Il mercato del benessere è una delle economie più fiorenti del XIX secolo e lo è perché ci siamo accorti di stare male, o di non stare bene quando potremmo o vorremmo, ma soprattutto perché per la prima volta nella storia della specie umana abbiamo anche la ragionevole presunzione di poter sperare di migliorare effettivamente il nostro benessere, inteso come una non meglio definita alchimia tra salute e felicità psicofisica. Al pari di molti altri settori nati nel corso del Novecento, anche questo per vendere i suoi prodotti e servizi fa leva sulle nostre insicurezze e paure, arrivando in alcuni casi a farci vergognare in maniera più o meno velata di noi stessi, attraverso messaggi pubblicitari che giorno dopo giorno si insinuano nella nostra coscienza. Basti pensare alla chirurgia estetica, ai prodotti per la skin care o la cura dei capelli, passando per le piattaforme online di fitness, le diete dimagranti e/o salutiste, i completini da yoga con fantasie esotiche per sentirsi belle, apparentemente energiche ed elastiche e centrate come le modelle che li indossano. Queste campagne fanno particolarmente presa sui target socialmente più insicuri, le donne, gli adolescenti, a volte la comunità LGBTQ+, ma anche i neo-genitori, anzi, in particolare le neo-mamme.
Le neo-mamme sono una categoria particolarmente sensibile a questi messaggi: intanto perché sono donne, e anche prima di diventare madri avevano già di per sé introiettato i pregiudizi sociali ed estetici legati al loro genere, così come l’oggettificazione del proprio corpo; in secondo luogo perché sono nel bel mezzo di uno tsunami esistenziale e psicofisico, acuito dagli ormoni e dalla carenza di sonno, un momento in cui letteralmente la loro identità si distrugge e si ricrea in continuazione; e infine perché sentono su di sé il peso del giudizio sociale che tende ingiustamente a vederle come uniche responsabili dei loro figli, e quindi causa di ogni male, prima ancora che di ogni bene. È qui che si inserisce una fitta rete di prodotti e servizi legati alla nascita e alla genitorialità: metodi per risolvere qualsiasi problema o attraversare le varie fasi dello sviluppo, mille gadget venduti come strumenti fondamentali per la sopravvivenza e la crescita radiosa del neonato; torri montessoriane, marsupi ergonomici, collane per le gengive, giochi di intelligenza, set di stoviglie in melamina, sterilizzatori, tettarelle e ciucci di sessanta forme diverse, diffusori di essenze per purificare l’ambiente, proiettori di immagini rilassanti per intrattenerli e conciliare il loro sonno, playlist per l’apprendimento precoce delle lingue, corsi di nuoto, corsi di pittura sperimentale, corsi di musica, corsi di massaggio neonatale, corsi per diventare cheffes di pappine, corsi di autosvezzamento, corsi di maglia per produrre da sé il corredino, corsi di ginnastica post parto, corsi di corsa col passeggino, corsi di allattamento, corsi di danza in fascia, corsi di organizzazione domestica, sacchi nanna, fasce di 50 tessuti e trame diverse a seconda della settimana d’età, e la lista potrebbe andare ancora avanti per molto, credetemi. È in questo mare magnum di bisogni più o meno indotti – talvolta obbligati per dar prova di essere non solo quelle brave mamme che speriamo di essere o di diventare ma mamme perfette sotto ogni aspetto, sempre sul pezzo e in anticipo sul soddisfacimento di quegli stessi bisogni – che da qualche tempo a questa parte, insieme ai fantomatici coach del sonno (spoiler, non ho mai conosciuto un bambino che dormisse), sono apparsi quelli della genitorialità gentile.
