Con un decreto che entrerà in vigore il 7 aprile, il consiglio dei ministri ha imposto l’obbligo vaccinale per il personale sanitario. La mancata vaccinazione contro il Covid-19 “determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali”, che si concretizza nel trasferimento in un nuovo reparto o, se non fosse possibile, nella sospensione temporanea dello stipendio fino al termine della campagna vaccinale. La ratio del provvedimento è chiara: si cerca di trovare un equilibrio tra la libertà personale di non sottoporsi alla vaccinazione e la necessità del servizio pubblico di avere personale vaccinato che possa svolgere il lavoro richiesto soddisfando i requisiti necessari. Sei libero di decidere di non vaccinarti, ma non sei più idoneo a svolgere le stesse mansioni di prima. Sarebbe bello se lo stesso rigore si applicasse anche a un’altra forma di obiezione, che anche una volta conclusasi la pandemia continuerà a essere un problema: l’obiezione di coscienza all’interruzione di gravidanza.
I numeri dell’obiezione in Italia – regolata dall’articolo 9 della legge 194, che nel 1978 ha depenalizzato l’aborto – sono infatti tra i più alti d’Europa. Secondo l’ultima relazione del ministero della Salute presentata al Parlamento a luglio 2020, con dati riferiti al 2018, il numero dei ginecologi obiettori è del 69%, in aumento rispetto all’anno precedente. Oltre ai ginecologi, resta alto il numero degli obiettori anche fra gli anestesisti (46%) e fra il personale non medico (42%). Sebbene la legge preveda l’obiezione solo per il personale direttamente coinvolto nelle procedure dell’Ivg, esiste un fenomeno che si potrebbe definire “obiezione sommersa” e che riguarda infermieri, farmacisti e persino operatori socio-sanitari non coinvolti negli interventi che, ad esempio, rifiutano di somministrare antidolorifici o di portare i pasti alle donne ricoverate che hanno interrotto la gravidanza. L’obiezione tocca punte del 92% in Molise e dell’87% a Bolzano e supera l’80% in Abruzzo, Puglia, Basilicata e Sicilia. Le regioni più virtuose sono invece l’Emilia Romagna con il 52,5%, il Friuli Venezia-Giulia con il 53% e la Toscana con il 58%. Come sottolinea la relazione, esistono ancora forti disparità a livello territoriale, che fanno sì che molto spesso le donne debbano cambiare provincia o regione per interrompere la gravidanza. Nel Sud Italia, il 22% degli interventi si svolge in una città diversa da quella di residenza dell’assistita. Il 19% delle donne dalla Basilicata e il 17% dall’Umbria si spostano addirittura in un’altra regione.
La gravità della situazione è stata ribadita di recente anche dal Comitato europeo per i diritti sociali, un organo del Consiglio d’Europa che vigila sull’applicazione della Carta sociale europea. Il Comitato ha infatti reso pubblica una nuova valutazione a seguito di una denuncia del 2013 da parte della divisione europea di Planned Parenthood nei confronti dello stato italiano. Secondo il Comitato, in sette anni la situazione non è cambiata e non solo permangono disparità nelle varie regioni, ma la relazione del ministero della Salute non dà conto di alcuni dati importanti per capire quale sia la reale situazione, come ad esempio il numero di Ivg che sono state eseguite in un altro ospedale proprio a causa del numero di medici obiettori di coscienza presenti in una struttura. Secondo il Comitato, l’Italia viola l’articolo 11 della Carta, “ogni persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che le consentano di godere del miglior stato di salute ottenibile” e l’articolo E, riferito alla non discriminazione.
È chiaro ormai che la legge 194/78, vicina al suo 43esimo anniversario, non sia più adeguata ai tempi. Il paradosso è che l’obiezione di coscienza, introdotta per tutelare la libertà religiosa, negli anni sta aumentando anziché diminuire, nonostante gli italiani siano sempre meno credenti e praticanti. La legge 194 fu infatti approvata in un momento politico difficile per l’Italia, dopo una battaglia portata avanti soprattutto dal Movimento di liberazione della donna (MLD) dal 1975, anno in cui a Firenze vennero arrestate e processate 40 donne che avevano interrotto la gravidanza al Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto (CISA), insieme al segretario del Partito Radicale Gianfranco Spadaccia, alla fondatrice del Centro Adele Faccio e a Emma Bonino. Il testo approvato, nel pieno del caso Moro, conciliava le proposte di liberalizzazione di socialisti e radicali con gli emendamenti pro-vita della Democrazia cristiana. Fu proprio l’obiezione di coscienza a permettere alla legge di essere approvata, pur con molte difficoltà, con 308 voti favorevoli e 275 contrari. Da un lato, accontentava la Dc, dall’altro tutelava i medici in servizio che all’entrata in vigore della legge avrebbero potuto avere delle rimostranze nel mettersi a praticare aborti.
