Da decenni la guerra ha smesso di essere un “conflitto aperto e dichiarato tra due o più Stati, nella sua forma estrema e cruenta”, come lo definisce l’enciclopedia Treccani. Di aperto e di dichiarato nelle guerre di oggi è rimasto poco o forse nulla. Soprattutto da quando si sono trasformate in proxy war (guerre per procura) con il rafforzarsi delle cosiddette covert actions, operazioni di spionaggio e intelligence tipiche della guerra fredda. Quando lo scorso 3 gennaio Donald Trump ha ordinato l’uccisione con un drone del generale iraniano Qasem Soleimani sapeva molto bene che l’attacco non sarebbe mai degenerato in una escalation militare. Era consapevole di non poter andare oltre vaghe minacce e gli atti di bullismo internazionale che sono diventati il suo marchio di fabbrica su Twitter. Stati Uniti e Iran non hanno mai avuto l’intenzione seria di imbarcarsi in uno scontro armato perché la guerra tradizionale è ormai la soluzione più costosa e impopolare che un politico possa imporre ai suoi cittadini.
“Le guerre tra Stati sono diventate uno strumento ‘obsoleto’ di politica estera, mentre l’intervento di terze parti in conflitti per lo più locali tende ad aumentare”. A scriverlo è stata l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta in una dettagliata ricerca del suo dicastero sull’evoluzione del concetto di war by proxy. A diffondere la riflessione sulle guerre per procura è stato soprattutto Andrew Mumford,docente di relazioni internazionali all’Università britannica di Nottingham. Nei suoi libri parla di “warfare on the cheap” (guerra a buon mercato), basata su due caratteristiche che ne fanno un’opzione strategica sempre più allettante: si basa su azioni segrete e la responsabilità non è attribuibile a un singolo Stato, ma a più di uno. La diplomazia e gli Attori Non Statali rendono il quadro molto più complesso di un tempo: l’Heidelberg Institute for International Conflict Research ha introdotto il concetto di trans-state war, trovando un ottimo esempio nel conflitto tra curdi e Turchia.
“Nuove e vecchie tattiche si combinano tra loro e la guerra diventa sempre più asimmetrica e ‘ibrida’”, ha scritto ancora Trenta. La dinamica è più o meno questa: c’è uno Stato A che non vuole affrontare il rischio e il costo di un conflitto diretto con lo Stato B, mentre c’è uno Stato o soggetto non statale C in conflitto con B e che ha bisogno di una qualche forma di supporto. Questa triangolazione permette alle grandi potenze di allontanare l’opzione boots on the ground, i soldati sul campo, e l’impatto negativo sull’opinione pubblica.
Nelle moderne proxy war multilaterali, dalla Siria allo Yemen alla Somalia, gruppi di nazioni – Stati Uniti in prima fila – intervengono per procura, mentre le donne, gli uomini e i bambini di quei Paesi diventano scuse umani derubricati a vittime collaterali sui rapporti ufficiali. Nello Yemen i ribelli Houthi sostenuti dall’Iran combattono da più di sei anni contro il governo filo saudita e le vittime tra i civili sono arrivate a oltre 100mila. Non si tratta di danni collaterali, ma di scelte ponderate e strategiche che ci riguardano tutti.
Dagli anni Novanta la politica statunitense segue in politica estera la dottrina Powell : un chiaro disincentivo per Washington a occuparsi di guerre altrui. Contraria a ogni forma di coinvolgimento in conflitti limitati (le cosiddette small war), la teoria Powell in 8 punti chiede di impegnare le Forze armate del Paese solo in casi in cui “la sicurezza nazionale è messa a repentaglio”. Ed è per questo che Trump giustifica molte delle sue imprevedibili decisioni in campo internazionale tirando in ballo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Senza il clima di paranoia da minaccia costante, ogni sua minaccia non sarebbe credibile. Il vero disimpegno dagli scenari di guerra mediorientali si era già concretizzato dal 2009 con la presidenza di Barack Obama e il progressivo ritiro delle truppe statunitensi da Iraq e, in buona parte, dall’Afghanistan.
La “dottrina” Obama rafforza quella Powell: il discorso de Il Cairo del 2009 fa storia e oltre dieci anni dopo quel disimpegno non è più cambiato. “In nessun Paese la ‘modernizzazione del conflitto’ si è spinta così avanti come negli Stati Uniti. Questi, se potessero, cercherebbero di risolvere ogni situazione di tensione utilizzando unicamente il fuoco gestito a distanza, evitando a ogni costo l’eventuale ricorso ai boots on the ground, cioè all’intervento di terra”, ha scritto il generale Giuseppe Cucchi per Limes online.