Ora, non ci sarebbe niente di male in questo a ben vedere, perché ovviamente sorge immediato il paragone con la genitorialità che probabilmente alcuni di noi, e sicuramente i nostri genitori e prima ancora i nostri nonni, hanno dovuto subire, ovvero un educazione estremamente rigida, severa, autoritaria, in alcuni casi costellata da violenze verbali, psicologiche o addirittura fisiche – le maestre stesse tiravano le bacchettate sulle dita, no? Insomma, un’educazione fondata sulla punizione e la minaccia, atta più che altro a piegare l’identità dei più piccoli, per renderli obbedienti e conformi, due qualità considerate fondamentali per avere successo in società, o banalmente coltivate a causa dell’asprezza della vita. In quell’ottica i bisogni dei bambini non solo non venivano minimamente presi in considerazioni, ma venivano calpestati quotidianamente, sottraendo loro in alcuni casi un’infanzia degna di questo nome. Insomma, alla luce di questa realtà sentir parlare di educazione gentile, o genitorialità positiva, sembra senz’altro qualcosa di bello e rassicurante, eppure purtroppo anche questa etichetta nasconde diversi lati oscuri.
Negli ultimi tempi, negli Stati Uniti ma anche in Europa, la corrente del gentle parenting è diventata un vero e proprio fenomeno di massa, che si appoggia su varie teorie sviluppate da diversi psicologi dell’età evolutiva mescolate, riviste, frullate, a volte fraintese, semplificate e amalgamate, in modo da renderle comprensibili a tutti, e soprattutto facilmente vendibili, da coach, consulenti, content creator e varie figure spesso piuttosto improvvisate, come per esempio mamme di uno o più figli che si improvvisano educatrici sulla base della loro esperienza. Queste ultime, a volte, incarnano uno strano ibrido unendo a quello della maestra della genitorialità, lo stereotipo della donna che precedentemente ha lasciato la carriera per insegnare yoga e fingere perennemente sui social di essere una guru imperturbabile dai quattro nomi sanscriti autoappioppatasi, da cui le altre (quelle che invece non hanno potuto sganciarsi dal lavoro perché sprovviste di un cospicuo patrimonio di famiglia, o restie a farsi mantenere dal marito) dovrebbero prendere esempio.
Una delle metafore più usate nei contenuti di gentle parenting è quella che vede i genitori come giardinieri, attenti a curare le potenzialità dei figli, riconoscerle e farle sbocciare, assitendoli al meglio; invece di fare come falegnami che a colpi di scalpello danno forma ai figli secondo le loro idee pregresse, e impedendogli di trovare il loro autentico sé, ascoltandoli. In effetti è molto bello come principio, e potrebbe addirittura farci sperare in una futura umanità diversa, finanche migliore, un’umanità cresciuta nel rispetto, nel dialogo, nell’apertura, nell’ascolto, nel riconoscimento dei bisogni dell’altro. Ecco, è su quest’ultimo punto che si apre la voragine. In molti casi, infatti, la genitorialità gentile, finisce per trasformarsi repentinamente in quella che è stata definita “genitorialità intensiva”.
Non sono fan della passione tutta statunitense del dare rapide definizioni a tutto, e soprattutto trovo abbastanza buffo che non venga considerata intensiva l’esperienza della genitorialità tout-court, qualsiasi forma assuma, dato che obiettivamente è qualcosa di incredibilmente totalizzante, soprattutto per quanto riguarda i primi mesi di vita dei figli. Qui, però, il termine viene usato in senso critico, paragonando appunto i figli a colture intensive, agricole, floreali o animali, l’approccio quindi è quello della produzione, della massima performance, della competizione: tutti quei valori-forza che muovono la nostra società tardo-capitalista, e che volenti o nolenti, se non prestiamo la massima attenzione, penetrano in ogni ambito della nostra esistenza, come veri e propri pattern ripetuti, a volte credendo di agire a fin di bene. La genitorialità intensiva, lungi dall’essere un rapporto fruttuoso, finisce per drenare i genitori, portandoli in alcuni casi al burnout, perché è costantemente rivolta alle necessità dei più piccoli e ignora completamente quelle degli adulti, finendo per portare a uno sbilanciamento del rapporto diametralmente opposto a quello che abbiamo sperimentato in passato – forse non altrettanto drammatico, ma comunque tutt’altro che buono.
