In un grigio giovedì di metà novembre, in quella terra di mezzo temporale che va dall’estate di S. Martino alle ansie natalizie, il ministro dell’Interno sceglie Napoli e la Campania per ripartire. Nel corso della sortita napoletana, accolto dall’ennesima contestazione, Matteo Salvini lancia una bomba: “In Campania ci vuole un inceneritore per provincia”. I media – abituati a rincorrere notizie su furti, immigrazione, violenze non precisate dei neri, e in misura minore su flat tax, reddito di cittadinanza, pace fiscale, quota 100 – sono stati costretti a tornare indietro di almeno 8 anni. Quando la crisi dei rifiuti in Campania aveva prodotto la militarizzazione delle discariche, la repressione delle rivolte contro le stesse, prima a Pianura e Chiaiano e poi Terzigno, e la sera i talk-show non parlavano di altro che di necessità di inceneritori, di “pugno duro” contro le popolazioni che osavano proporre modelli alternativi: riciclo, riuso, riduzione a monte del rifiuto.
Erano i tempi in cui Berlusconi in diretta nazionale inaugurava l’inceneritore di Acerra. Uno dei più grandi d’Italia gestito da A2A, colosso di cui, secondo Il Fatto Quotidiano, sarebbe socio di minoranza lo stesso Matteo Salvini che oggi impone i riflettori mediatici sul tema come se ci fosse ancora un’emergenza circoscritta al territorio campano. Da questa vicenda emerge tutta l’abilità del ministro dell’Interno, campione di strategia mediatica e abile giocatore nella società dello spettacolo. L’attenzione dell’opinione pubblica, non a caso, è stata distratta negli ultimi giorni dallo spread che volava oltre i 320 punti e dall’assenza in legge di bilancio del reddito di cittadinanza e della quota 100. E se Salvini ha dato il la, il governo tutto lo ha inseguito. Allo stesso tempo si nota un generico appiattimento del sistema dell’informazione italiano – non a caso al 46esimo posto al mondo per libertà di stampa – ridotto a un semplice megafono di populisti e potenti.
In questi giorni, riguardo al problema dello smaltimento dei rifiuti, ci sono arrivati solo immagini e suoni confusi come da una tv degli anni Ottanta che faceva fatica a recuperare il segnale, e come al solito siamo stati bombardati di chiacchiere. La nostra mente viene volutamente avvolta da una coltre di rumore indistinto, fatta da un flusso ininterrotto di cui non si riesce a recepire l’inizio, lo sviluppo, il contesto, la struttura dialettica e l’eventuale sintesi. È necessario chiedersi quale sia il rapporto tra la cosiddetta “terra dei fuochi” e le eventuali crisi nel sistema di smaltimento, e se gli inceneritori, meglio apprezzati come termovalorizzatori capaci anche di produrre energia elettrica, siano utili o meno.
La crisi del ciclo dei rifiuti – che è reale e riguarda l’intero Paese, non è un problema esclusivamente confinato tra Garigliano e Sapri – si è mostrata in tutta la sua problematicità negli ultimi anni con una serie di incendi negli impianti di stoccaggio e per il trattamento degli scarti della differenziata. Roghi che hanno interessato tutte le regioni. In Lombardia, ad esempio, dall’inizio dell’anno si sono verificati 18 incendi a impianti di trattamento, selezione o riciclo dei rifiuti o dei materiali ricuperabili. Il Sole24Ore ha censito più di 100 incendi in un paio d’anni in tutta Italia, dall’Alto Adige alla Sicilia. La Commissione Bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, a inizio anno, ha riportato in una relazione dettagliata che a dicembre 2017 sono stati 261 i casi di incendio all’interno di impianti in soli tre anni, di cui 124 nelle regioni del Nord, il 47,5% sul totale.
È notizia di poco più di un mese fa quella dell’arresto di sei persone nel pavese, accusate di aver appiccato un rogo il 3 gennaio scorso all’interno del capannone di Corteolona, dove erano stipate quasi 2mila tonnellate di materie plastiche come vecchi pneumatici e fusti. In quel caso, l’obiettivo del rogo era cancellare le prove di un grosso traffico illecito, scoperto dalla Dda milanese. Dietro l’atto doloso è emerso un sistema ben collaudato: andava dalla raccolta, principalmente di plastica industriale, allo stoccaggio, fino all’incenerimento dei rifiuti che, come si è visto, è avvenuto in una Regione con 13 termovalorizzatori che bruciano l’indifferenziato proveniente anche dal resto d’Italia. Eppure, in molti territori virtuosi per percentuali di raccolta differenziata e con un numero adeguato di inceneritori, si verificano incendi del genere, dietro cui – in molti casi – c’è la mano della criminalità organizzata.
La raccolta differenziata, da sola, non è sufficiente a ridurre al minimo l’impatto dei nostri rifiuti perché ha comunque bisogno di un adeguato numero di impianti per il trattamento dei suoi scarti. E se è vero che “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” come sosteneva il chimico e filosofo del Settecento Antoine-Laurent Lavoisier, senza una politica forte di investimenti in nuovi siti di compostaggio oltre che di trattamento di carta e plastica, è normale che si verificherà sempre un surplus di “monnezza”, seppur pulita e inodore, non trattata e pronta a far gola alle nostre mafie. Un altro fattore sfuggito ai più è che dal primo gennaio 2018 la Cina ha bloccato le importazioni delle plastiche e della carta da macero creando di fatto un nodo nel sistema di smaltimento mondiale. Sarà un problema, negli anni a venire, per i Paesi più avanzati che dagli anni Ottanta consideravano la Cina un partner affidabile per esportare i propri scarti. Prima del blocco si usava mandare a Pechino la metà o più della spazzatura differenziata, come plastica o carta. Basti pensare che dal 1992 la Cina ha importato oltre 116 milioni di tonnellate di bottiglie, contenitori per il cibo e buste di plastica, ricevute in gran parte da Paesi come Stati Uniti, Giappone e Germania.
La Cina e Hong Kong hanno importato più del 72% di tutti i rifiuti di plastica. Negli ultimi anni, però, anche Pechino ha cominciato a porsi il problema dell’inquinamento adottando una campagna che dalle nostre parti potremmo chiamare “sovranista”, vietando di importare circa 24 tipologie di materiali da riciclo. L’Italia esportava circa il 12% della plastica in Cina, nonché oltre un terzo della carta da macero, che poi importavamo nuovamente sotto forma di cartone per imballaggi e carta grafica. Solo nel 2016 abbiamo esportato 1,9 milioni di tonnellate delle 6,5 totali di carta e cartone raccolti. Il 54% è andato in Cina. L’Italia, a oggi, senza un piano adeguato, non è più in grado di trasformare tali quantità. Nel luglio scorso, ad esempio, una nave italiana carica di materiale da riciclare destinato alla Cina, è dovuta rientrare a Genova. Ed ecco, a valle, come si spiegano i roghi negli impianti o il dramma della cosiddetta “terra dei fuochi”.
Scarti, rifiuti, spesso materiali tossici, generati da un sistema capitalistico che si fonda prima sullo sfruttamento della natura e poi dell’uomo per produrre profitti per pochi – che siano essi boss delle holding dell’energia o criminali senza scrupoli. La verità è che servirebbe da un lato un piano per una riduzione di tutto ciò che diventerà scarto; dall’altro un sistema moderno di impianti che releghi l’uso dell’incenerimento come ultima soluzione, politiche di lungo respiro e con una visione chiara del futuro.