Ma allora chi le combatte davvero le guerre e chi sono le vittime? Nel mondo sono sempre più diffusi conflitti, guerre a bassa intensità, civili ed etniche, dove a morire, in Siria come in Yemen, in Congo come in Libia, sono i civili e non i combattenti di professione. Soprattutto la guerra si svolge, in Medio oriente così come in Africa, in territori circoscritti e ben delimitati, in modo da non intaccare i reali interessi ed equilibri delle potenze mondiali.
La mappa aggiornata dei conflitti in corso compilata dal The Armed Conflict Location & Event Data Project (Acled) mostra in modo chiaro le aree “calde” del Pianeta. Nel solo continente africano, tra 2017 e 2018 le morti provocate dai combattimenti sono state oltre 71mila. Somalia, Nigeria, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana sono in cima alla classifica dei conflitti (alcuni definiti a bassa intensità). Libia e il Mali sono sempre altamente instabili e teatro di conflitti interni fortissimi. Mentre il nostro immaginario è ancora fermo alle scene hollywoodiane di duelli tra caccia e scontri tra colonne di carri armati, tra il primo gennaio e il 18 maggio 2019 sono morti oltre 8mila civili a causa di scontri armati.
Dobbiamo cambiare la nostra prospettiva con altri film e altre storie. Al Jazeera, per esempio presenta ogni giorno delle inside stories dalla Siria o dalla Libia. In questo senso, il documentario candidato agli Oscar sul conflitto siriano For Sama di Waad al-Kateab è prezioso per capire da vicino cosa abbia significato per i suoi abitanti la guerra di Siria. E come vivono i civili sotto le bombe di Assad e dei suoi alleati russi. Il nuovo cinema bellico, fatto di storie quotidiane e dei civili che affrontano gli embarghi, le varie milizie in campo e le ripetute violazioni dei diritti umani e della Convenzione di Ginevra, può contribuire a cambiare la nostra illusione di vivere in un mondo in pace.
Noi abitanti di Paesi benestanti sempre più lontani dalla concretezza dei conflitti restiamo a guardare anestetizzati mentre alcuni leader mondiali minacciano nuove guerre. È come se avessimo bisogno di sentire l’adrenalina, alimentando una narrazione condivisa (e cavalcata dall’informazione mainstream) di un pericolo imminente che cambierà le nostre vite. Questo è ormai lo schema collaudato, tanto per il recente caso iraniano, quanto per l’escalation nucleare della Corea del Nord di tre anni fa, quando le portaerei statunitensi hanno fatto rotta verso la penisola coreana per ridimensionare la minaccia del dittatore Kim Jong-un nei confronti di Giappone e Seoul.
“La Carta delle Nazioni Unite sancisce il diritto all’autodifesa degli stati membri e, visto che gli Usa hanno dichiarato guerra al nostro Paese, noi abbiamo il diritto di rispondere e di abbattere i caccia americani anche se non sono ancora all’interno dei nostri confini”, disse in quei giorni il ministro degli Esteri nordcoreano Ri Yong Ho nel 2017. Parole molto simili sono state usate dal suo omologo iraniano nei giorni successivi all’assassinio di Souleimani. Resta da capire perché Trump abbia scelto di sconvolgere i fragili equilibri del Medio Oriente ordinando la morte del capo delle forze Al Quds.
Come hanno fatto notare subito in molti, nonostante il clima di generale tensione creato ad arte, la risposta più semplice si trova nella popolarità ai minimi storici di Donald Trump. Un presidente in crisi può decidere di tenere il mondo con il fiato sospeso per allontanare da sé l’attenzione dell’opinione pubblica e ricompattarla dietro a una causa. La strategia è la stessa giù usata in passato da Bill Clinton quando diede il via alla campagna in Kosovo anche per allontanare le ombre sul suo impeachment.
L’escalation pilotata con l’Iran è stato un tentativo di Trump di salvare se stesso, ora che siamo entrati nell’anno delle elezioni presidenziali e la procedura di impeachment è arrivata davanti al Senato degli Stati Uniti. In questi giorni ha ancora avuto bisogno di giustificare la sua scelta ricorrendo al concetto di “minaccia imminente” della dottrina Powell, non potendo ammettere che ormai l’uso diretto della forza è un’opzione che nessuno nella sua sua amministrazione ha l’interesse politico di assumersi.
Oggi i politici non devono neanche più assumersi la responsabilità delle vittime e del prezzo economico di una guerra, visto che nessuno le ha mai dichiarate, ma al massimo minacciate sui social. Il vero senso del nuovo volto della guerra lo riassume bene Gino Strada quando dice che “Il terrorismo è la nuova forma della guerra, è il modo di fare la guerra degli ultimi sessant’anni: contro le popolazioni, prima ancora che tra eserciti o combattenti. La guerra che si può fare con migliaia di tonnellate di bombe o con l’embargo, con lo strangolamento economico o con i kamikaze sugli aerei o sugli autobus. La guerra che genera guerra, un terrorismo contro l’altro, tanto a pagare saranno poi civili inermi”.