro datore di lavoro o cerchiamo di instaurare un rapporto con qualcuno che riteniamo interessante, facciamo sempre marketing; ogni qualvolta vogliamo convincere qualcuno a compiere una determinata azione – che sia acquistare un prodotto, votare per un partito, aderire a una campagna di solidarietà – o anche semplicemente spingerlo a esprimere un parere positivo, stiamo facendo marketing. Questo è il presupposto di Seth Godin, guru del marketing contemporaneo che in quasi ogni suo saggio o intervista afferma che “Il marketing è l’atto di far accadere il cambiamento”, confezionando una visione molto romantica dell’arte del vendere.
Un tempo, i greci della polis concepivano la retorica come l’arte del persuadere. I sofisti ci hanno basato la loro professione, mentre altri si sono preoccupati di smascherare quelle stesse acrobazie fatte di parole e opinioni fallaci per tracciare una distinzione netta tra ciò che è vera sapienza e ciò che invece non lo è affatto. Oggi, i marketers, seguendo gli insegnamenti di Godin, promuovono una retorica fondata sulla realizzazione di un cambiamento che assume sistematicamente un’accezione positiva. La maggior parte dei libri di marketing si presenta con titoli curiosi e sottotitoli che puntano dritto ai desideri dei rispettivi lettori ideali, basti pensare a best seller come La mucca viola. Farsi notare (e fare fortuna) in un mondo tutto marrone, Le 22 immutabili leggi del marketing. Se le ignorate, è a vostro rischio e pericolo!, oppure Fattore 1%: piccole abitudini per grandi risultati. Una caratteristica comune di questi testi è quella di proporre argomentazioni immediate che si prestano alla condivisione e non richiedono particolari sforzi al lettore. Ciò che però li differenzia da altre tipologie di testi simili è l’invito – non sempre esplicito – rivolto ai lettori non a immaginare il futuro, ma a farlo. Credere che un libro sul marketing oggi tratti soltanto di marketing è ingenuo. Ormai l’etichetta di questo settore evoca il management, la leadership, il coaching, i diversi modelli di sviluppo del business, la crescita personale e professionale, tutti elementi che compongono il bagaglio di argomentazioni su cui solitamente si basano le formule del successo degli esperti di marketing.
Secondo Godin, anche nel marketing le persone hanno bisogno della verità, dell’empatia, del rispetto, di ideali in cui riconoscersi. Ecco l’aspetto che gli ha fatto guadagnare tanta notorietà e stima: l’aver per la prima volta posto l’accento sull’etica del marketing, che mette al centro del cambiamento le persone e il loro bisogno di esperienze cariche di significato, escludendo così la mera logica del profitto, propria di certe multinazionali e del management vecchio stampo. Questa visione prevede un modello di marketing e management che privilegia la sostenibilità sotto il profilo umano, ambientale e sociale. Una scarpa, dunque, non è mai soltanto una scarpa, ma di più: essa deve in qualche modo possedere l’attributo della significatività, deve offrire al proprio target di riferimento un qualche valore o senso che vada oltre la banale materialità. Un brand deve evocare un insieme di valori, un cambiamento tangibile, il senso di appartenenza a una classe specifica di individui.
E questo accade perché le persone preferiscono maturare esperienze significative, vogliono sentirsi al centro del cambiamento e identificarsi attraverso valori condivisibili. Lo scopo delle multinazionali diventa dunque quello di intercettare queste necessità: esse infatti investono nel marketing per promuovere la propria immagine e trasmettere una cultura aziendale che, da un lato, definisce una scala di valori, mentre, dall’altro, dichiara una mission nobile da perseguire. Ma il marketing non dice per forza la verità. Lo scenario attuale ci mostra che molte aziende si fanno promotrici dello sviluppo sostenibile, della lotta contro il riscaldamento globale, di una maggiore inclusività e della parità di genere nei contesti lavorativi; eppure, nel concreto, si fa ancora troppo poco per evitare i disastri ambientali, le discriminazioni e le ingiustizie nei contesti lavorativi persistono, orari e carichi di lavoro insostenibili che portano al burnout sono problematiche ancora urgenti. Quella del cambiamento rischia di essere in molti casi solo la retorica adottata da aziende o manager per nascondere la logica del profitto e gli aspetti malsani del fare business. Nel libero mercato vige la legge della competitività e il guadagno gioca ancora un ruolo fondamentale nel determinare le decisioni aziendali. Oggi come ieri, un’azienda che non genera abbastanza utili è destinata a scomparire.
Di questa retorica si nutrono anche coloro i quali popolano i social e dispensano verità sul “come ottenere il successo in 3 semplici step” o sul “come sviluppare un mindset vincente per scalare il business”. I profili più attivi sono quelli di chi si dà al personal branding, alla performance perenne, al condividere continuamente opinioni, contenuti, consigli sui temi più disparati che riguardano il proprio ambito di specializzazione. Linkedin, per esempio, pullula di imprenditori di successo, startupper, che in poco tempo – per utilizzare un’espressione tra loro molto diffusa – hanno scalato il business con metodi “scientificamente provati”. La cultura del marketing di oggi, anziché farsi largo attraverso la ricerca accademica o la produzione di articoli in riviste dotate di un comitato scientifico degno di potersi definire tale, si riproduce principalmente mediante articoli SEO di blog, post condivisi sui social e video brevi. Le massime di autori famosi divengono decontestualizzate e trasformate in materiale con cui vengono costruiti caroselli, post, articoli, commenti o newsletter.
