Nello scontro fra Lilli Gruber e Maria Elena Boschi la solidarietà femminile non c’entra nulla - THE VISION
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Se sei una donna in questo mondo è tutto più complicato e la situazione non migliora – come magari qualcuno potrebbe credere – neanche se ricopri una posizione di potere, anzi. Se fai politica, ad esempio, devi costantemente rivendicare il tuo ruolo e batterti il doppio affinché la tua voce venga ascoltata, ma soprattutto devi confrontarti costantemente con uno scenario degradante in cui quasi automaticamente diventi un catalizzatore d’odio e sei costretta a fronteggiare tonnellate di insulti e critiche feroci prima di riuscire a dimostrare che hai delle opinioni fondate. Tuttavia, sfruttare istanze femministe pronte all’uso per difendersi da critiche, attacchi politici o domande scomode non è il massimo dell’onestà intellettuale; tirare in ballo la solidarietà femminile per giustificare le mancanze del proprio operato politico poi è grottesco.

Qualche sera fa a Otto e mezzo c’è stato un acceso scontro tra la conduttrice Lilli Gruber e Maria Elena Boschi. L’ex ministra renziana è stata incalzata da Gruber dopo che questa le ha mostrato alcune foto in cui compariva in un parco in compagnia del suo fidanzato e senza mascherina. Gli scatti in questione erano quelli di un servizio di Chi – intitolato “La gatta sexy con gli stivali” – che ritraeva proprio la deputata di Italia Viva in un pomeriggio di passeggio col suo compagno. Urge una piccola parentesi: va bene tutto, ma pensare che quegli scatti siano “rubati” sarebbe davvero ingenuo; dal tipo di foto, infatti, sembra molto strano che la coppia non fosse a conoscenza della presenza di un paparazzo, ma viene lo stesso da chiedersi: perché dalla diretta interessata non è stata detta una parola contro un titolo così sfacciatamente sessista e irrispettoso?

Tornando all’intervista di Otto e mezzo, Gruber chiede: “Vige l’obbligo di indossarla, perché non lo avete fatto?” e Boschi risponde subito a tono, mantenendo la calma e scusandosi: “Ce l’avevamo, l’abbiamo abbassata per fare un selfie un minuto […] La ringrazio per la possibilità di fare questa precisazione, però credo che con centinaia di morti ogni giorno mi piacerebbe parlare dei soldi del Recovery Fund piuttosto che di quelle foto”. In 2 minuti e 38 secondi lo scambio si conclude, eppure la cosa non passa inosservata e i social si scatenano. La stessa Boschi, poco dopo la diretta, pubblica un tweet chiosando: “Quando cercavo di parlare venivo sempre interrotta: per Lilli Gruber è più importante parlare delle mie foto che non dei 200 miliardi del Recovery Fund. Mi spiace per gli ascoltatori”.

Maria Elena Boschi

A prenderne le difese è stata fra i primi la ministra renziana Teresa Bellanova – “Lilli perché tanto livore?” – a cui sono seguiti in schiera molti fra i compagni di Italia Viva. La senatrice renziana Laura Garavini ha definito “triste” che fosse stata proprio una giornalista a inventarsi motivi per attaccare la vita privata di un’altra donna. “Non ci crederete, ma prima del suo passaggio al Parlamento Europeo, Gruber faceva la giornalista”, ha tuonato invece Guido Crosetto, a cui hanno fatto eco tantissimi altri commenti di questo tipo, che potremmo riassumere come di elogio per la calma e la pazienza di Boschi e di sorpresa e indignazione per la mancanza di tatto, sensibilità e per questo – come se fosse una conseguenza diretta – di deontologia professionale di Gruber.

Lilli Gruber forse ha esagerato un po’ e forse è anche vero che non nutra tutta questa simpatia per Maria Elena Boschi, indubbiamente i soldi del Recovery Fund sono più importanti delle foto del servizio di Chi e la risposta di Boschi, considerata la situazione, è stata ineccepibile. Ma è anche vero che la domanda di Gruber poteva essere considerata lecita – anche considerando i precedenti di altri illustri volti noti, come ad esempio Domenico Arcuri – forse se sei un personaggio pubblico e politico dovresti pensarci due volte prima di “farti paparazzare” senza mascherina, dal momento che dovresti essere il primo a rispettare le regole e a dare il buon esempio. Maria Elena Boschi è la portavoce di un movimento politico, non una privata cittadina e Gruber ha sottolineato, in maniera pretestuosa se vogliamo, il fatto che fosse senza mascherina, anche se è obbligatoria anche all’aperto.

Il punto, però, non è certo la presunta mancanza di tatto che secondo molti (non si sa bene in base a quale principio) una donna dovrebbe usare a prescindere nei confronti di un’altra donna, ma il modo stesso in cui oggi si fa giornalismo in televisione. Usare domande del genere in modo pretestuoso e pressante per mettere in difficoltà la persona intervistata – che sia Maria Elena Boschi o Matteo Salvini – è una scelta discutibile da un punto di vista prettamente giornalistico. Anzi, sarebbe finalmente l’ora che ci si concentrasse proprio sulla qualità del nostro giornalismo, troppo spesso voyeuristico e gossipparo a scapito dell’analisi dei fatti e della realtà. Eppure tanti colleghi di Gruber utilizzano spesso questa tecnica, senza essere criticati da nessuno e senza scatenare alcuna reazione nell’opinione pubblica. Questa condotta, quindi, può benissimo diventare oggetto di discussione, ma anche nella critica bisognerebbe cercare di essere oggettivi e pari, senza aggrapparsi a presunte questioni di genere e a istanze femministe che non c’entrano niente e vengono solo snaturate e manipolate per polarizzare ancora una volta le opinioni del pubblico.

