Nell’Italia a due velocità un’emergenza accomuna Nord e Sud: i paesi si stanno svuotando. Gli studenti abbandonano la provincia per i grandi centri urbani; c’è chi si iscrive all’università, chi cerca un lavoro, chi fa entrambe le cose. È una migrazione democratica, non fa distinzioni di ceto: benestanti o meno, tutti hanno il destino comune di lasciare la propria terra di origine, spesso per non farvi più ritorno. Nel paesino restano gli anziani. Non si parla di cifre da sottovalutare: in Italia i piccoli comuni – quelli che non superano i 5mila abitanti – ricoprono più del 50% del territorio nazionale e ospitano 10 milioni di persone, una cifra che nel corso dei decenni è calata e continuerà farlo. Di coloro che restano nei paesini, solo il 22% ha meno di 24 anni, una cifra che sale solo al 24% nei centri un po’ più grandi.
Già oggi i paesi fantasma in Italia sono un migliaio, secondo l’Istat – 6mila se si calcolano stazzi e alpeggi: si va dalla migrazione economica alle calamità naturali (frane, terremoti e alluvioni che hanno reso inabitabili certi luoghi), ma pesa sempre di più il calo della natalità. Spesso questi borghi vengono abbandonati perché mancano i servizi: nessun supermercato, banca o farmacia, non c’è traccia di scuole, non passa l’autobus, l’ospedale più vicino è a un’ora di strada. Soprattutto, mancano le opportunità lavorative. Un giovane non ha alcun motivo per restare in un luogo escluso dalla società attiva, senza prospettive nell’ambito del lavoro o degli studi. E infatti non resta. Nel 2018 Anci attestava che nei 6 anni precedenti 74mila persone avevano abbandonato i piccoli comuni.
Stando a un rapporto del dipartimento sociale ed economico delle Nazioni Unite, entro il 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà nelle aree urbane. Adesso siamo fermi al 55%, un dato che è comunque già cresciuto in modo esponenziale negli ultimi decenni. Non è un fenomeno recente, ma la naturale evoluzione dell’urbanesimo che ha caratterizzato diversi periodi della Storia, soprattutto in concomitanza con le rivoluzioni industriali. In realtà, già dal Neolitico nacque l’esigenza di vivere in zone strategiche, insediamenti più utili per la fertilità della terra e per difendersi dalle minacce esterne. L’impennata dell’urbanesimo si è però registrata a partire dal Diciottesimo secolo, in una fase storica segnata dall’aumento demografico e dalla riduzione del tasso di mortalità. Nei secoli successivi l’avvento dei macchinari agricoli privò del lavoro molti contadini, che si riversarono nelle città in cerca di nuovi impieghi. È lo stesso processo che avviene oggi, anche se in contesti diversi. Nel 1800 soltanto il 2% della popolazione mondiale viveva nelle città, mentre adesso si parla del 55%, eppure il fenomeno si lega allo stessa necessità di cercare la fortuna altrove, nelle città poi diventate metropoli e infine megalopoli. Più aumenta questa percentuale, più i paesi e le campagne vengono abbandonati.
Viviamo nell’era in cui è possibile anche lavorare da casa, grazie allo smart working sempre più diffuso che nell’arco dei prossimi anni soppianterà in diversi ambiti l’approccio tradizionale fatto di orari fissi in ufficio. Questo non sarà però possibile nelle comunità remote dimenticate dalla rivoluzione digitale. In Italia abbiamo ancora numerose zone non coperte da Internet ad alta velocità, e inevitabilmente i lavoratori “remoti” si trasferiscono dove è possibile avere una migliore connessione. Entro il 2022 Open Fiber, grazie a finanziamenti comunitari, dovrebbe però portare l’alta velocità nel 90% del Paese.
Su 8mila comuni italiani soltanto 15 superano i 200mila abitanti. Tra questi 15, 5 sono del Sud e stanno subendo un altro tipo di migrazione: quella verso il Nord. Se invece analizziamo la questione sotto la prospettiva della migrazione verso l’estero, a sorpresa gli ultimi rilevamenti indicano una grande maggioranza di italiani in fuga dalle regioni del Nord e del Centro, il 70% contro il 30% del Sud. Sono dei dati in controtendenza rispetto alle tradizioni dello scorso secolo, quando l’esodo partiva principalmente dal Meridione. La differenza sostanziale riguarda la diversa tipologia di migrazione: i giovani del Sud vanno al Nord per studiare o per trovare migliori opportunità lavorative e sfuggire ai ritardi strutturali, sociali ed economici del Meridione, mentre il Centro-Nord ha superato il Sud nelle migrazioni all’estero a partire dalla crisi economica del 2008, che ha colpito anche e soprattutto le aziende più produttive del Settentrione, che un tempo rappresentavano la solidità produttiva del Paese. Questo si è tradotto in un’ulteriore fuga al Nord. E il Nord del Nord significa estero.
