Se ci sentiamo tutti abbruttiti è perché non troviamo più il nostro posto in questa società - THE VISION

Qualche giorno fa ho lasciato un vasetto di yogurt sulla scrivania. Non mi andava di portarlo subito in cucina, l’avrei fatto dopo. Poi ho aggiunto un piatto, un bicchiere e una bottiglia d’acqua vuota. Mi son detto che avrei potuto fare un viaggio unico e buttare tutto più avanti. Nel mentre, essendo stato a contatto con una persona positiva al Covid, ho pensato di lavarmi i capelli il giorno dopo, tanto non avrei potuto vedere nessuno, e quindi non aveva nemmeno senso togliere i peli di gatto dalla felpa. Dopo qualche giorno la mia scrivania è diventata una discarica. Senza rendermene conto avevo accumulato: cinque vasetti di yogurt, tre bottiglie d’acqua vuote, cartacce di croissant all’albicocca dal supermercato, fazzoletti macchiati di sugo, piatti, forchette e cucchiai. Sembrava l’altare della mia pigrizia. Inizialmente l’ho presa a ridere, ho fatto una foto alla scrivania e l’ho mandata a una mia amica su Whatsapp che mi ha detto che la mia vita stava diventando quella di un orco delle caverne. Lo stesso giorno, l’espressione “Goblin mode” è stata votata come parola dell’anno dall’Oxford English Dictionary.

Ogni anno la casa editrice dell’Università di Oxford sceglie, attraverso una votazione, un nuovo termine che possa rappresentare al meglio i tempi che viviamo. Le parole finaliste del 2022 sono state: “Goblin mode”, “metaverse” e “I stand with”. Più di 320mila votanti (il 93%) ha fatto vincere Goblin mode, un’espressione che descrive uno stile di vita trasandato, autoindulgente, pigro, improntato sull’abbrutimento e la rinuncia ad aderire ai canoni e alle aspettative sociali. È un po’ come se i fan di Notting Hill avessero deciso di non essere più William, il protagonista con il sorriso smagliante di Hugh Grant, ma Spike, il coinquilino stralunato che girava per casa con indumenti improbabili. In un’era dove sui social veniamo bombardati dalle immagini di vite patinate e platinate, tra fisici statuari, rigide diete, viaggi fantastici, sport più o meno estremi ed eventi mondani, il post-pandemia – per necessità o slancio di autodeterminazione – ci ha proiettati nell’era in cui vige il diritto di fare schifo.

Come primo impatto, il riferimento alla parola “goblin” fa pensare a qualcosa di negativo, poiché si parla di creature che nella mitologia rappresentavano dei mostriciattoli che rubavano i bambini e stupravano le donne, e anche nel fantasy moderno – da Tolkien in poi, seppur con alcune eccezioni – i goblin sono esseri ributtanti, spesso ottusi e crudeli. Nel contesto attuale, invece, il Goblin mode è a tutti gli effetti un atto di ribellione contro la società. Stanchi dei modelli improntati su una fisicità prestabilita e su comportamenti codificati come rispettabili e ordinari, ci siamo affidati all’anti-narcisismo e all’accettazione delle nostre vulnerabilità. Così, sui social è nata una sorta di controcultura: foto di persone con la tuta del liceo in acetato invece che con indumenti da fashion blogger, doppi menti e brufoli al posto della “pelle splendida”, selfie sul divano e non nel locale trendy durante l’aperitivo con gli amici; in una rivisitazione contemporanea della metaforica fuga nel bosco, che nel Trattato del ribelle di Ernst Jünger, datato 1950, rappresentava l’abbandono delle imposizioni sociali.

Non bisogna confondere il goblin con l’hikikomori. Quest’ultimo, infatti, abbandona la società letteralmente, rinunciando a qualsiasi contatto umano. Chi passa in modalità goblin, invece, può anche avere una vita normale, incontrare persone e andare al lavoro. Solo che nei momenti liberi non sceglie di andare a fare un weekend fuoriporta con una comitiva di amici o di scalare montagne: resta a casa, magari riscoprendo l’arte della noia. Dunque: facciamo una maratona di una serie tv stando due giorni sul divano e nutrendoci di cibo spazzatura senza toglierci il pigiama, oppure passiamo le giornate a guardare video sui lemuri su Youtube. È un modo di badare a se stessi senza badare a se stessi. L’ossimoro consiste nel rifugio in quell’otium romano che spesso rischia di sfociare nell’apatia, ma che ormai fa parte di un manifesto che abbiamo abbracciato dai tempi della pandemia. Probabilmente germogliava già dentro di noi, latente, da prima, ma gli ultimi due anni e mezzo hanno imbastito la giustificazione perfetta per “lasciarci andare”. Anche l’aumento del lavoro in smart working ha alimentato questo fenomeno, portandoci a riconsiderare i nostri spazi, il perimetro di una vita che intendiamo vivere secondo le nostre regole, e non quelle di un social ingegnerizzato per mostrare una vita fittizia o di una società che per osmosi ha seguito lo stesso andazzo. Così siamo arrivati al nostro personale smart living, forse una forma di protezione contro le crisi globali che affliggono il pianeta. Sicuramente una difesa contro il giudizio altrui e un rovesciamento di qualsiasi diktat esterno. Senza trascendere in qualcosa di patologico, se abbiamo bisogno per qualche tempo di fare schifo e lasciarci andare ci siamo resi conto che possiamo farlo, andandone anche fieri.

