Mentre in Italia non si parla d’altro che di coronavirus, il confine tra Grecia e Turchia è tornato al centro dell’emergenza migratoria, gettando le cancellerie europee nel panico di una riapertura della rotta balcanica. Nel corso di appena dieci giorni, le isole di Lesbo e Chios, di fronte alle coste turche, e il varco di frontiera nel nord della Grecia presso il fiume Evros, sono stati teatro di episodi di crisi civile e umanitaria, che hanno raggiunto un punto di non ritorno con la decisione della Turchia di lasciare liberi i richiedenti asilo di raggiungere il confine greco.
L’intervento unanime delle istituzioni comunitarie sembra aver riportato le relazioni con Ankara a uno stato di equilibrio precario. Sulla strada della mediazione, però, l’Europa ha sacrificato il principio del diritto di asilo sull’altare della “protezione dei confini”. Per comprendere gli intrecci di questa complessa vicenda, che vede come protagonisti cittadini comuni, gruppi di estrema destra, forze dell’ordine, Ong e giornalisti, serve fare un passo indietro.
Sin dallo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, le isole dell’Egeo nord orientale, distanti pochi chilometri dalle coste anatoliche della Turchia, si sono trovate in prima linea nell’accoglienza di richiedenti asilo e hanno rappresentato uno dei punti di snodo della rotta balcanica. Il picco di arrivi del 2015, l’accordo tra Unione europea e Turchia nel marzo 2016 e il conseguente blocco di trasferimenti dalle isole ad Atene, hanno trasformato di fatto le isole di Lesbo, Chios, Samos e Kos in hotspot permanenti. Dalle isole sono transitate solo nel 2015 circa 850mila persone, molte delle quali sono rimaste per mesi e talvolta anni ostaggio del limbo burocratico delle procedure di asilo. I campi di Moria e Vial, che attualmente ospitano oltre 40mila richiedenti asilo, sono diventati il simbolo di un’Europa divisa sul principio di solidarietà, riluttante ad attuare politiche di redistribuzione eque tra i 27 Paesi membri.
Un cambio di passo è avvenuto con la nomina del nuovo governo di centrodestra guidato da Kyriakos Mitsotakis, leader di Nea Dimokratia, che lo scorso luglio ha inflitto una pesante sconfitta al leader di Syriza Alexis Tsipras. Mitsotakis, che in campagna elettorale aveva promesso una gestione più “ordinata” della questione migratoria, ha in realtà confermato lo status quo che vede le isole ancora una volta sole nell’affrontare l’emergenza. La decisione a fine febbraio di procedere alla confisca di terreni privati a Lesbo e Chios per fare spazio a nuovi centri di detenzione per i migranti ha fatto da miccia a una rivolta popolare che ha raccolto il supporto bipartisan dei politici locali.
Scioperi e minacce di occupazione dei siti in costruzione hanno convinto il governo di Atene a reagire con la forza, dando luogo a una dimostrazione di violenza e repressione che le isole, lontane dalle dinamiche politiche della capitale, non hanno mai conosciuto nella loro storia recente. Decine di squadre speciali delle forze dell’ordine (i Mat), sono approdate nella notte tra il 25 e il 26 febbraio nei porti di Lesbo e Chios, facendo salire la tensione. Nei giorni a seguire, i Mat si sono scontrati con gli isolani, con un bilancio di 60 feriti e veicoli distrutti, oltre a una profonda frattura all’interno del partito di Mitsotakis, che ha visto su fronti contrapposti il governo di Atene e le autorità locali.
Negli stessi giorni, l’uccisione di 33 soldati turchi a Idlib da parte di forze siriane e la repentina decisione di Erdoğan di aprire i confini con l’Unione europea hanno gettato nuova benzina sul fuoco. 20mila migranti ammassati alle porte della Grecia, a cui sono seguiti i respingimenti di circa 35mila e gli arresti di oltre 250 che hanno varcato il confine e attendono il rimpatrio immediato: sono questi i numeri sul fronte del fiume Evros, che lambisce il confine terrestre tra la Repubblica ellenica e la Turchia, dove le autorità greche hanno dispiegato Mat ed esercito per sigillare le frontiere rispetto a ogni tentativo di accesso irregolare, facendo apparentemente anche uso di armi letali. Anche gli sbarchi nelle isole, che in realtà non si sono mai interrotti, sono tornati a picchi di alcune migliaia di persone nell’arco di pochi giorni.
In questo scenario entra in gioco anche l’estrema destra greca, islamofoba e anti-migranti, che, come i fascisti del resto d’Europa, descrive la Turchia come pronta a inondare la Grecia e il resto del continente di jihadisti, nel tentativo di realizzare il piano di “invasione” e “sostituzione etnica” architettato da Erdoğan. La normalizzazione della narrativa di estrema destra si è fatta lentamente strada nelle isole, aiutata dai gruppi Facebook locali che hanno fatto da incubatori di contenuti di odio contro rifugiati e Ong e si sono trasformati in comitati organizzativi di proteste, rappresaglie, azioni di “disobbedienza civile” – come il picchetto “spontaneo” che ha impedito l’attracco di un’imbarcazione carica di migranti nel porto di Thermi. Lentamente, una maggioranza fino a ora silenziosa di cittadini di Lesbo e Chios, due isole che negli anni passati sono state lodate per lo spirito di accoglienza e umanità, si è riscoperta intollerante.
