L’omicidio di Giulia Cecchettin rappresenta un punto di svolta per la percezione del femminicidio del nostro Paese. Uno di quei pochi casi che in prospettiva storica probabilmente avranno segnato la storia del diritto e della pubblica opinione in Italia. Di tante, lei. Già, ma in molti si chiedono perché proprio lei, che cosa abbia catturato l’immaginario popolare facendocela sentire più vicina delle altre.
Per capirlo penso dobbiamo fare caso a come siamo abituati ad approcciarci alle vittime. I media, che rispecchiano e indirizzano la sensibilità comune, sono soliti raccontare i femminicidi basandosi su considerazioni ed elementi che si configurano di fatto come attenuanti per partner ed ex-partner assassini: la vittima aveva chiuso la relazione tanto agognata, c’era stato un grosso litigio (di quelli che fanno “perdere la testa”, sottinteso), il soggetto si trovava da tempo in uno stato di profonda sofferenza psicologica. Ma, come fece giustamente notare Michela Murgia, nello scrivere un articolo su un furto di solito non ci si sofferma sulle motivazioni del ladro, per quanto possa avere avuto una vita difficile. A corredo del pezzo ci sono poi le foto: guarda caso per la vittima funzionano meglio giornalisticamente quelle di una serata di baldoria, truccata e in tiro, con un sorriso accattivante, invece di quelle in cui faceva giardinaggio o bricolage.
Nessuno si azzarda a negare il diritto di quelle donne a vivere, per carità, però è lì in agguato il retropensiero che fossero magari troppo egocentriche ed esibizioniste sui social (per quale altro sguardo maschile poi, chissà); troppo indisponenti nei litigi che hanno precorso il delitto; troppo insensibili nel gestire una separazione. Alessandro Amadori, professore universitario e consulente del Governo per il progetto sull’educazione affettiva nelle scuole, è finito ora sui giornali per aver definito le donne come “cattive”, senza se e senza ma, inserendo i quadri omicidiari in una sorta di dialettica disfunzionale fra i due sessi, con le colpe degli uni e delle altre. Ciò che però lo psicologo Amadori finge di non notare, oltre alla totale inconsistenza scientifica del concetto di cattiveria, evidentemente derivata da precetti morali arbitrari, è che quest’ultima e la violenza non sono sinonimi: solo una delle due produce effetti nefasti oggettivi e misurabili, e questi effetti sono perlopiù a carico del genere femminile.
Ed è qui che torniamo al concetto di “vera” vittima, che per essere considerata tale deve aver sempre tenuto un comportamento inappuntabile e incontestabile. Non è qualcosa che si richiede nei casi di omicidio nel loro complesso, ma in quelli di femminicidio – e anche di stupro – evidentemente sì. Oltre al giudizio sulla condotta morale della donna, esistono forme più sottili: le vittime della violenza maschile devono fare di tutto per dimostrare non solo di non averla “provocata”, ma pure di averne subito un reale danno, che non si tratti solo di intransigenza o imbarazzo. Resta nella memoria l’ormai agghiacciante, ancor più per la sensibilità attuale, intervista di Enzo Biagi a Donatella Colasanti dopo l’omicidio/stupro del Circeo, con Biagi che utilizza qualsiasi domanda (anche intollerabile) per produrre una risposta emotiva in Colasanti, che tenta invece di mantenere la discussione sul piano delle argomentazioni tenendo il suo dolore per sé (alla recente vittima del stupro di Palermo non è andata comunque tanto diversamente).
Restando in tema di Circeo: nella miniserie omonima del 2022, ispirata al celebre fatto di cronaca, c’è una scena nella quale l’avvocata di Donatella Colasanti redarguisce la sua assistita per essersi fatta vedere in un bar con un ragazzo, a chiacchierare, sorridere e forse persino flirtare. Una scena che in effetti riproduce quello che viene implicitamente richiesto alle donne in questi casi, ovvero di non farsi vedere in pubblico a continuare a fare le cose che fanno sentire bene, come se una vittima di stupro potesse solo essere quello e niente altro, come se quel tipo di danno potesse solo essere irreparabile oppure inesistente; e, naturalmente, come se il percepito esterno potesse raccontare la verità su uno stato psichico, una convinzione che denuncia un’ignoranza diffusa e pericolosamente fuorviante delle strategie di coping adottate dalle persone in caso di trauma, e tale da far pensare a Beppe Grillo che a scagionare suo figlio da un’accusa di stupro bastasse il fatto che la ragazza fosse poi andata a fare kite.
