Immaginate un mondo in cui si dica “donne” per indicare la totalità della popolazione terrestre, un mondo in cui “donna con le palle” non sia più un complimento, un mondo in cui le professioniste di ogni settore non debbano più definirsi al maschile per ottenere una legittimazione da parte del sistema; potete solo immaginarlo, perché questo mondo non esiste ancora.
Il filosofo Martin Heidegger parlava della gettatezza (Geworfenheit) in relazione al nostro rapporto con il linguaggio e il mondo: dato che non decidiamo che lingua parlare e in quale famiglia nascere, si trova una passività originaria nella condizione degli esseri umani. La possibilità di opporci a tutto questo ci definisce in quanto donne e uomini. Una reazione significativa alla gettatezza acritica nella sessuazione fallica della lingua, in questo caso di quella tedesca, risale al 2013 nell’Università di Lipsia, quando entrò in vigore nel regolamento dell’ateneo l’obbligo di usare il femminile per indicare anche i ruoli svolti dagli uomini: in breve anche i professori vennero chiamati “professoresse”, gli studenti “studentesse” e via dicendo. La presa di posizione linguistica, a suo modo estrema, era una risposta provocatoria al fatto che in tedesco, così come nelle principali lingue europee, sia legittimato l’uso del cosiddetto “neutro maschile”, per cui si dice “uomo” per indicare l’umanità anche se noi donne siamo quantitativamente la maggioranza della popolazione mondiale. Questa non è una semplice convenzione grammaticale, ma molto di più.
Se la presunta correttezza grammaticale di una lingua passa attraverso l’egemonia di un genere (quello maschile) a discapito di un altro (quello femminile), nel nostro inconscio linguistico si innesta l’idea che il genere non egemonico a livello linguistico lo sia anche a livello biologico, sociale, professionale e antropologico. Capita spesso di sentir dire che il femminile di un dato mestiere “suona male”; in questo caso il sistema patriarcale si appella a consuetudini sonore ed estetiche pur di non essere messo in discussione. In realtà, a dare davvero fastidio non è il suono della parola “ministra”, ma il fatto che sia una donna a ricoprire una carica, che fino a pochi decenni fa era una prerogativa esclusivamente maschile. Lo dimostra il fatto che nessuno si scandalizza per la parola “operaia” o “cassiera”.
Ci dimentichiamo che il genere maschile si è imposto a livello grammaticale perché l’uomo è stato per millenni il soggetto esclusivo nell’economia e nella cultura. Se oggi la società, almeno quella occidentale, sta cambiando, è giusto che anche il linguaggio si adegui nella prospettiva di una maggiore equità. La lingua influisce sulla definizione di un immaginario collettivo e le differenze che contribuisce a creare si traducono in una subalternità anche economica tra donne e uomini. Spesso, infatti, il femminile di una professione è percepito come peggiorativo, denigratorio e implicitamente meno autorevole.
Come spesso accade per le questioni femministe, non è mai solo colpa degli uomini spesso siamo noi donne che percepiamo un termine declinato al femminile come segno di inferiorità, finendo per assecondare la natura reazionaria del patriarcato sul piano linguistico e, di conseguenza, anche sociale. “Parler n’est jamais neutre” (“Parlare non è mai neutro”), come recita il titolo di un saggio del 1985 di Luce Irigaray, pensatrice e filosofa della teoria della differenza sessuale. L’uso del “maschile neutro” non è neutro e il femminismo linguistico non vuole negare l’esistenza degli uomini e neanche annichilirla sul lato grammaticale, ma semplicemente metterne in discussione l’egemonia nella lingua. Quasi venti anni dopo il saggio spartiacque di Irigaray, si è imposta in campo linguistico la cosiddetta teoria queer, diffusa dalla filosofa statunitense Judith Butler, che rifiuta qualunque tipo di categorizzazione per gli individui, compresa quella basata sul sesso La teoria applicata al linguaggio prevede tra le varie proposte quella di utilizzare, almeno nella nostra lingua, l’asterisco al posto della declinazione maschile e femminile: archittett*, ministr*, cantant* etc. La critica mossa a questa soluzione è che la negazione dell’esistenza del genere sia un qualcosa di troppo radicale da mettere in atto, qualora non si sia raggiunta prima l’equità sociale e linguistica effettiva tra donne e uomini. Un’altra criticità è legata alle ripercussioni negative sulla chiarezza e leggibilità dei testi, come fatto notare anche da molte attiviste.
In Italia è stata la presidente della camera Laura Boldrini a promuovere la gender equality nel linguaggio, attraverso l’abitudine all’uso della forma femminile per le professioni e gli incarichi istituzionali ricoperti da donne. Al tempo della sua presidenza venne duramente attaccata dai media per la sua lotta alle definizioni monoliticamente “virilizzanti”, che aveva portato all’adozione da parte delle dipendenti della Camera di nuovi badge con la declinazione della loro mansione al femminile. La sua iniziativa venne vista come un’operazione intellettuale da radical chic e attaccata coniando espressioni denigratorie come “codice linguistico boldriniano” o il soprannome “Presidenta” per riferirsi a Boldrini. Grande motivo di scontro fu anche quello legato ai “segretari parlamentari”, perché le donne che ricoprivano quell’incarico si rifiutarono di essere bollate come “segretarie”, proprio per l’allure sessista della parola.
Nel luglio 2014, promotrice proprio Boldrini, venne presentato alla Camera Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano della linguista e consulente dell’Accademia della Crusca Cecilia Robustelli. La guida, in un’operazione simile a quella già condotta nel 1986 da Alma Sabatini con le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, voleva essere uno strumento per un uso inclusivo della lingua italiana, ma i media hanno messo subito alla berlina il suo femminismo linguistico definendolo “femminismo cruscante”.
Continuare a negare sul piano linguistico l’importanza del genere, quando sappiamo che gran parte delle discriminazioni che ci riguardano avvengono proprio perché siamo donne, è un atteggiamento ipocrita. La lingua, così come la società, deve aprirsi al nostro ghenos. Non c’è niente di artificiale in questa rivendicazione: la lingua è materia viva, che deve adeguarsi ai cambiamenti della società che la usa tutti i giorni.
Io, personalmente, non voglio “avere le palle” neanche a livello linguistico, perché sono convinta che l’uso di questa espressione, anche in maniera positiva per indicare la mia determinazione e qualità affini, faccia dimenticare al mondo che noi abbiamo un utero e che nascere donna sia ancora oggi un limite in molte circostanze. Se il patriarcato anche a livello grammaticale è un principio indiscusso, perché ci stupiamo che lo sia a livello sociale? È ora di cambiare le regole, anche quelle grammaticali. È importante che siano le donne a farlo e a supportarne altre come Boldrini, che hanno tentato di dare una concretezza semantica al femminismo nelle istituzioni. Muriel Barbery scrive ne L’eleganza del riccio che “la coscienza per manifestarsi ha bisogno di un nome”, riferendosi al sentimento di appartenenza a se stessa che la protagonista del romanzo prova la prima volta che viene chiamata con il suo nome proprio. Il “femminile neutro” è il nome proprio del nostro genere, e oggi più che mai abbiamo bisogno di sentirlo pronunciare.