Bersaglio dell’ondata di odio sono stati non solo i richiedenti asilo, ma anche gli operatori umanitari e i giornalisti, diventati da un giorno all’altro vittima di attacchi. Cronisti locali ed esteri hanno subito spedizioni punitive e si sono trovati costretti ad abbandonare le isole. Posti di blocco lungo le strade di Lesbo, improvvisati da gruppi di cittadini e tollerati dalla polizia locale, hanno a più riprese impedito ai volontari delle Ong di prestare soccorso ai rifugiati. Le forze dell’ordine hanno di fatto abdicato al ruolo di garanti dello stato di diritto, chiudendo più di un occhio sulle manifestazioni scatenate dall’euforia nazionalista collettiva.
Il primo ministro greco Mitsotakis ha sfruttato questo sentimento nazionalista per alimentare lo storytelling della resistenza ellenica contro la Turchia, trovando nella curia della Chiesa greca ortodossa un’altra potente cassa di risonanza. Ne è un esempio la “benedizione” da parte dei metropoliti di Evros delle guardie di frontiera greche, investite del sacro ruolo di difensori dell’identità greca dal rischio di un’invasione islamica: come volevasi dimostrare, l’iniziativa ha avuto ampia diffusione sulla tv pubblica e raccolto ampi consensi sui social media.
Martedì 3 marzo, i presidenti di Consiglio europeo, Commissione e Parlamento si sono recati in visita presso la località di Kastanies, a pochi chilometri dalla frontiera di Evros, accolti da Mitsotakis. In una conferenza stampa congiunta, i tre leader hanno espresso il pieno sostegno alle autorità greche nella difesa delle frontiere esterne dell’Unione e hanno condannato le deroghe unilaterali della Turchia all’accordo sulla gestione dei flussi migratori del 2016. Dal punto di vista pratico sono stati messi a disposizione 700 milioni di euro e due operazioni di intervento rapido di Frontex per rendere effettiva la chiusura dei confini.
Stretta tra la necessità di preservare l’accordo con la Turchia e di segnalare il proprio sostegno univoco alla causa greca, l’Unione europea ha scelto di avallare la decisione del governo di Atene di sospendere a tempo indeterminato le procedure di asilo, andando contro le basi del diritto internazionale. La decisione, che ha sollevato dubbi di legittimità e raccolto le critiche dell’Unhcr, è stata invece accolta con dichiarazioni di soddisfazione di Victor Orbán. Il premier ungherese, noto per aver voltato le spalle al resto dell’Unione sul tema della redistribuzione dei migranti e aver edificato recinzioni di filo spinato lungo il confine del suo Paese con Serbia e Croazia, si è infatti vantato di essere l’artefice dell’attuale politica europea “contro l’immigrazione musulmana”.
In questo momento sembra completamente uscita dalle agende di Bruxelles la riforma del Regolamento di Dublino. Sono stati inutili gli appelli del presidente del Parlamento europeo David Sassoli, che ancora una volta aveva auspicato un cambio di rotta da parte dei Paesi membri sul tema. La mancata revisione del criterio del “Paese di primo accesso” impone ai Paesi dell’Europa meridionale, Grecia, Italia e Spagna in testa, di farsi carico di un numero molto alto di richieste di asilo. In quest’ottica, lascia perplessi la mancanza di una presa di posizione sulla redistribuzione dei migranti da parte dell’Italia. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, al termine del Consiglio straordinario sulla giustizia e gli affari interni di mercoledì 4 marzo a Bruxelles, si è limitata a osservare che “alcuni Paesi non ne vogliono sentir parlare”. E mentre Salvini non perde occasione per invocare interventi militari a difesa delle frontiere europee, il governo Conte rinuncia apparentemente a ogni ambizione di riformare il sistema di asilo europeo.
Accantonata l’idea di costruire i nuovi centri di detenzione a Lesbo e Chios, il governo greco sta ora considerando l’opzione di trasferire i migranti sulle isole disabitate. Nell’assenza di una politica comune sull’asilo, in Europa vige la logica del “minimo comun denominatore”: l’unico elemento che accomuna i Paesi membri dell’Unione è la difesa dello spazio Schengen e delle frontiere esterne, punto oltre il quale non si riesce a costruire ulteriore consenso. Finché non si passerà al voto per maggioranza qualificata nel Consiglio in materia di migrazione, obbligando i Paesi del blocco di Visegrad ad assumersi la propria responsabilità e quota di migranti da ridistribuire, non sarà possibile trovare soluzioni strategiche alle pressioni migratorie, continuando a ricorrere a politiche di esternalizzazione dei confini e a scapito dei diritti umani. Per il momento, in questa battaglia di civiltà e sull’identità stessa del futuro dell’Unione europea, i veri vincitori sembrano essere chi ne mette in discussione l’esistenza. Bruxelles deve trovare al più presto una soluzione umana a quello che succede da anni in Grecia se non vuole che l’Europa si trasformi nella fortezza sovranista di Salvini, Le Pen e Orbán.