I detrattori di Greta Thunberg li riconosci dalla mentalità complottista di chi si chiede, con l’aria di chi ne sa una più del diavolo, chi o cosa ci possa essere “dietro” questa ragazzina così giovane che in breve tempo è arrivata a parlare all’Onu; oppure da quella ipercorrettista di tutti coloro che “Se usa un bicchiere di plastica non può dare lezioni a noi”. Ma c’è un’altra caratteristica che accomuna molti degli hater della giovane svedese. In Italia, ad esempio, tra i più noti a essersi espressi ci sono tre ultrasessantenni: Rita Pavone, che l’ha paragonata a un personaggio da film horror, è del 1945; Maria Giovanna Maglie, che la metterebbe “sotto con la macchina”, è del 1952; Giuliano Ferrara pure (“detesto la figura idolatrica di Greta, aborro le sue treccine e il mondo falso e bugiardo che le si intreccia intorno”). Questo significa che nel fatidico 1968 Ferrara e Maglie avevano la stessa età che oggi ha Greta, e Pavone era poco più grande. Tutti e tre sono personaggi sopravvissuti egregiamente agli anni Sessanta: hanno assistito, e a volte partecipato, a mobilitazioni ben più radicali di quella promossa dalla sedicenne svedese. Il loro fastidio per il nuovo personaggio è qualcosa di incontrollabile: a malapena riescono a verbalizzarlo, e sì che due su tre vivono di parole. In questo senso Pavone, Maglie e Ferrara rappresentano perfettamente la loro generazione.
La spiegazione più credibile per il fenomeno è anche la più banale: si nasce incendiari, si muore pompieri, trasformando così il dibattito pubblico in uno scontro generazionale tra pensionati e adolescenti rumorosi – per quanto stavolta non spacchino nemmeno le vetrine. È una tendenza piuttosto comune dell’animo umano, quella di rivedere le proprie posizioni in senso più conservatore con l’avanzare dell’età, rivalutando tutta la speranza e la caparbietà giovanile in un’ottica critica. Ecco quindi spiegato uno dei motivi per cui la generazione degli adulti di oggi sembra essere più portata a odiare Greta Thunberg rispetto ai suoi coetanei, o anche ai millennial.
Per quanto quest’ipotesi possa sembrare già soddisfacente, vorrei proporne una un po’ meno banale. Oltre alla generazione, Ferrara, Maglie, Pavone hanno un altro carattere in comune: se la sono goduta parecchio, da enfants gâtés dell’Occidente. Il 1968 è l’episodio più conosciuto, ma se allarghiamo un po’ lo sguardo il movimentismo è soltanto un momento nella storia di una generazione, a cui seguirono la tentazione della radicalizzazione, il riflusso e il ritorno al privato e l’edonismo degli anni Ottanta. Se volessimo assegnare a una generazione un’ideologia, diremmo che la priorità coloro che oggi hanno sessanta o settant’anni è stata la liberazione dell’individuo. Una liberazione che negli anni Sessanta prendeva le forme della protesta sociale (ma senza trovarsi più a suo agio nelle forme tradizionali dei partiti di massa e dei sindacati); negli anni Settanta corteggiava la lotta armata e negli anni Ottanta si esprimeva in un consumismo rivendicato senza freni inibitori. Una liberazione che forse oggi smette di avere senso, nel momento in cui ci porta alla nostra stessa distruzione. Ma il fatto stesso che una ragazza svedese ci debba ricordare che non c’è futuro per una società che non riesce a riciclare carta e plastica, fa incazzare chi aveva la sua età in un’altra epoca. Non perché siano anziani – ok, sono anche anziani – ma perché per buona parte della loro vita sono stati abituati a disobbedire alle regole, dubitare delle autorità, mettere in crisi le convenzioni. E naturalmente perché non vogliono rinunciare alle loro abitudini, sono restii a mettere in discussione uno stile di vita che ritengono di essersi guadagnati, fatto di comodità che spesso sono proprio quelle che la lotta ambientalista vuole mettere in discussione.
