Uscire dalla propria filter bubble è sempre un trauma, specialmente quando si è parte di una categoria umana che con internet ha una certa dimestichezza dovuta a un puro dato anagrafico. La storia del “buongiornismo” e di quella caterva di account che condividono notizie palesemente false, video allucinanti di pessimo gusto e orride composizioni fotografiche piene di Titti glitterati sembra tutta una finzione parodistica finché non ti ci trovi davvero dentro. Nella mia esperienza, dopo aver costruito un universo social fatto di persone più o meno simili a me, questo scorcio di realtà si è palesato in due occasioni: quando mi hanno aggiunto parenti anziani e persone che vengono con me in palestra.
Guardando i loro profili, non riuscivo a credere al fatto che potessero davvero postare fotografie di presunti immigrati africani che banchettano giulivi grazie ai nostri trentacinque euro, paragonati ai nostri emigranti che invece si rompevano la schiena in miniera. Credevo ingenuamente che questo modo di vivere dentro internet fosse solo un’esagerazione di qualche atteggiamento isolato, ridicolo, goffo. Invece non è così, e basta fare un giro sullo smartphone del proprio zio settantenne e controllare la cartella delle foto ricevute su Whatsapp per rendersi conto dei quintali di spazzatura che circola, specialmente tra le mani di chi ha vissuto più nel Ventesimo secolo che in quello corrente. Di questo fenomeno ce ne siamo accorti tutti noi che non siamo i diretti interessati ma solo gli spettatori di una piega inquietante del presente, e se in un primo momento poteva anche fare ridere notare le varie gaffe della signora Concetta di sessantaquattro anni da Capo d’Orlando, per come si sono messe le cose nella realtà fuori dai social, e per il modo in cui questa tendenza viene quotidianamente strumentalizzata dalla politica, non c’è proprio niente di comico.
Eppure non la pensano tutti così, anzi, c’è chi di fronte a questo sintomo di una malattia che tocca molte più persone di quelle che pensiamo, architetta delle gag piuttosto demenziali che vengono spacciate per potenti strumenti di satira in grado di fare aprire gli occhi a tutti questi cretini che non sanno distinguere una notizia vera da una falsa. Il protagonista di questi finti video di denuncia che cavalcano l’onda del sentire popolare avvelenato da razzismo e rabbia si chiama Gian Marco Saolini, e la prima volta che mi è capitato di vedere una delle sue performance è stato nel 2016, dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre. In quella occasione il suo nome non era Gian Marco Saolini ma Marco Corrosa, e nel video (che adesso non si trova più, ma sono presenti quelli successivi in cui lo cita) sosteneva di essere un imprenditore italiano costretto a fuggire in Russia per le pressioni fiscali, e che era stato invitato da Matteo Renzi a tornare in Italia per votare sì. Il fatto che si chiamasse in un altro modo e si presentasse con un aspetto leggermente diverso dal suo – con un pizzetto ossigenato – è una caratteristica della sua estetica da “trasformista”, funzionale alla riuscita dei suoi scherzi, delle sue denunce, o di come vogliamo definire la sua produzione multimediale.
Nei giorni immediatamente successivi all’ultima edizione di Sanremo il suo volto si è riproposto con insistenza sui social e sui media, come fu per la storia del referendum ma con molta più risonanza. In questa occasione, infatti, Gian Marco Saolini si è presentato al web in qualità di giornalista presente nella giuria stampa del festival, raccontando di essere stato obbligato dal Pd a votare per Mahmood, il vincitore italo-egiziano che ha fatto arrabbiare un sacco di gente a causa della sua provenienza ritenuta non sufficientemente italica per vincere la kermesse – reazione stranamente evitata con la vittoria di Lola Ponce o Anna Oxa.
Ma per quanto grande sia la portata di una bugia simile, specialmente se diffusa durante l’agitazione per un evento della portata di Sanremo – una gara con un regolamento preciso e firmato da chi partecipa, è giusto ricordare a chi invoca una rivoluzione contro quegli “otto radical chic” – pochi mesi prima, a giugno del 2018, Saolini si era concentrato su un tema ancora più caldo, quello delle Ong.
Erano i giorni della nave Aquarius, e il dibattito nazionale si divideva tra i soliti buonisti che volevano dare la possibilità alle persone sull’imbarcazione di sbarcare in Italia e chi invece si opponeva con il pugno di ferro contro questa pratica aberrante e disumana di salvare vite umane. In quel caso Saolini è diventato Giovanni Titori, nome che ricalca quello del celebre crononauta John Titor. Titori è un nostromo dell’Aquarius, buttato fuori dalla nave per l’enorme senso di giustizia che lo avrebbe spinto a denunciare la situazione paradossale in cui si trovavano i migranti a bordo; una realtà fatta di giochi d’azzardo, dj set, soldi, balli, felicità. Questa, secondo i racconti, è la verità sulle Ong, questa è la sofferenza di chi dice di scappare da guerra, fame e povertà. Il video su Facebook conta 5,7 milioni di visualizzazioni, mentre ne conta 1 milione quello dello scorso gennaio, “girato” sulla nave Sea Watch, dalla quale il finto nostromo, ci parla da qualche anfratto dell’imbarcazione e ci racconta che i 49 migranti non vogliono sbarcare né a Palermo né a Napoli perché ritengono che le città siano troppo poco allettanti per i loro gusti.
