Era successo con i mobili Ikea: si entrava in una casa di amici, in una stanza che si voleva affittare, in un ufficio, in un B&B e si ritrovava la stessa libreria Billy, la stessa poltrona Pöang, lo stesso tavolinetto nero Lack. Andavi a casa di un amico e mangiavi sulla stessa tovaglietta, nello stesso piatto, bevendo dallo stesso bicchiere che avevi in casa tua. Per non parlare dell’immancabile portaposate Ordning in acciaio inox bucherellato. L’ikeaizzazione è stato il fenomeno di conformismo di interni frutto della progressiva mondializzazione del mercato, tanto quanto la diffusione dei fast-food e della Coca-Cola negli anni ‘90: ricordo che nel mio libro di storia delle medie nel capitolo Globalizzazione c’era una foto di un masai africano che si dissetava con una bottiglia di Coca sull’altipiano.
Questo processo della fotocopia di interni si sta ripresentando, anche se su un altro piano e a un altro livello. Sta accadendo per il cafè urbano – che si differenzia dal classico bar o dal pub, in quanto non si servono birre ma cappuccini e muffin – dove vanno a lavorare i ProCreativi (Professionisti-Creativi), una categoria intergenerazionale – anche se più frequente tra i millennial in quanto spesso esclusi da un mercato del lavoro stipendiato – che si occupa di solito come free-lance di design, cultura, moda, grafica, start-up, eccetera, il cui ufficio diventa una qualsiasi superficie su cui rovesciare il proprio zainetto Fjällräven o la tote bag di un qualche museo, tirando fuori Macintosh, Moleskine e cuffiette.
Questa volta l’attore di questa “globalizzazione del decoro” non è inconsapevole, non si tratta del consumatore attratto dal mobile comodo, economico e che ti monti da solo, ma di una scelta precisa che invece che basarsi sul movente – comodità e prezzo – si basa su caratteristiche estetiche a cui si è abituati e in cui ci si sente a proprio agio. Lo scrittore americano Kyle Chayka l’ha chiamato “AirSpace”. Non è casuale, sottolinea, che in un cafè a Manchester o a Seoul, Berlino o Milano, si ritrovino gli stessi elementi, gli stessi mobili, le stesse tazze, le vetrate che danno sulla strada o le grosse lampadine esposte, il look industriale, perché è quello che questa categoria desidera ritrovare, con minimi elementi che però ogni volta danno un senso di autentico, non essendo queste attività commerciali mai parte di una catena. Sono luoghi ogni volta cool ma comodi, perché ci si sente nella propria bolla di estetica privilegiata. Si va, ci si collega al wi-fi, si ordina, si lavora, si leggono le notizie circondati dai propri simili. Atmosfera riconoscibile, un paio di vinili appoggiati su un mobile di recupero, una vecchia mappa dell’Islanda, un poster di un concerto incorniciato, Kurt Vile di sottofondo, e non ha importanza in quale continente ci si trovi.
Questo fenomeno si è allargato iniziando a far modificare gli interni di case affittate su AirBnb, spazi di CoWorking, ristoranti e così via. Perché un ProCreativo è più prono a prenotare una stanza, in una città dove starà due notti per visitare una mostra o presentare un progetto, se nelle immagini riconosce lo stile che reputa accettabile.
Se la riproduzione meccanica dell’opera d’arte, come ci faceva notare Walter Benjamin un secolo fa, ne svaluta il suo hinc et nunc, “la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova”, ricreare uno spazio a cui siamo più o meno abituati, e che rispettiamo, porta a un ritorno del feticismo dell’oggetto che trova la sua manifestazione sui social. Instagram, che non a caso ha la stessa età di questo fenomeno – circa dieci anni, per quanto sembri esistere da molto più tempo – ne è la sua celebrazione e motrice.
Fotografie con filtro Sierra di giradischi portatili Crosley o di libri sistemati accanto a una fetta di banana bread stimolano sia il riconoscimento di oggetti acquistabili che di atmosfere. L’élite dei Procreativi non è necessariamente economica, ma culturale; mostra sui social il proprio mondo per ricevere approvazione in forma di like anche da chi non fa parte del suo gruppo – ovvero chi non deve andare per per lavoro a Helsinki un fine settimana, chi non ha bisogno di Photoshop. Li invita acquistare oggetti ed esperienze, ad avere il desiderio di ricreare un clima che li faccia sentire glam. Così nascono e nasceranno sempre più cafè con wi-fi e mobili di recupero in versione economica, come un DVD piratato di un ambiente.
Si tratta di un processo simile a quello avvenuto in relazione alla prima ondata di controcultura all’inizio degli anni dieci, quando il primo hipsterimo si presentava sia in contrasto con la cultura mainstream di reality show e musica pop, sia come opposizione alla generazione dei babyboomer – i nati tra il 1945 e il 64 – considerati colpevoli di aver lasciato un sistema di precariato lavorativo e di non essersi presi cura del pianeta.
Il primo hipster del 2000 nasce ideologico; nichilismo, ironia e opposizione al gusto della maggioranza vengono utilizzati anche per mostrare una precisa scelta di vita e per fare una dichiarazione politica di dissenso. Per l’hipster originario l’orto in giardino è più una scelta di convinzione – ecologia e risparmio – che non un’ostentazione estetica. L’estetica hipster successiva invece non solo è postideologica, ma è un mero strumento del capitalismo.
Così, come nel caso dei cafè dei ProCreativi, la massa di consumatori riceve a distanza di anni il prodotto delle ricerche di mercato, trasformato in oggetti di qualità inferiore, riproducibili industrialmente, ma comunque instagrammabili. Il non-creativo, come il finto Hipster, non solo non nota certe differenze qualitative, ma non deve nemmeno sorbirsi la fatica di una scelta, continuando però a indossare gli occhiali in stile Buddy Holly made in China – e senza necessariamente sapere chi sia Buddy Holly – senza andare a cercare nell’armadio del nonno il Barbour sgualcito o i maglioni norvegesi odoranti di naftalina perché tanto H&M, Zara, e tutta la cricca dell’abbigliamento omologante, offrono un prodotto che li mima senza contenerne l’essenza.
La commercializzazione dell’estetica hipster degli ultimi anni ha ucciso l’hipster originario – ecologista, esperto di musica, bizzarro, neo-socialista, anarchico, cinematografaro o tatuato che fosse. Gli hipster erano persone che ascoltavano solo band underground “di cui sicuramente non hai mai sentito parlare,” ora per esser percepiti come hipster basta farsi crescere la barba o farsi i risvoltini ai jeans, continuando però ad ascoltare i Coldplay.
C’è una differenza tra essere e apparire. Tra Williamsburg e Brera. Ma non per chi vende i prodotti che permettono questa trasformazione tra fenomeno culturale e look. Qui non è più imperialismo culturale – come l’americanizzazione del mondo attraverso la cultura pop – ma un gioco al guadagno perpetuato dalle aziende che prima analizzano cosa fanno questi nuovi gruppi particolarmente attenti all’estetica, e poi lo copiano ma con meno cura – dei materiali, del contenuto e del significato – per proporla in vendita alle masse.
Ma il fatto stesso che se ne parli, è il segno che l’ondata di contraffazione di questo stile sta giungendo al termine. La moda è un ciclo. Come diceva Leopardi nelle Operette Morali: “La morte e la moda sono sorelle, perché entrambe sono nate dalla caducità.”