Nel 1992, la dodicenne Severn Cullis-Suzuki tenne un discorso durante il Summit della Terra organizzato dalle Nazioni Unite a Rio de Janeiro. In quel discorso Suzuki disse che era lì per parlare a nome delle generazioni future, dei bambini che vivono nella miseria, degli animali che muoiono poiché il loro habitat è stato distrutto, del buco dell’ozono. E ancora, Suzuki sottolineava già come non ci fosse più tempo per aspettare e che fosse necessario porre fine a tutte le pratiche che portano alla distruzione del pianeta e dei suoi abitanti. All’età di soli nove anni, Suzuki fondò l’Environmental Children’s Organization, un gruppo di bambini interessato a sensibilizzare i propri coetanei verso le problematiche ambientali.
Dal 1992 a oggi, però, nulla sembra essere cambiato dato che Greta Thunberg è diventata il simbolo di un movimento globale in cui i protagonisti sono ragazzi e bambini di tutto il mondo. Di Thunberg bisogna riconoscere la determinazione e il fatto che sia riuscita a trasmettere un messaggio di enorme importanza sulla questione del cambiamento climatico e di come sia necessario che gli Stati del mondo adottino misure per contrastarlo. Lo sciopero per il clima è diventato un modello di ispirazione per molti studenti che scendono in piazza, ma il grande pubblico ignora che le attiviste nel mondo – fortunatamente – sono tante. Ma dato che la nostra narrativa viene influenzata soprattutto dai mass media occidentali spesso non arriviamo nemmeno a conoscerle.
In relazione a questo, può tornare utile un aspetto che Greta Thunberg, nel suo discorso alle Nazioni Unite, ha giustamente sottolineato: “Avete rubato i miei sogni, la mia infanzia, con le vostre parole vuote, e io sono addirittura tra i più fortunati”. Thunberg quindi introduce, e riconosce, la questione del privilegio. E proprio la questione ambientale è uno degli aspetti in cui ciò risalta di più. I Paesi ricchi – e al loro interno le classi sociali più potenti – possono permettersi di vivere in aree più salubri e meno inquinate, così come un’alimentazione più sana e meno contaminata, e sono proprio loro ad aver consumato per più tempo e in modo più consistente le risorse del pianeta. Rispetto a questa dinamica chi ha subito di più le conseguenze del cambiamento climatico sono stati proprio i Paesi in via di sviluppo, motivo per cui molte persone provenienti da quelle aree geografiche si sono attivate già da molto tempo prima dell’attuale risveglio delle coscienze trainato dai media. Diciamo che mentre la loro è stata soprattutto una denuncia, quella occidentale è più che altro una severa autoanalisi, e quindi, in qualche modo, un appello a rinunciare ad alcuni dei privilegi a cui siamo stati abituati per salvare il nostro ecosistema, e quindi la nostra stessa vita sul pianeta.
A questo proposito, le donne delle comunità indigene, anche grazie al loro rapporto con la terra e la natura, si sono distinte per la lotta in prima linea contro lo sfruttamento delle risorse del pianeta, portando avanti le lotte per la conservazione dell’ambiente e in particolare contro la deforestazione. Clemencia Herrera Nemerayema, Elvia Dagua e Claudette Labonte, sono tre donne indigene, provenienti rispettivamente dalla Colombia, dall’Ecuador e dalla Guinea Francese che, in collaborazione con la Women’s Council of COICA, si battono per i diritti umani delle comunità indigene e per la protezione dei loro territori. Questo trio fa della protezione dell’ambiente anche una lotta femminista e di emancipazione, spronando le donne delle loro comunità a partecipare al movimento. Dagua, ad esempio, è una leader del movimento indigeno ecuadoriano e che con la sua lotta, ha portato molte donne a rompere diversi stereotipi, portandole a esporsi e a protestare in una realtà maschilista in cui prima le donne non potevano nemmeno parlare in pubblico. Labonte, oltre a lottare per l’emancipazione femminile, combatte contro le discriminazioni nei confronti degli indigeni. Ciò che le accomuna, come dice Nemerayema, è la protezione del territorio, fatta anche attraverso la creazione di scuole di formazione che puntano all’informazione e una maggior consapevolezza dell’importanza della salvaguardia dell’ambiente. È per questo che molte donne indigene hanno invaso le strade di Brasilia contro le politiche distruttive del presidente Jair Bolsonaro a favore delle lobby del settore agroalimentare e di quello estrattivo, che sono causa principale degli incendi e della deforestazione dell’Amazzonia.
Chi ha subito in prima persona la devastazione di politiche dannose si è attivato molto prima di noi. Eppure queste iniziative non sono mai riuscite a raggiungere la notorietà, perché a nessuno conveniva, dato che quando si tratta di problemi che riguardano principalmente i gruppi etnico-sociali più vulnerabili raramente si fa luce sulle problematiche che li affliggono. Tuttavia è necessario conoscere i contesti che variano non solo da Paese a Paese, ma da regione a regione, riconoscendo l’importanza della resistenza e dell’attivismo locale. Il motto “think globally, act locally” – pensa a livello globale, agisci a livello locale – è diventato molto importante in questo movimento. Ma prima ancora degli attuali scioperi per il clima, ci sono state due bambine che si sono rese protagoniste di una protesta contro un problema ambientale che ci colpisce tutti in prima persona ma per cui apparentemente quasi nessun maggiorenne muove un dito. Si tratta dell’undicenne afroamericana Amariyanna Copeny e della quindicenne nativo-americana canadese Autumn Peltier.