Lilli Gruber

Boschi, infatti, sembra aver fatto montare la polemica utilizzando la stessa metodologia già sfoggiata altre volte, come ad esempio l’estate scorsa, quando si difese dopo aver pubblicato delle foto che la ritraevano in barca con persone assembrate in un momento ben poco opportuno – vista la crisi sanitaria ed economica tutt’altro che risolta che stava attraversando il Paese – asserendo di voler essere giudicata “per il suo operato e non per il colore del suo costume da bagno”. Ma forse dovremmo ricordare a Boschi che tutto è politico e in quanto personaggi pubblici bisognerebbe prestare attenzione a ciò che si sceglie di far trapelare della propria vita privata.

Ciò che appare fuori luogo, ancor più delle domande capziose di Gruber, è soprattutto il richiamo alla “solidarietà femminile” che si sta facendo in queste ore. Quando, al limite, il punto della questione e il motivo per il quale si potrebbe criticare la conduttrice di Otto e mezzo è al massimo il suo modo di impostare un’intervista o di condurre una trasmissione di approfondimento politico, e non la mancanza di accondiscendenza verso una politica solo perché donna. Non si possono mettere sullo stesso piano le allusioni, le battute sessiste e le bambole gonfiabili portate sui palchi alle domande scomode fatte in uno studio televisivo e accusare la Gruber di esserne stata manchevole, sessista, provocatoria e senza tatto, o addirittura sadica nell’aver voluto scavare nella “vita privata di una persona” per aver fatto delle domande del genere, che per altro per com’è strutturato il giornalismo di oggi vengono poste indistintamente. 

Sempre più spesso, da quando l’opinione pubblica è un po’ più attenta alle questioni di genere viene tirata in ballo “la solidarietà femminile” come se si trattasse di un comandamento imprescindibile, reale e giusto, per essere in realtà adottato nella maggior parte dei casi solo come pretesto per difendersi dalle critiche riferite a tutt’altri piani, soprattutto se parliamo di politica.

Non è la prima volta che una politica si difende dicendo che la ragione degli attacchi o anche solo delle domande un po’ più scomode che subisce sono legati al suo essere donna, anche quando evidentemente non è così. Inoltre, è curioso constatare – al contrario di ciò che si potrebbe credere – quanto questo atteggiamento sia stato  utilizzato più di una volta da parte di esponenti politici che nei fatti o per appartenenza politica hanno ben poco a cuore le questioni relative ai diritti delle donne – perché magari fanno parte di partiti che condannano l’aborto e cercano di impedirlo in ogni modo, o che magari hanno messo a rischio realtà che garantiscono sicurezza e accoglienza alle donne maltrattate o ancora ostacolano le leggi sull’omofobia: Bergonzoni, Raggi, Boschi, Azzolina

Lucia Borgonzoni
Virginia Raggi
Lucia Azzolina

La solidarietà femminile a cui si stanno appellando in molti commentando la vicenda, e a cui si è implicitamente appellata la stessa Boschi con il suo tweet, sembrerebbe essere sfruttata come una sorta di immunità che spetta di diritto però solo ad alcune donne e solo in determinati contesti, come un jolly che ci si può giocare nel momento in cui non si sa più cosa dire. Questo atteggiamento, però, è dannoso per tutte, perché sminuisce le vere battaglie legate a questi gravi problemi. Rivendicare di essere trattate alla pari significa anche ricevere un trattamento alla pari, avere le stesse responsabilità e rispondere le stesse domande. Appellarsi al proprio genere solo quando fa comodo, invece di rendere conto del proprio operato, non ha nulla a che vedere con un presunto sentimento di “sorellanza” e di supporto fra donne. Peraltro, Gruber in prima persona, se vogliamo è oggetto – e anche in questo caso lo è stata – di commenti sessisti: “è invecchiata”, “è rifatta male”, “è invidiosa della Boschi perché è giovane bella e in gamba”. La maggior parte delle reazioni suscitate dalla vicenda, da parte degli stessi che pretendono la solidarietà femminile, infatti, viaggia su questo tenore e nessuno si è operato per criticarli o disincentivarli. Evidentemente, quindi, i valori del femminismo ancora una volta non sembrano poi così assoluti.

Abbiamo un problema grosso e non ce ne rendiamo conto, e no, non è la solidarietà femminile, ma chi si appella a un retaggio sessista mascherandolo, finendo per confondere ancora di più le idee su temi purtroppo ancora molto dibattuti, urgenti e delicati, per cui molte persone si battono quotidianamente, invece che sfruttare certi valori solo quando fa loro comodo.

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