Secondo i dati di Eurostat, l’ufficio di statistica dell’Ue, l’Italia è il Paese più vecchio dell’Unione Europea. C’è però il paradosso che porta a considerare giovane chiunque non sia anziano, spesso per fini discriminatori o come conseguenza di una società paternalistica. Abbiamo dunque “il giovane scrittore” quarantenne e lo stagista trentenne che è ancora troppo acerbo e con poca esperienza per fare un salto lavorativo, e anche gli appellativi per chi “ce l’ha fatta” suonano come una deminutio per questioni anagrafiche o di genere. Durante i primi giorni della pandemia ci furono commenti sui giornali e sui social riguardo “le ragazze dello Spallanzani”, ovvero le tre ricercatrici che per prime hanno isolato il SARS-CoV-2. Tralasciando il dettaglio non indifferente che stiamo parlando di tre scienziate, le donne in questione all’epoca avevano 30, 56 e 67 anni.
Forse è necessario capire la definizione di “giovane” e come sia cambiata nel tempo. Nel 1981, con la risoluzione 36/28 l’Assemblea generale dell’ONU definì “youth” chiunque avesse tra i 15 e i 24 anni. A distanza di pochi decenni il programma Human Settlements delle stesse Nazioni Unite ha allargato notevolmente questo range, passando a un’età tra i 15 e i 32 anni. Non c’è un’uniformità globale e solo pochi Stati hanno fissato i paletti per questa definizione. L’Unione Europea considera formalmente “giovani” coloro che vengono inclusi nei suoi progetti e rientrano tra i 18 e i 30 anni. Viviamo però in un’epoca in cui i ventenni affrontano ancora la coda dell’adolescenza e i trentenni si sono appena affacciati sul mondo e questo a causa di una società modellata dai nostri padri e ancorata appunto a un paternalismo – per non dire nonnismo – generalizzato che penalizza i figli anche quando sono già adulti. Per cui sul piano professionale ci si rifugia sotto il termine “gavetta” per giustificare lo sfruttamento e la precarietà e su quello sociale si tende a deresponsabilizzare le nuove generazioni con meccanismi di privazione di autorità. Se il “mezzo del cammin di nostra vita” ai tempi di Dante era intorno ai trentacinque anni, adesso a quell’età vieni trattato come se odorassi ancora di latte.
Nei giorni in cui Elly Schlein è stata eletta nuova segretaria del Partito Democratico, i media si sono sbizzarriti parlando della sua “giovane età”, come se fosse una ragazzina. Ha invece trentotto anni, gli stessi che aveva Matteo Renzi quando ricoprì la stessa carica. Sappiamo che per il genere femminile la discriminazione è ancora superiore, e va aggiunto che per la politica italiana si tratta di un’età relativamente bassa, ma una trentottenne deve comunque essere considerata una donna. Rispetto al passato la discrepanza, soprattutto percettiva, legata all’età è enorme. Alessandro Magno morì a 32 anni, Napoleone Bonaparte divenne imperatore a 35, Antonio Gramsci fu segretario del Partito Comunista d’Italia a 33 anni, eppure nell’immaginario collettivo continuiamo a ricordarli come adulti. Questo vale anche negli altri campi che non siano la politica e in tempi più recenti. Quando si sciolsero i Beatles, dopo aver rivoluzionato un’epoca, Paul McCartney aveva 28 anni e John Lennon 30, ed erano considerati ormai dei veterani della musica. È cambiata anche visivamente la figura del giovane. Un trentenne degli anni Cinquanta dello scorso secolo, nelle foto che vediamo adesso, risulta molto più maturo di un suo coetaneo odierno. I soldati durante le guerre mondiali del Novecento hanno tuttora un’attitudine da adulti, quando erano per la maggior parte dei diciottenni mandati al fronte per quella che, usando le parole dello scrittore Kurt Vonnegut, era la “crociata dei bambini”. Certi aspetti sono anche fisiologici, considerato l’aumento dell’aspettativa di vita, ma è come se nella “società liquida” l’individualismo coincidesse con la condanna di restare giovani per sempre.
