Negli ultimi anni si è parlato sempre più spesso di recessione sessuale. Nel 2018 un articolo dell’Atlantic intitolato “Perché i giovani fanno così poco sesso?” sollevò un importante dibattito, riportando vari dati di natura sociologica, psicologica, demografica e statistica che facevano riferimento a studi condotti in Europa, America e Asia e segnalavano univocamente un calo dei rapporti sessuali e delle relazioni intime, soprattutto tra i giovani. Il Giappone risultava come il Paese in cui gli indicatori della recessione sessuale erano più elevati, ma molti altri Stati sono sulla stessa strada.
Ad esempio, negli Stati Uniti in questi ultimi trent’anni la quota di ragazzi che ha avuto esperienze sessuali durante le scuole superiori è diventata una minoranza; mentre in Europa l’età media del primo rapporto sessuale è aumentata di più di anno. Per quanto riguarda l’Italia, uno studio del 2020 delle Università di Firenze e Catania condotto su 1.515 giovani ha mostrato che il 53% di questi non era sessualmente appagato. In questo ultimo studio si dice che negli ultimi decenni le relazioni sentimentali tra adolescenti sembrano essere diventate meno comuni. L’unico dato in controtendenza è quello che segna l’aumento dell’autoerotismo e della fruizione di pornografia. Infatti, nel 2012 lo studio finlandese Finsex ha rilevato una diminuzione della frequenza dei rapporti sessuali, insieme a un aumento dei tassi di masturbazione, sostenuta ulteriormente dalla pandemia. La recessione sessuale, dunque, sembra sia più essere una crisi delle relazioni umane, piuttosto che una rinuncia totale verso il piacere.
Questo fenomeno è comunque un importante punto di riflessione essendo il sesso considerato un bisogno fisiologico primario, al pari del mangiare, bere e dormire. La sessualità, inoltre, svolge un’importante funzione sociale, al di là di quella riproduttiva in senso stretto. La mancata soddisfazione del bisogno sessuale, secondo Irenäus Eibl-Eibesfeld – discepolo di Konrad Lorenz e fondatore dell’etologia umana – implicherebbe per forza di cose una pesante ipoteca non solo sul benessere psicofisico individuale dell’essere umano, ma anche sul benessere collettivo della società. Nel saggio Amore e odio, del 1970, l’etologo austriaco scriveva: “ogni rimozione [nel campo sessuale] porta a una intensificazione dell’aggressività” e non a caso anche l’Atlantic esprimeva preoccupazione riguardo le conseguenze politiche della solitudine e dell’alienazione, prendendo ad esempio l’odio on-line e la violenza nella vita reale perpetrata dai cosiddetti incel, uomini che affermano di essere involontariamente celibi. Trovare una spiegazione a questo fenomeno non è quindi cosa da poco conto.
Alcuni studiosi vedono come causa principale della crisi della sessualità il sistema capitalista. Le forze del mercato, d’altronde, sembrano aver influenzato da sempre la vita erotica di interi popoli. Bisogna considerare, infatti, che il comportamento umano è determinato in minima parte dagli istinti e in massima parte dalla cultura. Come spiegava nel 1859 Karl Marx nel saggio Per la critica dell’economia politica, la cultura è in stretta relazione con il sistema economico nel quale gli uomini si trovano a dover vivere. Che il capitalismo avesse influssi negativi sulla sessualità lo aveva già detto nel 1955 Herbert Marcuse in Eros e civiltà in cui, commentando le posizioni di Freud, scrisse che la società capitalista è infelice sessualmente perché il lavoro è diventato generale, così come le restrizioni imposte alla libido: le ore di lavoro che costituiscono la parte maggiore della vita dell’individuo sono ore penose, poiché la fatica del lavoro alienato significa assenza di soddisfazione, negazione del principio di piacere. La libido è insomma stata “deviata” per consentire prestazioni utili e aumentare la produttività e il conflitto tra sessualità e civiltà si è acuito con lo sviluppo del capitalismo.
Come espresso nel 1959 dal sociologo Robert King Merton in Teoria e struttura sociale, dato che il lavoro è centrale nella vita umana, è chiaro che le aspirazioni personali degli uomini, gli interessi e i sentimenti siano largamente organizzati e contrassegnati dalle caratteristiche proprie delle loro occupazioni. Analizzando il tardo capitalismo, si spiega molto chiaramente il ritiro dalla sessualità condivisa da parte dei giovani. La società capitalista si basa infatti sul lavoro salariato e la proprietà privata dei mezzi di produzione. La stessa vita umana, la sua forza-lavoro, è una merce che i capitalisti acquistano sul mercato del lavoro. I suoi principi sono l’individualismo e la competizione. Il suo scopo è il possesso più grande possibile di denaro. La società capitalista – come aveva già affermato Marx – non può essere coesa, perché gli individui che la compongono vivono in una condizione di costante lotta di tutti contro tutti, e non hanno nulla in comune da gestire. La cultura della mancanza di relazioni si mostra così come un aspetto dell’alienazione caratteristica del capitalismo.
