Nonostante continui a prevalere l’idea secondo la quale il legame Lega-Cinque Stelle sia esclusivamente strumentale e non naturale – e caratterizzato da una sostanziale comunanza d’intenti – l’avvicinamento tra Lega e M5S è iniziato prima del corteggiamento post elettorale, quando i due partiti si sono annusati alla luce del sole, tastando il polso del proprio elettorato alla ricerca di affinità diversamente elettive. L’apertura dei forni di Di Maio, con conseguente allontanamento del terzo incomodo, il Pd, è stata una formalità in vista dell’accordo tra due forze anti-sistema, populiste e ruspanti (nel senso di ruspa-munite). La loro perfetta crasi è un giornalista di formazione marcatamente leghista, diventato senatore tra le fila del M5S: Gianluigi Paragone.
Paragone rappresenta tutto ciò che un tempo il M5S, per lo meno ai suoi albori, combatteva. La sua carriera spicca il volo quando viene nominato direttore del giornale del Carroccio, La Padania. Un quotidiano che da un lato propugnava ideali secessionisti, dall’altro riceveva fondi pubblici dalla “Roma ladrona”, per poi arrivare al chiudere i battenti nel 2014. Il M5S ha sempre combattuto per bloccare il finanziamento pubblico ai quotidiani, mentre il giornale allora diretto da Paragone, nei suoi due anni di reggenza, ha usufruito di più di otto milioni di euro gentilmente offerti dallo Stato.
In quel periodo si è distinto per feroci editoriali collegati alla linea del partito, all’epoca ancora in mano a Bossi. Nel 2005 scrive un articolo protestando per la “vergogna” dell’Inter in campo con undici stranieri, parlando di un “pallone sempre più irriconoscibile per le squadre zeppe di extracomunitari” e lamentandosi perché “in campo va una Babele di lingue, di razze e di tradizioni”. Pubblica anche un pamphlet, scritto con Francesco Borgonovo, dal titolo L’invasione. Come gli stranieri ci stanno conquistando e noi ci arrendiamo, in cui conferma le sue tesi sull’immigrazione, vicine al mondo leghista. Mantiene questa linea di pensiero anche quando passa a Libero, prima da vicedirettore e poi da direttore in sostituzione di Vittorio Feltri. Mentre il M5S porta avanti un’altra sua battaglia, quella contro la lottizzazione della Rai, la Lega sceglie il suo uomo come vicedirettore di Rai 1: Paragone.
Entrare in Rai in quota Lega, prima su Rai 1 e poi alla vicedirezione di Rai 2, segna una svolta personale per Paragone. Via gli occhialini da primo della classe e l’abbigliamento da impiegato in banca, si trasforma in una rockstar wannabe con jeans e orecchino, conducendo una trasmissione, L’ultima parola, dove si diletta anche alla chitarra. Il programma è l’embrione di quella che sarebbe diventata la fase successiva della sua carriera, quella del distacco dalla Lega e dell’approdo a La7 con La gabbia. Qui Paragone si libera dal fardello della copertura politica, per lo meno quella delle nomine e delle costrizioni della TV pubblica, e sprigiona la sua anima populista. La trasmissione è un ring dove vince chi alza di più la voce, chi insulta l’avversario e soddisfa un pubblico assetato di sangue. Il conduttore assume il ruolo del portavoce del noncelodicono, ovvero quella corrente in voga su Internet che si nutre di complotti. La gabbia ad esempio manda in onda un servizio, nel 2016, in cui Laura Boldrini viene accusata di mettere in atto il Piano Kalergi, cioè il fantomatico progetto di sostituzione della popolazione europea con gli immigrati. La trasmissione diventa così la fucina di un nuovo ibrido politico, che prende i tratti complottisti e anti-casta del M5S e quelli anti-immigrazione della Lega. Gli stessi Salvini e Di Maio sono spesso ospiti, osannati da un pubblico incline a quelli che diventeranno i dogmi del gialloverdismo.
Appare dunque naturale la discesa in campo di Paragone, perfetto esponente della politica che detesta la politica e dell’anti-casta che diventa la nuova casta. È il M5S a cercarlo. Prima ancora delle elezioni di marzo, quando nessun elettore grillino avrebbe mai immaginato un accordo con Salvini, Paragone dichiara: “Penso proprio che potrei essere l’uomo del dialogo post voto tra M5S e Lega. Per alcune battaglie, per alcuni temi, l’affinità c’è”. E così è: Paragone viene eletto senatore e il governo gialloverde prende forma.
Il pensiero di Paragone si riassume nel suo libro Noi no! – Viaggio nell’Italia ribelle, in cui scrive: “Ogni NO che si leva da nuclei sempre più estesi di società, dal NO Salvabanche, ai NO Tax, NO Euro, NO Tav, NO Vax, fino al NO all’immigrazione incontrollata, viene tacciato di arretratezza, chiusura, ignoranza, antipolitica. L’assunto è che dalla parte dei Sì ci sia un consesso di menti illuminate, onniscenti e disinteressate, e dall’altra una massa indistinta di trogloditi selvaggi, opportunisti e antiscientifici”.
A proposito di vaccini, è sempre stato in prima linea contro il Decreto Lorenzin, partecipando anche a una manifestazione no-vax a Pesaro, a fianco di nomi come Giuseppe Povia e Diego Fusaro. Sulla questione euro, invece, ha recentemente dichiarato: “È una moneta sbagliata, la soluzione sarà la creazione di due monete, un euro del Nord e un euro del Sud, o la creazione di un euro flessibile”. Le sue posizioni economiche ricalcano quelle dei leghisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – anche perché il M5S non ha una vera e propria posizione in merito – e quindi si riallaccia al suo passato di destra. C’è da dire che coloro che rivendicano di non essere né di destra né di sinistra solitamente sono particolarmente di destra, e in tal senso Paragone calza a pennello nella finta post-ideologia del M5S.
Paragone ha il diritto di avere qualsiasi opinione e di fare propria qualunque bandiera: se c’è un colpevole in questa vicenda non è di certo lui. È sempre stato sincero quando ha ripercorso le tappe della sua carriera, non ha mai negato di essere entrato in Rai grazie alla politica, così come non ha mai mistificato il suo passato leghista. Il problema è esclusivamente del M5S, che è passato da Rodotà a Paragone, dalle battaglie contro l’immunità parlamentare al salvataggio di Salvini, dai NO convinti ai SÌ stringendo i denti e giustificandosi con il proprio elettorato. Le ipocrisie che si possono imputare a Paragone sono invece legate alle sue frasi contro “la casta dei giornalisti”, quando si scaglia contro i fondi all’editoria dimenticando di averne usufruito in prima persona ai tempi della Padania, quando guadagnava 117mila euro lordi l’anno di soldi pubblici.
Gianluigi Paragone è la rappresentazione plastica della natura populista del M5S. Una natura che è ontologicamente ondivaga, che si nutre delle altalenanti paure e dei mutevoli desideri del popolo, ma che deve gestire con cura la virata a destra per non far scappare quei pochi “grillini di sinistra” rimasti. Il Frankenstein nato dal Vaffa-day adesso è una creatura senza identità che fa del compromesso il proprio scopo, che deve bilanciare Fico e Paragone, quello che era e quello che è, per non contorcersi su se stessa. L’avidità nel cercare un punto di contatto col Carroccio, nonché l’ingordigia di fronte alla spartizione delle poltrone, ha fatto perdere di vista al M5S la gittata del suo progetto. Se la gente deve votare un partito populista di destra, possibilmente con tendenze sovraniste, non vota la brutta copia, ma la versione originale: la Lega.