Lunedì 25 Ottobre il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del Tar sulla sergente di ventun anni Giulia Jasmine Schiff. Il suo appello per essere reintegrata nell’Aeronautica Militare è stato definitivamente respinto. Schiff era arrivata quarta su duemila al concorso per entrare in Accademia e si era poi classificata prima al tirocinio del corso 2018 a Pozzuoli. La frattura tra Giulia e il sistema di cui faceva parte con brillanti risultati era iniziata ad aprile di quell’anno quando, appena diplomata, era stata sottoposta dai suoi colleghi di corso al cosiddetto “battesimo del volo”, un rito di iniziazione particolarmente violento.
In seguito all’accaduto Schiff avrebbe manifestato il suo senso di disagio, stress e frustrazione ai suoi compagni, ma questo avrebbe solamente causato il suo progressivo allontanamento dal gruppo e infine l’esclusione anche formale sotto forma di espulsione dall’Accademia per “insufficiente attitudine militare e professionale”. La giovane sergente ha quindi deciso di denunciare: nella sua testimonianza Giulia racconta di “violenti colpi sul fondoschiena” inflitti “con dei frustelli di legno” dopo i quali “l’hanno fatta urtare con la testa la semiala di un aereo in mostra statica posta in prossimità di una piscina dove, infine, l’hanno gettata”. Il tutto è confermato da un video ampiamente diffuso. Si tratta della deriva di un rito piuttosto antico e un tempo innocuo: tutti i neo-piloti venivano infatti gettati nella “fontana del pinguino” come segno di battesimo e dell’inizio della loro futura carriera. Secondo il legale di Giulia, l’avvocato Massimiliano Strampelli, la tradizione si sarebbe “particolarmente incattivita dopo l’ingresso delle donne nella Forza Armata”. Nel caso di Giulia, come si vede chiaramente nel video, vengono infatti aggiunti, prima del tuffo in piscina, pugni e frustate.
Formalmente il sistema condanna questo tipo di comportamento quando dal gesto simbolico si passa alla violenza fisica o psicologica: gli otto imputati, secondo la Procura Militare, hanno offeso “prestigio, onore e dignità” di Schiff, usando “violenza” contro di lei e “cagionandole plurime escoriazioni”. L’accusa chiede un risarcimento non inferiore a 70.000 euro per i danni subiti. Il processo si terrà il 5 novembre a Latina.
Anche secondo il ministro della Difesa Guerini, intervenuto sulla vicenda “qualsiasi comportamento lesivo della dignità personale non può essere tollerato. Quando si mettono in pratica comportamenti eccessivi, anche rispetto alle manifestazioni di goliardia, questi richiamano fenomeni deprecabili che [vuole] considerare un retaggio del passato, per il quale non esiste più alcuno spazio nelle Forze Armate”. Eppure, oggi, Giulia si vede costretta ad abbandonare la sua carriera – in un settore per cui era evidentemente portata, come dimostrano i risultati – per aver espresso il suo dissenso proprio nei confronti di quelle pratiche per cui secondo il ministro non ci sarebbe più spazio. Per il Consiglio di Stato infatti la “grave inimicizia” tra Schiff e l’ufficiale che l’ha giudicata in precedenza non sarebbe dimostrabile. Non solo: “i fatti oggetto di accertamento nell’ambito di un procedimento penale non possono essere assunti acriticamente come certi nel giudizio amministrativo”. Giulia è stata anche condannata a pagare 2.500 euro di spese legali all’Aeronautica. Nonostante tutto lei non si arrende: “Mi rifiuto di accettare di essere schiacciata da una situazione disonesta avallata dall’omertà. Merito giustizia e di perseguire il mio sogno” ha dichiarato in una recente intervista al Corriere della Sera. Non si tratta tuttavia solo di una questione personale: “Io non lotto solo per me stessa ma anche per chi, in questa o molte altre situazioni analoghe, non ha avuto il coraggio di denunciare”.
