Nei giorni trascorsi incollati alla televisione a monitorare il decorso della pandemia, leader e opinionisti ci stanno tempestando di parallelismi con la guerra. Donald Trump, che negli Stati Uniti fornisce gli aggiornamenti in prima persona, ha dichiarato la “guerra al COVID-19”, “una guerra da chiudere presto”. Per alimentare il paragone bellico ha anche invocato il Defense Production Act (Dpa), la legge federale introdotta nel 1950 durante la guerra di Corea e che autorizza il governo statunitense alla mobilitazione dell’industria per la produzione e il rifornimento di beni essenziali, indispensabili per la collettività in momenti eccezionali quali i conflitti armati. Trump non è un caso isolato a livello internazionale: in Europa il suo omologo francese Emmanuel Macron ha dichiarato che la “Francia è in guerra”, per giustificare di fronte all’opinione pubblica le restrizioni sulle libertà personali, mentre il primo ministro britannico Boris Johnson si è detto pronto a “un governo di guerra” per riparare ai danni fatti dal suo stesso governo nelle prime settimane di gestione della pandemia.
Queste similitudini ricorrono continuamente anche in Italia. Per spronare l’Europa ad agire per sostenere i Paesi membri più colpiti, l’ex presidente della Banca Centrale Europea (Bce) Mario Draghi ha chiesto un cambio di mentalità “come in tempi di guerra”. Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte gli ha fatto subito eco prevedendo una “Fase 3 di ricostruzione”. “Piano di ricostruzione” che il leader della Lega Matteo Salvini vorrebbe operativo già nell’imminente Fase 2. Tutto mentre “economia di guerra” è definito l’approvvigionamento di mascherine e gel disinfettanti, respiratori e altro materiale sanitario indispensabile, oltre ad alimentare e beni di prima necessità.
Comprensibilmente medici e infermieri in prima linea a salvare vite umane hanno tutte le ragioni a dirsi in trincea. E giustamente, anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del 25 aprile ha rievocato gli anni della Resistenza quali “riserva etica” a cui attingere, per richiamare all’unità gli italiani e per infondere loro forza nel dramma delle migliaia di morti e di fronte allo spettro, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale (Fmi), della peggiore crisi economica globale dal 1930. Detto questo, arrivare a dichiarare gli Stati “in guerra con il COVID-19” è strumentale e fuorviante. I siriani e anche le generazioni più vecchie di italiani, oggi tra le più vulnerabili al Coronavirus, sanno bene che una pandemia è diversa da una guerra.
Per esempio, quando questo aprile in Toscana i carabinieri hanno consegnato la pensione a un 82enne di Sesto Fiorentino rimasto chiuso in casa da solo da febbraio a causa del Coronavirus, alla domanda se oggi fosse come ai tempi di guerra l’uomo ha ricordato che nella Seconda guerra mondiale si moriva “per strada, e non negli ospedali”. Quanto ai siriani, nella roccaforte islamista di Idlib si è continuato a combattere e altri ospedali sono stati bombardati e distrutti dai caccia russi e del regime. Migliaia di civili che non sono riusciti ad attraversare le frontiere sono ammassati nei campi per sfollati, da dove alcune famiglie preferiscono allontanarsi per tornare tra le macerie delle loro vecchie case in cerca di maggiore protezione dalla pandemia. Molti medici siriani hanno lasciato il Paese nel corso dei nove anni di guerra civile, lasciando la Siria sotto organico per gestire l’emergenza da COVID-19. Inoltre, l’Unicef denuncia che in alcune regioni del Paese non c’è neanche una fornitura di acqua regolare per lavarsi le mani. La larghissima parte della popolazione è completamente sprovvista di mascherine e disinfettanti e, come in tutte le guerre, le scorte alimentari scarseggiano. Milioni di siriani non fanno più la spesa nei supermercati da anni, non possono curarsi negli ospedali né “stare al sicuro in casa”, come chiedono di fare a noi: per loro la pandemia si somma alla catastrofe della guerra, quella vera.
Ma anche volendo agire come in un conflitto contro un nemico invisibile come un virus che in tre mesi ha ucciso oltre 200mila persone, allora bisognerebbe prendere misure coerenti con i toni scelti, riconvertendo innanzitutto le industrie della Difesa alla produzione di respiratori e altre attrezzature sanitarie. Esplosa la pandemia, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha esortato a “fermare le armi, l’artiglieria, i raid aerei, per concentrarsi, tutti, sulla vera battaglia delle nostre vite”. Un appello “all’immediato cessate il fuoco globale”, ignorato però su più fronti, tanto che in Libia è addirittura in corso una escalation nello scontro tra il governo legittimo di Tripoli e le truppe del generale Haftar. Il lockdown globale certo non ha arrestato le industrie e il commercio di armamenti. Non a caso negli Stati Uniti Trump ha temporeggiato per settimane prima di far scattare il Defence Production Act, salvo limitarsi a poche linee di produzione della General Motors riconvertite per fabbricare respiratori: pochi, rispetto a quelli annunciati, e consegnati lentamente. Anche altri cinque grandi gruppi statunitensi sono stati coinvolti dalla misura del Presidente, anche se molti avevano già iniziato la riconversione prima dell’ordine della Casa Bianca.