La psicologa Alexandra Solomon a questo proposito ha affermato che insieme al neoliberismo si è andata affermando una cultura “anti-romantica”, definita “cultura della mancanza di relazioni” e ciò spiegherebbe perché la recessione sessuale non venga invertita neanche dall’uso di app di incontri tipo Tinder. Nel momento in cui i posti di lavoro sono sempre meno, i salari ristagnano, le prospettive per il futuro sono incerte e la competizione aumenta, la società si disgrega, il desiderio erotico si rattrappisce e si sviluppa una mentalità anti-romantica, individualista e utilitarista, in cui la sessualità recede in secondo piano, siccome la quotidiana lotta per l’esistenza diventa prioritaria. Come spiegato da Mauro Magatti sul Corriere della Sera per inquadrare il “ritiro dal mondo” dei giovani, di cui la recessione sessuale è un aspetto, “i ragazzi crescono in un ambiente fortemente competitivo e performante in cui bisogna sempre essere all’altezza non solo sul lavoro, […] ma nella vita, nell’aspetto fisico, nelle relazioni e perfino nel sesso” e ciò genera ansia e senso di inadeguatezza che porta a chiudersi in se stessi. Mentre la professoressa Solomon ha concluso che i suoi allievi avessero “assorbito l’idea che l’amore fosse secondario rispetto al successo accademico e professionale o, in ogni caso, che è meglio ritardare fino a quando queste altre cose non saranno state assicurate”. D’altronde ormai non servono più dati per dimostrare l’attuale condizione di precarietà giovanile.
A questo proposito, l’etnografa Kristen Ghodsee, nel suo libro Why Women Have Better Sex Under Socialism and other arguments for economic independence, riporta una ricerca antropologica condotta nel 1990, a seguito della riunificazione tra la Germania Ovest, capitalista, e quella dell’Est, a economia pianificata, a proposito della vita sessuale delle donne al di qua e al di là del Muro di Berlino. Da questo risultava che le donne orientali avessero avuto il doppio degli orgasmi delle donne occidentali e che in generale queste ultime facevano meno sesso e meno soddisfacente rispetto alle donne che dovevano fare la fila per i beni di prima necessità. Ciò viene spiegato col fatto che per quanto lo stalinismo fosse un regime dispotico e contraddittorio nella DDR i comunisti investivano grandi risorse nell’istruzione e nella formazione delle donne e nel garantire il loro impiego, e ciò evitava i timori rispetto al futuro determinando una certa indipendenza. Questo creava a Est le condizioni favorevoli all’eros, perché “anche la migliore stimolazione non aiuta la donna a raggiungere il piacere se questa è stressata o oberata di lavoro, preoccupata per il futuro e la sua stabilità finanziaria”. Gli studi che dimostrano un nesso tra oppressione sociale e riduzione dell’appagamento sessuale, d’altronde, sono tanti.
Nel 2015 uno studio dell’Università di Tokyo condotto dal ricercatore Peter Ueda per spiegare gli alti tassi di asessualità, verginità, e astinenza tipici del Giappone è arrivato allo stesso modo alla conclusione che c’è una chiara associazione tra reddito e verginità tra gli uomini, indicando come i fattori socio-economici giochino un ruolo fondamentale rispetto alla sessualità. Precedenti studi al di fuori del Giappone indicherebbero infatti che un reddito alto e stabile sia determinante per essere attraenti nel “mercato dell’accoppiamento”. Allo stesso tempo, sembra che la recessione sessuale del Giappone sia legata ai tradizionali lunghi turni di lavoro associati al fatto che negli ultimi anni le opportunità di impiego stabili siano drasticamente diminuite.
In definitiva, possiamo dire che le cause materiali della recessione sessuale, come la mancanza di spazi e tempo per il sesso, si legano alle cause psicologiche, il disinteresse per l’altro, l’ideologia della competizione, il principio di prestazione, e sono espressione del funzionamento del mercato. Constatando lui stesso tale recessione sessuale, l’allora ministro della Salute svedese Gabriel Wikstom disse: “Se le condizioni per una buona vita sessuale si sono deteriorate – ad esempio a causa dello stress e di altri fattori malsani – si tratta di un problema politico”. Il nome di questo problema è capitalismo. Una sessualità libera, aperta e votata al piacere – e non un suo surrogato limitato e distorto – nell’attuale sistema socio-economico sembra essere un lusso irraggiungibile per milioni di giovani. Ma l’ideologia neoliberista non è un dato di natura, il destino dell’essere umano non è certo quello di subire turni massacranti di lavoro o la disoccupazione, queste sono “solo” espressioni del suo modo squilibrato di funzionare, e in quanto tali possono essere modificate, a favore di forme economiche centrate sul benessere collettivo-individuale. A questo proposito sembrano esserci buone speranze.