La paura di invecchiare è un fenomeno che comporta accorgimenti estetici, chirurgici e anche psicologici per cercare l’eterna giovinezza. E se l’esercito dei Peter Pan non vuole arrendersi all’incedere del tempo, c’è chi invece vorrebbe smarcarsi dalla nomea di giovane, in quanto usata molto spesso dalle precedenti generazioni esclusivamente per sminuire chi è venuto dopo. Abbiamo quindi i padri che lottano per fermare il tempo e tornare giovani, e allo stesso tempo vogliono intrappolare i figli in quella condizione da puer aeternus. Padri che sono cresciuti nell’epoca del posto fisso, che vedevano la costruzione di una famiglia come qualifica per determinare la propria realizzazione adesso definiscono “bamboccione” chi non riesce a ottenere il loro stesso status senza accorgersi di come il mondo sia cambiato. Il posto fisso è una chimera, mettere su famiglia richiede un dispendio economico e mentale non indifferente, e soprattutto non è più un parametro per identificare un traguardo di vita: c’è chi legittimamente non vuole dei figli o preferisce vivere solo, senza sentirsi per questo meno completo. Rispetto agli scorsi decenni, inoltre, il percorso di studi è molto più lungo per via della crescita esponenziale dell’alfabetizzazione. Si allontana dunque l’età in cui si comincia a lavorare, e spesso anche dopo laurea, master ed eventuale dottorato si vive alla costante ricerca di un lavoro degno delle proprie qualifiche, barcamenandosi in un’odissea di stage, tirocini e ricerche infruttuose. È quindi la stessa struttura della società a imporre a ventenni e trentenni la condizione di giovani, poiché non hanno i mezzi per misurarsi con la vita adulta.
L’appellativo di giovane può andar bene per un quindicenne, non per un trentenne. Forse dovremmo proprio modificare il nostro vocabolario, smettere di definire giovane chi non lo è più e che per questioni anagrafiche non dovrebbe esserlo, pur restando comunque in quella stessa – peraltro ingiusta – condizione di esclusione sociale. All’autocritica dei padri, le rare volte in cui avviene, poi dovrebbe essere necessario aggiungere anche la nostra, in quanto la condizione di eterni giovani può essere utile come giustificazione per schivare le responsabilità. Gli ostacoli sociali ci sono, non possono essere nascosti, ma mi pare che anche la mia generazione si sia un po’ adagiata nel vittimismo degli eventi, rifiutando di scucirsi di dosso l’etichetta del giovane per convenienza personale. D’altronde, forse ci siamo davvero trasformati negli “sdraiati”, con i social che hanno contribuito ad anestetizzare certi impeti, lo slancio di chi dovrebbe prendersi i suoi spazi e i suoi ruoli all’interno della società. C’è dunque una corresponsabilità tra padri e figli, ma il punto di partenza per cambiare questo andazzo dovrebbe essere un punto d’incontro sulla classificazione anagrafica. Noi dobbiamo accettare di non essere più giovani a trent’anni, e i nostri padri devono concederci gli strumenti per poter dismettere questo ruolo e crescere.
Se ci fosse una soluzione pratica, immediata, non saremmo qui a parlare di una crisi generazionale e dei travagli degli under 40 in un mondo che non è stato disegnato a loro misura. Ridefinire il concetto di giovane è però il primo passo per una società più equa, per responsabilizzare chi viene incautamente definito immaturo e per dare il giusto credito a chi lotta per la propria indipendenza. Ed evitare i compromessi come l’ossimorico “giovane adulto”, perché una denominazione esclude l’altra. Io mi trovo in quell’età in cui Dante si inoltrava nella selva oscura, eppure non solo vengo considerato un giovane: mi ci sento. E non perché non abbia figli o capelli bianchi, ma perché il mondo attorno a me mi ha convinto di non aver fatto quello step necessario per entrare nell’età adulta. Ho tre anni meno di Elly Schlein, quindi se lei viene considerata giovane il mio cervello lavora inconsciamente per non annettermi al “mondo dei grandi”, pur facendone già parte in teoria. È la comunicazione standardizzata a impormi questa condizione, mettendomi nello stesso calderone con chi è appena uscito dalle superiori. Sarà la fobia collettiva della vecchiaia, il paternalismo di chi non vuole cedere il proprio posto, la giustificazione perfetta per affrontare le responsabilità con più leggerezza, ma di fatto siamo ingabbiati nella giovinezza ad interim: ne assumiamo le funzioni fingendo di non essere mai adulti, in attesa di diventare anziani nel Paese più anziano d’Europa.