Da alcuni mesi capita di sentire da parte dei gilet gialli e di tutti quei leader politici che pensano di cavalcare il loro movimento, ma anche da parte di alcuni giornalisti e commentatori, idee approssimative circa ciò che la democrazia dovrebbe essere.
Nel nome del popolo
Alcuni affermano da mesi [ndr. il pezzo è stato pubblicato nel dicembre 2018] che “i gilet gialli sono il popolo” e questa è una semplificazione problematica sotto diversi punti di vista. All’interno di un sistema democratico, “il popolo” è la comunità formata dall’insieme dei cittadini, e si tratta di un’astrazione, di un concetto che permette di concepire il vivere in comune.
Resta però da capire ciò che il popolo vuole e, per convenzione, per saperlo si utilizza il suffragio universale. Alle presidenziali francesi del 2017, si sono recati alle urne 37 milioni di cittadini: possiamo anche ribadire l’importanza dell’astensionismo e del voto bianco e nullo, ma 37 milioni sono un numero 100 volte più grande rispetto anche alla più importante delle mobilitazioni dei gilet gialli.
Il sistema maggioritario è un’approssimazione di ciò che il popolo “vuole”. In Francia, almeno per certe elezioni, e principalmente per le presidenziali, il metodo di scrutinio conta sul fatto che in qualche modo si palesi una maggioranza. Al secondo turno gli elettori vengono costretti a scegliere tra due candidati soltanto, in modo che il vincitore possa dire di essere stato eletto dalla maggioranza. Anche questa è un’illusione, ma gli elettori accettano le regole del gioco e allo stesso modo confermano il risultato delle elezioni parlamentari, in quanto sanno che – almeno in Francia – l’esistenza di una maggioranza chiara è indispensabile al corretto funzionamento delle istituzioni e alla gestione della cosa pubblica.
Di certo questa maggioranza è un po’ artificiale, ed Emmanuel Macron ha senza dubbio dimenticato il fatto che è stato eletto anche perché numerosi cittadini l’hanno votato, prima di tutto, per opporsi a Marine le Pen. Inoltre, la democrazia non si estingue solo nel voto, e la maggioranza non può imporre qualsiasi cosa. I cittadini dovrebbero potersi esprimere anche tra un’elezione e l’altra: per questo motivo la democrazia garantisce il diritto di parola, di impegnarsi in un partito, un sindacato o un’associazione, di manifestare, di scioperare, di firmare una petizione. Inoltre, i diritti delle minoranze devono essere difesi dalla Costituzione, dalla legge e dalle autorità.
Saper distinguere le rivendicazioni legittime
In Francia, la democrazia resta prevalentemente fondata sulla rappresentazione. Il meccanismo della partecipazione democratica gioca un ruolo modesto, i corpi intermedi sono tradizionalmente guardati con sospetto, i giudici hanno un’influenza relativamente modesta e quindi i rappresentanti eletti hanno grande autonomia d’azione. In realtà, i deputati non sono chiamati a rappresentare i loro elettori, ma tutta la nazione, mentre il Presidente dispone di importanti prerogative, con un approccio alla propria funzione molto gollista, per non dire bonapartista.
La crisi dei gilet gialli è senza dubbio l’occasione per ripensare tutto questo e dare più peso a meccanismi democratici partecipativi e deliberativi. Rappresenta anche una sana messa in guardia per tutti i politici che hanno indugiato troppo nell’astrazione, impedendo alle persone di comprendere a fondo certe misure. La riforma dell’Isf (Impôt de solidarité sur la fortune, una sorta di tassa sul patrimonio, ndr.), l’abbassamento dell’Apl (Aide personalisée au logement, un sussidio per l’affitto, ndr.), l’aumento della Csg per i pensionati (Contribution sociale généralisée, un’imposta per il sostegno delle politiche sociali, ndr.), l’imposizione del limite di 80km/h o le tasse sulla benzina sono decisioni che hanno suscitato forti recriminazioni, rimaste inascoltate in nome dell’idea che il Presidente dovesse continuare sulla sua strada, in quanto aveva un progetto chiaro per la Francia e gli era stato conferito un mandato per attuarlo.