Il vero risultato, per quanto ottenerlo sembri impossibile, sarebbe riuscire a correggere e migliorare un sistema problematico senza per questo smettere di farne parte o venirne rifiutati. Ma evidentemente l’omertà che caratterizza l’apparato militare rende questo processo, che potrebbe tradursi in un circolo virtuoso, inattuabile. La storia di Giulia Schiff ha fatto molto discutere e ha riportato al centro del dibattito pubblico temi come il nonnismo e il mobbing tra gli agenti in divisa, dinamiche che purtroppo fanno sì che una serie di convenzioni brutali e violente – come il rito subito dai diplomati all’Accademia – vengano universalmente accettate come norma vigente. È importante non confondere simboli e tradizioni, che hanno indubbiamente un loro ruolo nello strutturare e mantenere la gerarchia interna, con una violenza gratuita e immotivata che non può che essere condannata. La vicenda di Giulia non va presa come un singolo e scandaloso episodio, e soprattutto non va dimenticato con il passare del tempo e dell’attenzione mediatica. Bisognerebbe invece considerarla come un’occasione per ridiscutere un intero sistema e avanzare l’ipotesi che l’addestramento militare possa reggersi su pilastri diversi da quelli della violenza. La considerazione di “attitudine militare” che emerge da questo caso sembra essere piuttosto rozza e auspicabilmente datata: a ben vedere l’espulsione di Schiff suggerisce l’idea che per essere portati alla vita militare sia necessario accettare passivamente lo status quo, senza porsi domande e soprattutto senza contestarlo, anche laddove produca dinamiche inaccettabili. Nonnismo e mobbing non sono lo specchio della tradizione: sono semplicemente dinamiche malate e dannose, che vanno combattute prima di tutto dall’interno.
Nella vita militare il nonnismo è definito come “il comportamento dei soldati prossimi al congedo, che pretendono di esercitare un’autorità talvolta tirannica e vessatoria nei confronti delle reclute, in forza di un presunto potere derivante dall’anzianità”. Questo comportamento ha un’origine antica e sembra sorgere in maniera abbastanza spontanea e fisiologica negli ambienti militari: dinamiche simili sono descritte già da Giulio Cesare nel De Bello Gallico e da Plauto nel Miles Gloriosus. Secondo lo psichiatra forense e criminologo Marco Cannavicci il nonnismo sarebbe un modo per affermare una gerarchia propedeutica all’esistenza dell’intero sistema, ma non solo: si tratterebbe anche di un modo per combattere “la noia, l’inutilità, la nostalgia e la frustrazione dei militari, dando un significato ai troppi giorni senza significato”: tramite la violenza sui sottoposti si sfogherebbero, secondo questa teoria, i sentimenti di noia, frustrazione, rabbia e stress degli appartenenti ai ranghi militari. Al contempo, per una tacita legge, chi subisce i maltrattamenti entra simbolicamente a far parte del “sistema gruppo” e viene quindi protetto da eventuali minacce esterne. Sempre più spesso il nonnismo assume la forma del mobbing: quando succede non si parla più di una dinamica vigente tra superiori e sottoposti, ma anche tra pari. La definizione di mobbing deriva dal mondo animale e, sempre secondo Cannavicci, è quella dinamica per cui “buona parte degli elementi di un branco ne attaccano uno per espellerlo”. Il termine è ripreso dall’inglese to mob, “assalire”, ma ha in realtà origine nel latino mobile vulgus, letteralmente “gentaglia mobile”, utilizzato per indicare una folla disordinata e aggressiva.
Proprio a causa della loro natura endemica, non è semplice identificare o quantificare gli episodi di nonnismo o mobbing all’interno degli organi militari. Nel 1998 lo Stato Maggiore della Difesa ha istituito un Osservatorio permanente sul nonnismo per cercare di monitorare la situazione. Stando a quanto osservato, gli episodi sarebbero diminuiti in seguito all’abolizione del servizio militare obbligatorio, ma il trend è tornato ad aumentare a partire dal 2012. Tra i casi più noti gli abusi nella caserma di Ascoli Piceno portati alla luce in seguito all’omicidio di Melania Rea. Con il progressivo, ma ancora problematico, arruolamento delle donne nelle Forze Armate sembra essersi sviluppata una nuova tendenza nel mobbing in uniforme, che starebbe assumendo sempre più il carattere di una discriminazione di genere. Il caso di Schiff lo mostra con chiarezza. Per le donne è tuttora molto più difficile che per gli uomini riuscire a intraprendere una carriera militare e anche quando ci riescono diventano i target principali delle azioni di mobbing.
La narrazione dominante a cui stiamo assistendo in questi giorni, sostenuta tra gli altri dall’avvocato Michela Scafetta, una delle rare donne al lavoro nei tribunali militari, punta a far passare l’espulsione di Schiff e le sue denunce come due eventi e due processi completamente distinti. Secondo Scafetta “la Schiff non è stata vittima di atti di nonnismo, ma più semplicemente non era idonea alla vita militare. È stata espulsa perché non possedeval’attitudine militare e professionale, non poteva pilotare un aereo da guerra, un velivolo militare”. Dar credito a questo tipo di narrazione significa però ignorare dinamiche profonde e disturbanti che penalizzano le donne e i più deboli, etichettandoli come automaticamente inadeguati e alimentare la tendenza all’omertà nel contesto militare. Bisogna smettere di pensare che sopportare la violenza sistematica senza lamentarsi sia motivo di vanto: questo meccanismo è frutto di una cultura dannosa che va combattuta, anche per rendere migliore la vita all’interno delle Forze Armate.