È alta dunque la probabilità che nei prossimi decenni gli abitanti italiani si raggruppino in poche città, con un ulteriore svuotamento dei paesi. Per evitarlo è necessario agire adesso, e in molte regioni si stanno mettendo in campo piani per tentare di ripopolare i paesi morenti e rivitalizzare quelli già abbandonati. La Regione Molise ha messo a disposizione 700 euro mensili per chi deciderà di andare a vivere nei paesi con meno di 2mila abitanti. Per il Molise questa misura interessa 100 dei suoi 136 comuni. Si tratta di un vero e proprio reddito di residenza, garantito a condizione di restare nel paese scelto almeno cinque anni, prendervi la residenza e avviare un’attività commerciale. Rispetto al reddito di cittadinanza qui non c’è traccia di assistenzialismo: è un tentativo di ripopolare e rivitalizzare economicamente alcune zone invisibili del nostro Paese. Un’altra iniziativa che nasce con lo stesso scopo è quella chiamata Case a un euro. Nata a Salemi, in Sicilia, dalla proposta dell’allora sindaco Vittorio Sgarbi, prevedeva l’affido delle strutture danneggiate dal sisma del 1968 per tentare un recupero urbanistico della cittadina. Questo esempio è stato poi seguito in diverse regioni, con l’obbligo per gli acquirenti di restaurare gli edifici. Il canale televisivo olandese RTL Nederland è stato colpito da questa iniziativa a tal punto da realizzare un reality show seguendo le vicende di dieci coppie che hanno acquistato una casa nel paese sardo di Ollolai e sono andate a viverci.
Il problema è che le stime delle Nazioni Uniti sulle migrazioni verso le città tengono conto anche di queste iniziative, che quindi non rappresentano una cura ma un modo – per quanto lodevole – di arginare i danni di una crisi che sembra irreversibile. In Italia, dal 1988 è sparito 1 comune su 4 per carenza di abitanti. I rimedi estemporanei, come ospitare i turisti creando una rete di alberghi diffusi, non possono mettere un freno a processi che la politica e le amministrazioni non sono riuscite a fermare. Il primo tentativo è stato fatto con la legge 991 del 1952, che prevedeva erogazioni di mutui per miglioramenti agricoli e per l’artigianato, oltre interventi di bonifica nei borghi montani. Poi è arrivata la legge 1102 del 1971, con le agevolazioni fiscali per i passaggi di proprietà dei fondi rustici e la creazione delle comunità montane. Anche nel 1981 e nel 1994 la politica ha provato a ravvivare le zone a rischio spopolamento. L’ultimo tentativo risale al 2017, con i 100 milioni di euro stanziati dalla legge Bosetti e Gatti per risollevare i comuni con meno di 5mila abitanti. A 68 anni dai primi interventi possiamo dire che tutto questo impegno non è servito quasi a niente.
La lungimiranza della politica si limita al problema del piccolo paesino e non considera che è la conseguenza di una criticità molto più ampia. In Italia i comuni sotto i 5mila abitanti sono 5.488, quindi i 100 milioni di euro previsti dalla legge corrispondono a poco più di 18mila euro a comune. La politica dovrebbe incentivare i giovani a restare, migliorando i trasporti e le connessioni digitali, in modo da ridurre il senso di isolamento che spesso accompagna chi vive in centri distanti poche decine di chilometri dalle grandi realtà urbane. Ma se lo Stato non riesce a impedire la fuga dei giovani all’estero, è difficile immaginare che possa davvero rendere accattivanti senza servizi e prospettive per il futuro. Se poi allarghiamo l’orizzonte e intuiamo l’entità del fenomeno, che riguarda l’intera popolazione mondiale e non soltanto l’Italia, capiamo che forse persino la nostra politica da sola è davvero impotente di fronte all’urbanesimo 2.0. Questo non può però essere un alibi, dato che il prezzo da pagare rischia di essere una velocità di spopolamento doppia rispetto a tanti altri Paesi afflitti dallo stesso problema. Non possiamo costringere i giovani a restare a Bertinoro, a Letojanni o a Montepulciano – luoghi tanto meravigliosi quanto poco attraenti a livello lavorativo – ma abbiamo il dovere di dare loro la possibilità di scegliere. Quella che da decenni non hanno più.