Anche altri dizionari hanno eletto le loro parole dell’anno, e molte di queste sono collegate in egual maniera alle turbolenze post-pandemiche che stiamo vivendo. Collins, ad esempio, ha scelto l’espressione “permacrisis”, ovvero la crisi permanente che stiamo vivendo in questi anni, tra virus e guerre, e che rispecchia il senso di instabilità del pianeta e dei suoi abitanti. La permacrisis per certi aspetti non è altro che l’habitat del goblin, che per farle fronte si protegge ricavando una sua comfort zone. Se l’hikikomori ha cronicizzato la sua posizione, il goblin è capace di alternare le due fasi sapendo di potersi “trasformare” in qualsiasi momento. Quindi magari passa una giornata “normale” in ufficio, in giacca e cravatta, e poi, prima di tornare a casa, trova la sua cabina di Clark Kent e si trasforma, trascorrendo il resto della serata giocando ad Animal crossing con le ascelle pezzate e il cartone della pizza appiccicato sul tappeto. Entrando nella cabina subisce una metamorfosi contraria rispetto a quella di Superman: il goblin è l’antitesi del “superuomo”. Non ha la pretesa dell’avventura o dell’impresa eroica. Ambisce all’inconcludenza, a ore o giorni in cui è un “antiuomo”, una creatura che la società reputa repellente e che nel paradosso appare molto più umana dell’eroe, poiché accetta i suoi limiti, anzi, si crogiola in essi.

Non è un caso se altri termini molto in voga in questo periodo siano collegati alla stasi e all’allontanamento dal mito dell’azione. Persino il dizionario di Cambridge si è adeguato e ha istituzionalizzato parole come “staycation” o “sleepcation”. I significati sono simili, ovvero definiscono delle vacanze in cui l’obiettivo non è girare come trottole per località turistiche, ma riposarsi, stare fermi. Per essere precisi, nel primo caso ci si riferisce a prendersi una pausa nella propria abitazione o comunque nella propria città; nel secondo a un periodo dedicato a recuperare il sonno. Anche dormire infatti, nell’era del capitalismo e del lavoro come occupazione principale della vita, è diventato un lusso. La ricerca della produttività a ogni costo e del tempo da ottimizzare secondo il mantra produci-consuma-crepa viene combattuta dal goblin senza uno scudo e una spada, ma con la vestaglia del Drugo de Il grande Lebowski. La sciatteria assume così i tratti della reale spinta anticonvenzionale, in un’epoca in cui lo stress ci accompagna perennemente e le aspettative sociali e lavorative ci schiacciano.

Certo, il rischio è che il Goblin mode possa diventare l’assoluzione perfetta per ogni lacuna o, nei casi più gravi, una forma di sociopatia. Il confine tra atto di ribellione consapevole e rassegnazione è labile. D’altronde il Goblin mode nasce anche dalla non risoluzione della sindrome della caverna, ovvero quel senso di fatica nel ritrovare per sé stessi un posto nel mondo dopo un periodo di chiusura e ritiro, con la propria tana a farsi rifugio e a volte prigione. Rappresenta però una novità in un mondo dove l’immagine è il nostro timbro identificativo e ciò che facciamo ci categorizza inscatolandoci in uno status deciso da altri. Senza esagerare e sconfinare nella misantropia o nell’abulia, è necessario concepire un modello di vita diverso, travalicando gli avatar di noi stessi che per anni abbiamo creato attentamente sui social, cioè degli automi con un’immagine decorosa, una socialità dogmatica e un appiattimento del nostro essere ai tratti che vengono considerati consoni dal mondo in cui viviamo. Possiamo essere anche altro, senza vergognarci. Il motto “Ne usciremo migliori” l’abbiamo assimilato contrastando la definizione stessa di “migliore”, termine che di per sé contiene un’osservazione esterna e un giudizio. Due anni e mezzo dopo, abbiamo gli stessi vezzi di sempre e addirittura siamo ancor più incattiviti, stanchi, delusi e frustrati. L’esserne usciti esteticamente, moralmente, e a livello di relazioni sociali “peggiori” rappresenta un riflesso incondizionato che ci ha fatto scoprire l’ebbrezza di essere goblin, ovvero tutto ciò che la società ci spinge a non essere. Prima o poi puliremo la scrivania e ci pettineremo, ma sarà una nostra scelta. Il Goblin mode è l’unico modo di essere libere di tante persone.

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