Una minoranza, seppure molto attiva e sostenuta dall’opinione pubblica, non può sostituirsi alla maggioranza e cancellare il risultato delle elezioni. I gilet gialli sono un movimento ampio, ma non hanno mai raccolto più di 300mila persone per le strade. Una folla non fa il popolo, 300mila persone non possono decidere per il popolo.
Che fare, quindi, se 300mila persone marciano per richiedere l’interdizione della caccia, e la settimana dopo altrettante manifestano in sua difesa? Quando coloro che si opponevano al matrimonio omosessuale hanno sfilato per le strade in massa, anche per un periodo di tempo piuttosto lungo, il governo avrebbe dovuto ritirare la legge? Come si fa a distinguere tra le rivendicazioni legittime, che devono essere tenute in considerazione, e tutte le altre?
Nel caso dei gilet gialli, il governo avrebbe dovuto rendersi conto molto prima del malcontento di una parte sostanziale dell’elettorato. Le prime reazioni – o la loro assenza – non hanno fatto che versare benzina sul fuoco, e accrescere tra i cittadini attivi la sensazione di essere isolati, non considerati. Ciò non toglie che, in una democrazia rappresentativa, non si può lasciare che la strada governi, altrimenti qualsiasi riforma – che generalmente produce dei vincenti, che si acquietano, e dei perdenti, che si mobilitano – sarà impossibile.
La logica del “tutto o niente”
Un altro problema è: come si integra la violenza in questa equazione? Una manifestazione violenta è più o meno legittima rispetto a una pacifica? Alcuni pensano che la violenza sia un indice del grado di malcontento dei manifestanti (della loro “esasperazione”, diranno i loro sostenitori) e che il governo ha il dovere di ascoltare di più le istanze dei cortei. Ma, ancora una volta, si può governare un Paese in questo modo?
Ciò che caratterizza il movimento dei gilet gialli, dal primo giorno, è il travisamento delle regole abituali della mobilitazione pubblica, che dovrebbe avvenire tramite un insieme di strumenti democratici e pacifici: petizioni, dibattito pubblico sulla stampa, manifestazioni (dichiarate e autorizzate), dialogo con i rappresentanti eletti, scioperi.
Il movimento aveva trovato nel gilet giallo un simbolo particolarmente efficace per la mobilitazione: ciascun automobilista ne era fornito, era facile da indossare o da mettere in mostra sul proprio cruscotto in segno di solidarietà. Ma coloro che hanno iniziato il movimento, a un certo punto hanno scelto di sostituire questo simbolo con azioni illegali: manifestazioni non autorizzate, cortei in cui mancavano responsabili e forze dell’ordine, blocco delle strade e dei negozi, violenza nei confronti degli automobilisti scettici e contro le forze dell’ordine, vandalismo e incendi volontari.
Inoltre, per principio, hanno rifiutato di incontrare i rappresentanti dello Stato e hanno provato a imporre le loro rivendicazioni in maniera unilaterale, attraverso la logica del “tutto o niente”. Se qualsiasi altra organizzazione – movimento politico, sindacato, associazione o collettivo che fosse – si fosse resa colpevole anche solo di un decimo degli abusi commessi dal movimento dei gilet gialli sarebbe stata senza dubbio sciolta in tempi brevi. In questo caso, invece, regna l’impunità poiché il movimento non ha una struttura né dei rappresentanti ufficiali: ciascuno può improvvisarsi portavoce di fronte a media particolarmente compiacenti o iniziare scontri sui social media senza però farsi carico della minima responsabilità.