Sicuramente c’è un dato che non si può ignorare, noi pochi Millennial, e i pochissimi appartenenti alla Gen Z che hanno deciso di fare dei figli, vogliamo essere genitori migliori (dei nostri?), vogliamo offrire ai nostri figli un’infanzia più felice e piena di quella che abbiamo avuto noi, evolverci in questa direzione. Lo facciamo spesso inconsciamente. Crediamo, a oggi, di poter avere tutti gli strumenti per fare meglio – e sicuramente è vero, lo dimostra il lungo elenco di servizi di cui ho parlato all’inizio. E forse investiamo tante energie in questo sentimento anche perché chi di noi ha deciso di avere dei figli lo ha fatto sentendo sulle spalle tutto il peso che oggi questa scelta comporta. Per questo vuole dare il massimo, vuole fare del suo meglio. Anche per validare la sua scelta agli occhi degli altri, degli scettici. È impossibile negare che tutte queste forze confluiscano e si scontrino in noi. Anche per questo è così facile cadere in certe trappole e reti di giudizi che si stringono sempre di più intorno alla nostra esperienza normandola e soffocandola, e quindi ottenendo qualcosa di ben diverso dal rapporto libero, sereno e autoregolato che in teoria propugnerebbe la genitorialità gentile.
Una decina d’anni fa si è iniziato a parlare anche in Italia, sulla scia degli Stati Uniti, da cui volenti o nolenti assorbiamo i trend topic, di genitori elicottero. Sono quei genitori che si ostinano a soddisfare prontamente qualsiasi bisogno dei loro figli, anticipandolo talvolta, indirizzandolo, ben oltre la normale fase di accudimento primario, finendo per volerne controllare ogni aspetto, anche quando diventano adolescenti o addirittura adulti, così da prevenire qualsiasi possibile trauma, qualsiasi piega storta, instaurano così un regime di stretta sorveglianza. Purtroppo, però, la nostra identità si sviluppa anche – proprio? – a forza di traumi, attraversando il mondo e lasciandosene segnare, imparando così ad accogliere il male e il bene che la vita ci può – a volte del tutto casualmente e improvvisamente – offrire. Ecco, la genitorialità intensiva ha effetti piuttosto simili. Si investe tutto sul figlio, drenandosi, e trasformando quello che potrebbe essere una relazione già ricca di per sé in un lavoro di produzione. Il figlio quindi se una volta era considerato forza lavoro, oggi diventa un investimento virtuale. Anche se spesso questi due approcci genitoriali rischiano di convergere, però, non è giusto generalizzare e soprattutto confondere genitorialità gentile e intensiva come se fossero la stessa cosa; così come non è giusto giudicare e criticare chi sconfina nella seconda, nutrendo il gioco sadico della società, che continua a mettere tutti contro tutti. Dato che ovviamente il mondo è sempre ben più complesso di qualsiasi etichetta, nome proprio o titolo, sarebbe meglio sforzarsi di porre una domanda in più, condividere la propria esperienza invece di volerla – da un lato e dall’altro – farla passare come il giusto assoluto, principalmente perché abbiamo costantemente paura di sbagliare, qualsiasi cosa facciamo, e quindi per liberarci dei nostri limiti e delle nostre insicurezze li scarichiamo sugli altri, in questo caso sulle altre.
Purtroppo affrontiamo una delle esperienze più dense della vita completamente allo sbaraglio, come se ci buttassimo giù da una pista nera senza nemmeno sapere la tecnica di base degli sci. Alcuni magari riescono a cavarsela, altri è possibile che durante la discesa si facciano male, o feriscano gli altri. Non penso che nessuno vi criticherebbe se non essendo preparati a fare qualcosa di delicato e potenzialmente pericoloso decideste di farvi assistere e di seguire magari un corso propedeutico. Il punto è rimanere vigili, anche per questo, probabilmente, il servizio più utile che potete fare a voi, al vostro partner e a vostro – o ai vostri – figli, non è il triangolo montessori, ma iniziare o proseguire – nonostante il poco tempo, la spesa e la fatica – un percorso di analisi. Solo imparando a conoscerci dall’interno e discernere i meccanismi che ci muovono potremmo decidere liberamente che tipo di genitori essere o diventare, senza rischiare di confondere dei diktat che spopolano su TikTok mascherati da contenuti leggeri e fruibili come la nostra realtà.