Il problema, però, è che nonostante la legge preveda che “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste” di fatto questo non accade. Non c’è infatti alcun argine concreto all’obiezione di coscienza: nulla vieta che una struttura sia formata da personale 100% obiettore (visto che la stessa legge prevede che la mobilità del personale sopperisca alla mancanza di personale non obiettore) e non esiste alcun obbligo di assumere una certa percentuale di personale disposto a praticare aborti. Non esiste, insomma, nessuna forma di compensazione nei confronti della collettività per il disservizio causato da chi obietta.
Negli anni della leva obbligatoria, un obiettore di coscienza “riparava il danno” della sua obiezione svolgendo il servizio civile, così come previsto dalla legge Marcora del 1972. Un medico che oggi rifiuta per sua scelta, discutibile ma considerata legittima, di vaccinarsi contro il Covid-19, verrà allontanato dal contatto con i pazienti perché la sua decisione causerebbe potenzialmente un danno alla struttura, ai pazienti e a sé stesso. Allo stesso modo, i ginecologi obiettori che si rifiutano di praticare aborti non compiono soltanto una scelta individuale, ma arrecano un danno non solo alle donne che per causa loro avranno molte più difficoltà a interrompere una gravidanza, ma anche ai colleghi che dovranno assolvere il compito a cui si stanno sottraendo. Tutto ciò quindi accade senza che vi sia alcun cambiamento nella carriera dell’obiettore: anzi, è risaputo che chi non obietta spesso viene ostracizzato o ha difficoltà a far progredire la propria carriera. Questo spiegherebbe anche perché in un Paese sempre meno religioso i numeri degli obiettori sono in continua crescita.
A differenza di altri Paesi in cui l’obiezione non è illimitata, ma compensata, in Italia il servizio dell’Ivg sembra essersi incagliato su questa prerogrativa. Uno studio comparativo dell’Harvard School of Public Health e del Centro per la salute e i diritti umani “François-Xavier Bagnoud” ha messo a confronto la situazione dell’obiezione in quattro Paesi europei che la prevedono per legge: Inghilterra, Norvegia, Portogallo e Italia. Le conclusioni dello studio evidenziano come in Inghilterra, Norvegia e Portogallo vi siano diversi fattori che rendono la possibilità di obiettare irrilevante rispetto all’efficienza del servizio di interruzione di gravidanza: in Inghilterra e in Norvegia, ad esempio, non c’è bisogno di ottenere un certificato medico per accedere al servizio, fattore che da solo riduce un possibile incontro con un obiettore. In Portogallo, dove l’Ivg è stata depenalizzata soltanto nel 2007, il certificato è necessario, ma per legge gli obiettori non possono effettuare i colloqui per rilasciarlo, cosa che invece accade in Italia. In Inghilterra – unico Paese tra i quattro a non prevedere una dichiarazione scritta della propria obiezione di coscienza – è però attivo un sistema di monitoraggio del servizio che sanziona le cliniche inadempienti. Un altro importante argine all’abuso dell’obiezione sono poi le regole di assunzione di personale non obiettore, esistenti in tutti Paesi con l’eccezione dell’Italia. Secondo le autrici dello studio, è necessaria maggiore chiarezza su chi può fare obiezione e in quali fasi del servizio, nonché un accesso più semplificato alla procedura, senza troppi rinvii tra i diversi specialisti. Anche incentivare l’aborto farmacologico, che prevede un coinvolgimento meno diretto del personale sanitario, è altrettanto importante. Ma, ancora una volta, l’Italia rappresenta un paradosso: il nostro Paese ha infatti eliminato il ricovero obbligatorio per l’aborto farmacologico soltanto a settembre 2020, eppure diverse regioni, tra cui il Piemonte, le Marche e l’Abruzzo, si stanno attivando attraverso circolari interne per respingere le nuove linee guida.
Essere parte di una democrazia non significa disporre di libertà illimitate senza assumersi alcuna responsabilità nei confronti degli altri, a maggior ragione se si sceglie di diventare un medico del servizio pubblico. L’obbligo vaccinale per il personale sanitario si è reso necessario per la tutela della collettività di fronte a una situazione eccezionale come quella della pandemia, lo stesso principio dovrebbe valere per i ginecologi, in modo da tutelare tutte quelle donne che devono interrompere una gravidanza e hanno diritto di farlo nel rispetto della loro dignità.