La questione della violenza, nodo del conflitto
Alcuni commentatori relativizzano questa violenza strutturale. Si oppongono alla violenza del governo, che strangola le classi lavoratrici attraverso le tasse e si mostra arrogante, ma meno a quella dei manifestanti. Mettono a paragone gli abusi dei gilet gialli con quelli degli ultras del calcio la sera di una vittoria o a quelli che accadono generalmente a Capodanno. Equiparano i black-bloc alle forze dell’ordine. I cittadini che scendono oggi per le strade desolate di Parigi, Bordeaux, Saint Étienne o Tolosa, tra le carcasse di auto bruciate, le barricate e le saracinesche divelte dei negozi, difficilmente possono considerare questi come gli inevitabili effetti collaterali di un movimento fondamentalmente non violento.
La questione della violenza è il nodo di questo conflitto. Essa ne costituisce al tempo stesso la legittimità (“È necessario tenere in considerazione le rivendicazioni di queste persone adirate”) e la sua illegittimità (“Non possiamo cedere di fronte a black-bloc e facinorosi”). Non appena il potere accondiscende a rivendicazioni espresse con violenza – e il governo non può non farlo, se vuole attenuare la tensione – si incoraggiano altri gruppi sociali ad adottare comportamenti incivili e criminali.
Perché scioperare per settimane o riunirsi pacificamente senza ottenere niente – così come fanno gli attivisti del movimento Nuit debout – se poi saccheggiando gli Champs-Élysées o dando fuoco alla prefettura si può ottenere una reazione immediata del governo? Il modo in cui alcuni licei si sono recentemente “mobilitati” – bruciando le autovetture e scontrandosi con le forze dell’ordine – mostra che la violenza genera effetti contagiosi difficilmente controllabili.
I sondaggi, uno strumento da maneggiare con prudenza
I partigiani dei gilet gialli sostengono che il governo non abbia ceduto di fronte alla violenza, ma all’opinione pubblica. Dicono che i sondaggi mostrano come i cittadini abbiano preso le loro parti contro il Presidente. Ma è così? Prima di tutto, cosa significa “sostenere i gilet gialli?” Non staremo certo qui a parlare dell’inutilità di alcuni sondaggi, ma chiedere alle persone quale sarà il loro comportamento futuro o quale è stato quello passato (“Per chi voterai/per chi hai votato?”, “Qual è la tua sensibilità politica?”) ha senso, mentre porre alla gente domande vaghe o molto complesse offre risultati che andrebbero analizzati con prudenza.
Provare una sorta di simpatia per cittadini che protestano contro l’aumento delle tasse e reclamano maggiore potere d’acquisto e migliori servizi pubblici, che si battono contro riforme impopolari e denunciano gli abusi delle élite, non significa avallare tutte le loro rivendicazioni o appoggiare un cambio di potere o regime.
È vero che che l’80% dei francesi disapprova l’azione del Presidente. Ma chi potrebbe dirsene soddisfatto dal momento che la Francia vive in un clima da insurrezione, che i cittadini sono praticamente impossibilitati a circolare normalmente o anche a lavorare, che i canali televisivi passano costantemente immagini di guerriglia urbana? Il cittadino in buona fede non può che constatare che il Presidente sta governando il Paese nel modo sbagliato.
Questo significa che l’80% dei francesi sarebbe pronto a legittimare Jacline Mourand o Éric Drouet al potere, o un qualsiasi altro dei leader dell’opposizione? Jean‑Luc Mélenchon, Marine Le Pen, Laurent Wauquiez e Olivier Faure soffiano sul fuoco fin dall’inizio del movimento, ma i cittadini non si fanno ingannare: i sondaggi più recenti mostrano che nessuno di loro trae reale beneficio dal movimento o costituisce un’alternativa politica credibile.
Una vasta maggioranza è attaccata alle istituzioni e alla pace sociale
Nessuno sa dove andrà questo movimento. La mobilitazione è in calo, ma i più radicali pensano che sia arrivato il loro momento e non vogliono certo allentare adesso la presa. I tafferugli non sono più opera dei gilet gialli, ma di estremisti, black-bloc e opportunisti.