Quella che dovrebbe essere una scienza descrittiva, che si occupa in prima battuta di definire le strategie e gli strumenti più efficaci per introdurre un prodotto o servizio all’interno di un mercato, o rafforzarne la posizione, è diventata l’argomento più abusato del web. Le formule si ripetono e ogni presunto esperto di marketing non perde occasione per sottolineare il suo differenziarsi da tutto il resto. È una baraonda di contenuti in cui ciascuno racconta la propria favola e cerca di accaparrarsi quanti più follower possibili. Fare marketing non deve soltanto tradursi nella ricerca di formule vincenti, ma può anche essere un’attività in cui vengono valorizzate l’originalità e la capacità di sperimentare nuovi modelli espressivi. C’è un lato buono del marketing che viene messo in pericolo dalla costante minaccia del dilettantismo di chi crede che leggendo un paio di bestseller sul come fare soldi possa fare la differenza nel mercato. Ciò che colpisce di questo fenomeno è il seguito di cui godono questi pseudoesperti. Difficile fornire una stima attendibile, ma basta fare un giro sul web per notare il numero esagerato di follower e di interazioni giornaliere che riescono a produrre per ogni singolo contenuto condiviso.
Questo fenomeno largamente diffuso e pervasivo fa da cornice al sistema capitalistico e per certi versi sembra ricostruirne l’apparato ideologico incentrato sulla performance e sul feticismo del successo economico e sociale. Sempre più giovani aspirano a diventare imprenditori di se stessi, self-made men, manager affermati. E poco importa se hanno maturato le esperienze e le competenze necessarie per potersi definire tali, ormai conta soltanto come si viene percepiti dal proprio pubblico. Come sostenevano Al Ries e Jack Trout, due professionisti del marketing che hanno firmato diversi bestseller: “Il marketing è una guerra di percezioni”. Quando però queste percezioni riguardano l’individuo, la sua professione, il background e le competenze che lo caratterizzano, le distorsioni possono causare anomalie. Chiunque può costruire e promuovere una certa immagine di sé, anche quando quest’ultima non rispecchia la realtà. Ed ognuno è libero di esprimere i propri punti di vista, perorare le cause che ritiene più giuste e presentarsi come meglio crede, purché lo faccia nel rispetto delle libertà altrui. Qui si vuole soltanto evidenziare il pericolo di un processo esasperato che sta via via spingendo sempre più giovani a intraprendere la strada della performance, della mentalità vincente, del vincere a tutti i costi, della rincorsa ai soldi facili.
Il culto del successo, proprio del capitalismo neoliberale, è un fenomeno americano e il marketing da salotto, con i suoi inglesismi e le sue formule a effetto simili a quelle dei film Blockbuster, fa da apripista per diffondere e radicare l’ideologia della performance sul resto del mondo. Il proliferare di tutte queste formule del successo, di tutti questi metodi per guadagnare soldi facilmente, di tutti questi “mental coach” che dispensano monologhi motivazionali sulla vita, sul lavoro, sui rapporti umani, sullo spirito imprenditoriale, su come scalare il business velocemente o su come sviluppare un mindset vincente, testimonia in che misura questo indottrinamento culturale abbia inquinato il nostro modo di interpretare il concetto di realizzazione personale e di successo.
Troppe persone hanno interiorizzato questa ideologia e danno per scontato che chiunque debba nutrire una lunga lista di aspirazioni e aspettative sul proprio percorso professionale. Ciò si traduce nella sempre più diffusa convinzione che ciò che si fa, se non viene considerato più stimolante e interessante del resto agli occhi della società, possa risultare addirittura noioso e indesiderabile. Ma non sempre ciò che si desidera è ciò di cui si ha realmente bisogno: ciò che vogliamo infatti è spesso una diretta conseguenza degli imperativi che la sfera sociale ci impone (aspira al massimo grado di libertà, pretendi sempre il massimo da ogni esperienza, rendi qualsiasi aspetto della vita interessante, e così via), mentre per capire ciò di cui abbiamo realmente bisogno per stare bene serve una riflessione quotidiana che ci faccia maturare quelle consapevolezze da cui derivano poi scelte in linea con le proprie autentiche necessità.
In questi termini, l’ossessione per la positività e per la felicità personale da ottenere a qualsiasi costo assume un ruolo centrale: essa fissa una meta ideale e finisce per oscurare l’importanza del percorso, alle volte lungo e faticoso, che in linea di principio la meta stessa implica. Idealizzare questo tipo di mete spesso comporta il non considerare tutto il resto che si limita ad accadere a lato. Fino a quando fonderemo il nostro percorso e la nostra realizzazione professionale su propositi controproducenti, che poco hanno a che fare con le nostre necessità più autentiche e che molto spesso ci vengono inculcati da un sistema incentrato sulla performance, sul culto del successo e sulla diffusione di stereotipi che spesso alimentano desideri vaghi e privi di concretezza, però, non sapremo mai veramente come prenderci cura di noi stessi e di conseguenza vivere bene.