Ora però arriva Giulia Cecchettin. E, a dispetto di come hanno descritto l’assassino i suoi famigliari, in effetti, la “brava ragazza” è proprio lei. In tutte le foto che la ritraggono ha un sorriso timido e fiducioso. Mai un centimetro di pelle scoperta, nemmeno un flebile ammiccamento all’obiettivo. Se dovessimo adottare un linguaggio d’altri tempi, diremmo che il suo apparire è improntato alla modestia. Inoltre, Giulia si stava giusto giusto laureando in un ambito solido e importante come l’ingegneria biomedica, dopo un diploma con il massimo dei voti. Alle spalle una rispettabile famiglia borghese, con un padre intelligente e sensibile che è riuscito miracolosamente a non dire una sola parola sbagliata rispetto a quanto accaduto a sua figlia (molto più arrabbiata invece la sorella, subito bacchettata senza pietà né riguardi da certi soloni dell’opinione pubblica). Solo un padre, perché Giulia era orfana di madre dallo scorso anno, dopo una morte prematura per malattia.
Della relazione con l’ex fidanzato Filippo Turetta non è possibile dire niente di sconveniente: nessun tradimento o relazione parallela, manco una nota piccante. Lo aveva lasciato, dopo un paio d’anni di relazione, semplicemente perché non lo amava più. Eppure era tanto gentile da continuare a frequentarlo e tollerare di vederselo apparire in ogni dove, perché lo vedeva fragile e non voleva dargli dispiacere. Lo aveva ascoltato mentre si lamentava che lei si laureasse prima di lui, gli aveva lasciato scegliere gli addobbi della festa, gli aveva anche offerto la cena al fast-food poco prima di essere uccisa. Un’eroina senza onta e senza macchia, secondo i dettami del patriarcato che ancora rinfocola sotto la cenere del comune sentire, e dunque, guarda caso, di oltre cento vittime di femminicidio dall’inizio di quest’anno in Italia, proprio lei sta dando una sferzata alla discussione pubblica nel nostro Paese, e slancio al cambiamento legislativo.
La sensazione è che tra le maglie del profondissimo cordoglio nazionale per la morte di Giulia Cecchettin, si sia insinuato anche il tronfio maschilismo di chi è convinto che le donne debbano essere perfette secondo certe regole per guadagnarsi il diritto a non subire violenza ed essere compiante senza riserve. Perché è evidente agli occhi di tutti come non sia possibile essere uccise per la sola colpa di aver lasciato un fidanzatino dell’università, ma non è altrettanto evidente come fondare le nostre valutazioni sul concetto di colpa sia aberrante. E di colpe, in quanto esseri umani, di solito ne abbiamo sempre, tutti. Alle donne che si ritrovano in una relazione violenta si rimprovera sia di essersene andate, facendo soffrire l’altro, sia di essere rimaste, ponendosi in una situazione di pericolo. E poi, naturalmente, a priori, di aver scelto proprio quella relazione abusante.
Se il recente film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, ha colpito tanto profondamente il pubblico, è perché ha dato dato voce a chi resta, essendo l’alternativa impossibile o impraticabile, e non è per questo né stupido, né debole, né sprovveduto, semplicemente cerca di fare il possibile con le carte che ha avuto in sorte. Per questo la società deve fare in modo che le generazioni presenti e future possano godere di una mano migliore. Le vittime vanno difese, non compiante. Per quanto lo sdegno per l’omicidio di Cecchettin sia il figlio non riconosciuto del patriarcato, la buona notizia è che ha già in sé i germi del suo superamento. Perché se Giulia, anche Giulia, addirittura Giulia è stata uccisa, allora è incontestabile che esista una violenza maschile che va ben oltre le supposte colpe femminili, e da esse prescinde.
Ora, a mantenere le promesse e a impegnarsi davvero, occorreranno molte riflessioni e un lungo lavoro sulle causali in campo, dalla cultura patriarcale, all’aumento di disagio mentale nella popolazione, alla crisi pedagogica ed educativa. Se andrà tutto bene, fra le motivazioni sentiremo sempre meno parlare di “raptus” e di “amore”; ma ciò che più conta è che sarà sempre più evidente nella mente di tutti come non si possa morire solo perché – per dirla con Simone De Beauvoir – non si è volute essere l’Altro di un uomo.