I ricercatori di scienze sociali non amano fare previsioni: sono male equipaggiati dal punto di vista scientifico per farle e preferiscono, in maniera più prudente, “prevedere il passato”, analizzando gli sviluppi degli avvenimenti di cui si conosce l’esito. Non possiamo nemmeno pensare che, a questo stadio del movimento, l’opinione pubblica si accenderà nuovamente.
L’emozione è passata, i cittadini francesi, la cui vasta maggioranza è attaccata alle istituzioni, all’ordine pubblico e alla pace sociale, concorderanno senza dubbio che un’insurrezione a settimana non è certo il modo per migliorare le sorti del Paese, e che aver lanciato un avvertimento al governo è stato sufficiente. Ormai sono rare le personalità e i protagonisti della società civile che esprimono sostegno a un movimento caratterizzato da una linea politica confusa, il fascino della violenza e il rifiuto di ogni negoziazione.
I francesi, in un primo momento, hanno ampiamente sostenuto i gilet gialli perché ne condividevano le rivendicazioni, erano delusi dal governo o perché provavano una certa simpatia per un movimento nuovo. Alcuni, senza dubbio, erano anche mossi da cieco conformismo, da una rabbia di classe, dalla suggestione mediatica o da un romanticismo rivoluzionario. Altri ancora rifiutavano di sostenere un governo sordo alle rivendicazioni, e disapprovavano le argomentazioni di chi dimostrava disprezzo per questa mobilitazione popolare e la paragonava, in maniera un po’ sbrigativa, alla “peste nera”.
Il movimento dei gilet gialli, inizialmente, non ha lasciato molta scelta alle persone. Di fronte a una barricata molti sono stati costretti, più o meno gentilmente, a indossare il gilet giallo e a sposare la causa, anche contribuendo con un obolo, pur di poter andare a lavoro o portare i propri figli a scuola. Molti automobilisti portavano un gilet giallo in macchina con sé “giusto in caso”.
“Ce qui n’était encore que le sentiment d’une partie de la nation parut ainsi l’opinion de tous…”
“Quello che non era che il sentimento parziale nella Nazione apparì così come l’opinione di tutti…”
Di fronte a queste pressioni, e al consenso quasi unanime di leader politici, commentatori e opinionisti, sarebbe stato difficile per i cittadini esprimere le proprie perplessità. Ma a meno che non si pensi che l’elettorato moderato, che ha dominato le elezioni fino all’anno scorso, si sia improvvisamente volatilizzato o abbia radicalmente cambiato orientamento politico, si può ipotizzare che una parte dei cittadini abbia dissimulato le proprie preferenze.
Quasi due secoli fa, Alexis de Tocqueville rivelò le mistificazioni alle quali potevano condurre alcune forze, prendendo come esempio il sentimento religioso durante la Rivoluzione francese. Secondo il letterato, le pressioni che venivano esercitate sui credenti, il cui attaccamento al cristianesimo era giudicato inappropriato, fecero apparire l’opinione pubblica come antireligiosa, anche se in realtà non lo era affatto.
Questo fenomeno faceva apparire meno numerosi i credenti all’interno della società francese, perché li spingeva a tacere le loro convinzioni:
« Ceux qui niaient le christianisme élevant la voix et ceux qui croyaient encore faisant silence, il arriva ce qui s’est vu si souvent depuis parmi nous, non seulement en fait de religion, mais en tout autre matière. […] Ce qui n’était encore que le sentiment d’une partie de la nation parut ainsi l’opinion de tous, et sembla dès lors irrésistible aux yeux mêmes de ceux qui lui donnaient cette fausse apparence. » (De la démocratie en Amérique. Laffont, p. 1045)
(“Coloro che negavano il cristianesimo alzavano la voce, mentre i credenti tacevano, realizzando ciò che abbiamo visto accadere speso, non solamente in tema religioso ma in tante altre materie. […] Ciò che non era che il sentimento di una parte della nazione apparì così l’opinione di tutti, e sembrò pertanto irresistibile anche agli occhi stessi di coloro che gli diedero questo aspetto falsato.” La democrazia in America, 1835)
Questo articolo è stato tradotto da The Conversation.