La spiegazione che dà Saolini al successo delle sue fake news, che si propagano a macchia d’olio, e le motivazioni che lo spingono a continuare con questo suo metodo bislacco di smascheramento dei vizi morali degli italiani è piuttosto insoddisfacente. In sostanza, per l’attore, trasformista, personaggio del web romano che gestisce un pub a Centocelle mentre non è impegnato a intasare la casella Messenger di quel famoso zio settantenne che usa internet con le capacità di discernimento di un poppante, queste burle virali non sono altro che la dimostrazione di quanto gli italiani siano scemi.
Non a caso, una parola che Saolini ama molto usare quando deve descrivere il suo pubblico è “analfabetismo funzionale”, fregiandosi di quello status di superiorità intellettuale che consente a un genitore di far credere ai suoi figli che se non mangiano tutti i broccoli arriva un mostro a divorarsi non solo le verdure nel piatto, ma anche loro stessi. In pratica la sua teoria è che se c’è un problema di comunicazione evidente, come quello che riguarda la diffusione di notizie false e l’incapacità di una grossa fetta della popolazione di non saperle distinguere da quelle vere, meglio a questo punto diffonderne il più possibile. Così, se capisci che si tratta di un video fake, allora hai superato il test per il club degli intelligenti. Una sorta di educazione darwiniana, per cui se non hai i mezzi di comprensione di un fenomeno complesso come l’avvento di internet e la modifica radicale che ha portato nei media allora arriva una satira pungente a rimediare non dandoti nessun tipo di aiuto se non fomentando quello che già sospettavi fosse vero.
Il risultato è che chi è già in grado di distinguere tra verità e menzogne può ridere di tutti quelli che non lo sanno fare, sentendosi moralmente e intellettualmente superiore solo per il semplice fatto di essere nato e cresciuto in un ambiente che gli ha concesso di vedere il mondo con uno sguardo critico più acuto, mentre tutti gli altri possono rimanere quello che sono, degli stronzi rimbecilliti e creduloni. La sua missione maieutica di tirare fuori ciò che è già dentro gli italiani, come afferma in alcune interviste, diventa dunque una legittimazione alla pratica divertente ed edificante di gettare la benzina su un fuoco che ormai è diventato un incendio impossibile da arginare: che colpa ne ho io se la gente è scema e crede a tutto quello che faccio? Non è strano infatti che nella sua biografia di Instagram Saolini dica “Seguimi solo se sei tra le persone più intelligenti che conosci”, giusto per sottolineare un altro po’ questa sua grande distanza tra chi è tanto furbo da poter ridere degli altri che abboccano – i “normodotati”, così li definisce – e chi invece si diverte a cambiarsi le parrucche per aggiungere qualche altra idiozia al dibattito pubblico. Tanto sagace e pungente questa forma di intrattenimento che Saolini la definisce addirittura una nuova forma di satira, un’avanguardia della comicità che “fa ridere ma fa anche riflettere”, mostrando al mondo quanti deficienti non sono nemmeno in grado di scorrere la sua bacheca per rendersi conto del fatto che una settimana è un medico no vax e una settimana è il capo ultrà della Juventus.
A Gian Marco Saolini, tuttavia, sfugge un punto fondamentale della satira politica, ovvero l’oggetto della derisione. Nel fare notare il paradosso di chi pensa che una barca piena di migranti sia una sorta di crociera nel Mediterraneo non c’è nulla di divertente a sghignazzare della facilità in cui molti ci cadono: ciò che fa ridere semmai è smascherare chi si serve di questa retorica abominevole per accumulare consensi e popolarità, sfruttando proprio questo vuoto di coscienza, che se c’è vorrà pur dire qualcosa. Perché non esiste una genetica del razzismo e dell’idiozia che ti obbliga a credere che un cantante di origini egiziane sia meno degno di vincere un premio in Italia, esistono solo condizioni sociali e culturali che non ti danno i mezzi per comprendere che non è così. La satira dovrebbe fare la bulletta con i forti, con chi tiene il microfono, con chi fa le leggi, non con chi è più debole, con chi crede che il proprio disagio sociale sia determinato dalla presenza di migranti nelle città, con chi crede che esista una correlazione tra il proprio stato di disagio e insoddisfazione e lo sbarco di persone che vengono da luoghi ancora più disgraziati del nostro. Trattamento che, guarda caso, non riserviamo a chi invece viene da posti molto più ricchi: non mi pare di aver sentito mai nessuno dire basta ai pensionati tedeschi che vengono a farsi la vecchiaia nell’assolata penisola.
Gian Marco Saolini, con la scusa della satira e della superiorità di chi può permettersi di coprire di ridicolo la gravità assoluta della situazione politica in cui ci ritroviamo, dove il mostro da fronteggiare è un sentimento perverso di odio e frustrazione, non fa altro che sfruttare un modo semplice e banale di ottenere visibilità a scapito di altri. Non è tempo questo di scherzare sull’ignoranza e sul rancore che animano il nostro Paese, e lasciare che ognuno comprenda da solo è un gesto irresponsabile. Se vogliamo arginare il problema reale ed estremamente dannifico dell’effetto rovinoso che internet può avere sul sentire comune non possiamo permetterci di fare i gradassi e ridere alle spalle di chi abbocca, ma abbiamo semmai il dovere – specialmente chi ha visibilità e risonanza mediatica – di rendere il più chiaro possibile qual è il meccanismo che permette alle notizie false di diffondersi. È un momento storico in cui paradossalmente sono proprio i giovani a dover insegnare qualcosa ai più grandi, non è proprio il caso di sprecarlo per farsi due risate. Che poi non fa nemmeno così ridere.