Quel che spaventa i sessantenni non è una ragazza bionda dallo sguardo serio, ma la svolta che annuncia: l’età dell’individuo è finita. È stato un momento importante, in certi casi eroico e in altri tragico, ma non sopravviverà alla crisi ambientale e allo stato d’emergenza che ne seguirà. Il consumo sfrenato è finito. Persino il capitalismo potrebbe avere i giorni contati. Non che ci sia molto da festeggiare – non è merito di nessuno, ovvero è colpa di tutti: siamo troppi, il pianeta si sta scaldando e le conseguenze dei nostri danni sono già sotto gli occhi di miliardi di persone. Greta è fastidiosa perché ce lo ricorda. Non è la prima paladina dei diritti dell’ambiente – che poi sono i diritti di tutti – e non sarà l’ultima in quanto non sarà lei a risolverli. Però Greta è particolarmente inquietante perché dà un volto al senso di colpa collettivo di una e più generazioni, nei confronti di quelle che verranno e assisteranno coi loro occhi alla catastrofe ambientale che gli esperti danno ormai per difficilmente evitabile.
Quando il presidente dell’Istituto superiore di Sanità ci informa del rischio che “i nostri nipoti non possano più stare all’aria aperta per gran parte dell’anno a causa dell’aumento delle temperature” non sta parlando dei protagonisti di un romanzo distopico: i “nipoti” sono Greta e i suoi coetanei. È normale che si preoccupino molto più dei padri e dei nonni. Il benessere che i genitori hanno dato per scontato è fatto di tanti privilegi a cui le nuove generazioni devono rassegnarsi a rinunciare.
Oltre a dare un ultimatum ai governi che non sono in grado di recepirli, o a diffondere buone pratiche ambientaliste che da sole non risolveranno mai il problema, le manifestazioni della prossima generazione servono anche ad abituare gli stessi manifestanti ad accettare l’idea. Certo, molti continueranno a rifiutarla, come dimostra il fatto che la lotta ambientalista non è nata ieri eppure in questi decenni i progressi sono stati pochi e lenti. Eppure la lotta di Greta è lungi dall’essere inutile. Non sarà la soluzione, ma il ruolo di un’adolescente svedese per la sua stessa generazione è fondamentale.
Qualsiasi previsione più o meno scientifica sull’aumento della temperatura degli oceani e dell’atmosfera nei prossimi anni non ha ancora tenuto conto del dato più imponderabile: a un certo punto cominceranno a scaldarsi anche gli esseri umani, forse in modo incontrollabile. I tafferugli dei giléts jaunes francesi non sono che una timida avvisaglia di quello succederà in Occidente quando la crisi ambientale busserà davvero alla porta e i governi cominceranno a varare politiche di repressione dei consumi. Il che difficilmente succederà grazie a qualche manifestazione giovanile al venerdì fin quando ben più della metà della popolazione occidentale rifiuta ancora l’evidenza, e vota per chi fa del rifiuto un manifesto politico. Ma prima o poi succederà. E così come il terrorismo islamico non era sentito come un problema fino all’undici settembre, per avere il riscaldamento globale al primo punto dell’ordine del giorno bisognerà aspettare un disastro più eclatante del solito che metta davvero in discussione la vita e la sicurezza dell’Occidente (perché in fondo uragani e alluvioni ci sono già: e l’inquinamento fa già centinaia di migliaia di morti).
Ma quando i primi disastri costringeranno i governi occidentali a varare misure di emergenza, i cittadini accetteranno la progressiva soppressione delle libertà individuali? Giuliano Ferrara sicuramente no, basti ricordare il casino che fece quando un ministro gli vietò di fumare nei locali pubblici. Pazienza per Ferrara e per Maglie, ma quanti sono come loro? Non siamo un po’ tutti come loro? Quanto siamo disposti a modificare la nostra dieta, le nostre abitudini, il nostro stile di vita, i nostri desideri? Il giorno che una coetanea di Greta ci dirà che non possiamo più mangiare carne o prendere un aeroplano, forse capiremo cosa intendeva confusamente Maglie quando confessava di volerle passare sopra con la sua macchina.