I grandi stabilimenti statunitensi di armi nel frattempo non hanno conosciuto serrate, ma sono addirittura spinti a produrre ancora più armi dal picco di richieste in primavera: con la recessione che nell’America profonda dilaga di pari passo con l’aumento dei contagi, si corre a fare incetta di fucili e pistole, con quasi due milioni di pezzi venduti nell’ultimo mese. Un assalto che non si vedeva dalla stretta tentata dall’ex presidente Barack Obama nel 2013 al libero commercio delle armerie, e che a marzo ha fatto impennare gli ordini anche nello stabilimento in Virginia del gruppo Beretta. Anche grazie a questi incassi la lobby americana della National Rifle Association (Nra) si è battuta per tenere aperte le rivendite di armi, dichiarate da Trump “servizio essenziale” per il Paese al pari delle farmacie e delle drogherie.
Anche in Italia questa classificazione è stata adottata dal governo per il comparto dell’industria della Difesa, definito di “apicale importanza strategica”. Non però per produrre ventilatori per gli ospedali da campo della Lombardia, ma per mandare avanti le commesse dell’export bellico. Così Leonardo, nonostante il lockdown imposto alle imprese nello stabilimento di Cameri, a Novara, ha continuato ad assemblare i pezzi dei cacciabombardieri del programma F35 a guida statunitense, destinati come altri armamenti anche al mercato estero e non solo all’aeronautica italiana. Il colosso europeo dell’aerospazio, controllato dal ministero dell’Economia e delle Finanze, avrebbe potuto dedicarsi temporaneamente alla filiera dei respiratori e di altro materiale sanitario, considerato che in Italia una sola azienda (dove sono arrivati i tecnici militari come rinforzo) produce i ventilatori polmonari che si fatica a reperire sul mercato internazionale. Invece, anche durante il picco dei contagi, Leonardo si è limitata al modesto contributo di un paio di aerei da trasporto e di tre elicotteri con relativi equipaggi, messi a disposizione della Protezione civile insieme ad alcune stampanti in 3D per creare valvole per i respiratori.
Tra i pochi esempi positivi va segnalata Beretta, che ha iniziato a stampare valvole in 3D per gli ospedali messi sotto grande pressione: una delle poche tra le oltre 230 fabbriche di armi e munizioni del Paese – la maggioranza in Lombardia – a dare un aiuto, senza però fermare le linee produttive destinate all’export bellico. Un settore che non conosce emergenza e neanche festività: hanno fatto scandalo le foto dei portuali di Genova impegnati anche in questa Pasqua, loro malgrado, nel carico e scarico della nave saudita Bahri Abha, con nella stiva decine di blindati Hercules di fabbricazione statunitense, diretti verso le guerre in Medio Oriente o in Yemen. Eppure l’industria della Difesa può agilmente tramutarsi in un servizio essenziale dell’economia di cosiddetta guerra contro il COVID-19: in Paesi più poveri come l’Indonesia tre compagnie di Stato del comparto sono state destinate alla produzione di “migliaia di ventilatori al mese”. Lo stesso passo si è compiuto in Turchia, dove il coronavirus si sta propagando in modo preoccupante: “Per ridurre la dipendenza dall’estero” la filiera dell’industria bellica di Ankara ha sviluppato un prototipo di respiratori, e nell’arco di un mese ne ha iniziato l’assemblaggio. Anche in Israele un gruppo del settore aerospaziale ha accantonato le commesse di missili per creare ventilatori polmonari.
Solo passando dalle parole ai fatti ha senso per gli Stati dichiararsi in guerra contro la pandemia. Ma la realtà è spesso diversa: anziché porre al servizio dell’emergenza sanitaria l’industria mondiale degli armamenti, come sempre nei periodi di grande crisi economica e incertezza sociale si lascia che questa aumenti i profitti. Per allontanare il pericolo di cadere in un’altra spirale come quella seguita al crollo di Wall Street del 1929 dobbiamo tornare a riflettere sul peso delle parole usate dai nostri governi e mass media. Di questo passo la retorica della guerra al COVID-19 genererà altre violenze, con il rischio che possano sfociare in altre guerre, vere e non a un virus.