Copeny fa parte degli abitanti della città di Flint, nello stato del Michigan degli Stati Uniti. Flint è conosciuta come la città in cui nel 2014 scoppiò la crisi dell’acqua contaminata dal piombo e i cittadini continuano tuttora a subirne i danni. Questo caso è diventato un esempio di “razzismo ambientale” in quanto non solo le comunità maggiormente colpite sono quelle formate da afroamericani di classi basse e medio-basse, costretti a vivere in zone più segregate, ma non c’è mai stata una repentina presa di posizione per risolvere il problema. Copeny è in prima linea per protestare contro quest’ingiustizia, contribuendo alla distribuzione di acqua pulita per tutti i residenti di Flint e ribadendo come sia importante un’azione mirata – cosa che Alexandria Ocasio-Cortez sta tuttora cercando di fare parlandone senza tregua. Peltier è invece riconosciuta come attivista dell’acqua a livello internazionale: nominata come Commissaria dell’Acqua, si batte per la protezione dei grandi laghi. Lo scorso anno, ha avuto l’occasione di parlare alle Nazioni Unite, evidenziando come il mancato accesso all’acqua potabile delle comunità nativo-americane limitrofe alla sua sia un problema che necessita una soluzione.
Anche quando si parla di soluzioni, quindi di Green New Deal o di piani per l’emergenza climatica, manca sempre una prospettiva multilaterale. E’ necessario ricordare che benché sia importante parlare di nuovi piani per lo sviluppo sostenibile, bisogna rendersi conto che non può esistere un unico piano uguale per tutti, anche perché gli Stati del mondo si trovano su livelli diversi di sviluppo – e ognuno ha esigenze differenti. E’ fondamentale che l’azione volta a contrastare il cambiamento climatico non diventi “colonialismo climatico”, arrivando quindi ancora una volta a gravare sui Paesi in via di sviluppo – come in Uganda, Mozambico e Tanzania, in cui migliaia di persone sono state costrette a spostarsi dalla loro terra, per progetti ecosostenibili gestiti dal Nord del mondo. L’Oakland Institute, nel 2014, aveva già parlato in un’estesa ricerca di questa paradossale problematica, sottolineando come, in Uganda, la Green Resources, azienda norvegese, si sia resa artefice di molti disagi e ingiustizie che hanno stravolto la vita di persone che vivono nelle zone rurali.
Anche in Africa spiccano principalmente le donne nella lotta al cambiamento climatico. Nakabuye Hilda Flavia è studentessa universitaria e organizzatrice del Friday’s for Future in Uganda. Si è resa artefice della preparazione di scioperi e manifestazioni, coinvolgendo anche scuole primarie. Inoltre si occupa in prima persona della pulizia delle rive dei fiumi. In Nigeria, Olanike Olugboji è una co-fondatrice della Women’s Earth Alliance: è un’attivista ambientale che agisce principalmente nella mobilitazione delle donne nigeriane. A quest’ultimo proposito, Oluboji è fondatrice di Wise Nigeria (Women’s Initiative for Sustainable Environment), un’iniziativa che si occupa dei diritti delle donne uniti all’importanza di creare alternative eco-sostenibili.
È ovvio che per contrastare il cambiamento climatico sia necessario l’impegno di tutti gli Stati, tuttavia bisogna abbandonare quel Sistema Mondo di cui parlava Immanuel Wallerstein, in cui il centro – i Paesi Occidentali – godono grazie allo sfruttamento della periferia – I Paesi in via di sviluppo. Adottare soluzioni apparentemente green per un Paese europeo, potrebbe implicare determinate conseguenze per un altro. Come riporta il Guardian, è necessario smantellare il ruolo neo-coloniale delle nostre aziende e multinazionali energetiche sparse in giro per il mondo. Ciò implicherebbe un cambiamento nei negoziati tra Stati per fare in modo che da questi ultimi possa scaturire un rapporto in cui gli attori internazionali che li firmano si trovino sullo stesso piano. Una versione “verde” del capitalismo, di fatto, non annulla questi paradossi.
I gruppi etnico-sociali più svantaggiati subiscono maggiormente le conseguenze di politiche ambientali dannose. Il primo ministro canadese Justin Trudeau, ad esempio, è stato sotto ai riflettori per aver partecipato allo sciopero per il clima e per aver incontrato Greta Thunberg. Allo stesso tempo, però, ha autorizzato la costruzione di una conduttura lunga mille chilometri per il petrolio, nonostante l’opposizione dei nativi-americani, i quali temono per i loro territori. Ci troviamo di fronte a un’operazione di greenwashing, in quanto questa attenzione nei confronti di ambiente e clima da parte di presidenti o multinazionali, risulta essere superficiale e dettata solo dal potere mediatico del momento.
L’attuale movimento di Greta Thunberg è solo l’inizio di quella che deve diventare una decostruzione di un sistema complesso, fatto di paradossi, ingiustizie, e disuguaglianze sociali. Solo con una visione veramente intersezionale e globale di questa grande sfida del nostro tempo, ma soprattutto quando chi detiene il potere cambierà realmente prospettiva e capirà che questo sfruttamento indiscriminato è un suicidio, sarà possibile creare piani di sviluppo che siano davvero ecosostenibili per tutti, non solo per i Paesi occidentali.