Era il 27 gennaio 1945 quando il Maresciallo sovietico Ivàn Konev impegnato nella liberazione di Cracovia, entrò per primo nel campo della città polacca di Oświęcim (Auschwitz). L’operazione dal nome “Vistola-Oder”, scattata il 12 gennaio con l’intento di superare le linee di difesa tedesche in Polonia, portò alla luce uno dei più grandi orrori della storia contemporanea. Liberata la città, i sovietici scoprirono il vicino campo di concentramento con i suoi circa 7000 sopravvissuti. Quando venne aperto il cancello, le SS avevano già abbandonato il campo, dopo aver demolito i forni crematori e aver eliminato con un rogo i documenti dei rapporti delle torture e degli esperimenti medici sui prigionieri. L’evacuazione tedesca dai campi di Auschwitz e Birkenau e dei sottocampi di Babitz, Budy e Plawny nelle vicinanze, diede l’avvio a una lunga marcia a ritroso, verso Ovest. Più di 3000 prigionieri persero la vita durante le procedure di evacuazione, 172 invece furono i caduti nelle prime ore della “Marcia della morte”. I prigionieri che non erano in grado di camminare o che durante la marcia erano costretti per le loro condizioni a fermarsi o a rallentare venivano freddati. Nei magazzini del Lager, i soldati dell’Armata Rossa trovarono “836.525 abiti femminili, 348.820 vestiti da uomo, 7 tonnellate di capelli da donna – raccolti per farne materassi – montagne di occhiali, scarpe, dentiere”.
Intanto l’avanzata dell’Armata Rossa verso il cuore della Germania continuò rapida e incontrastata. Il mattino del 30 aprile i sovietici sconfissero le ultime sacche di resistenza a Berlino e la bandiera rossa fatta sventolare lo stesso giorno dal secondo piano del Reichstag decretò la sconfitta per Hitler e tutto il Terzo Reich. Lo sterminio perpetrato dalla Germania nazista contro ebrei, oppositori politici, minoranze etniche e religiose, omosessuali e disabili portò alla morte un numero stimato tra i 15 e i 20 milioni di persone, di cui circa 6 milioni di ebrei, avvenuta in oltre 42.500 siti progettati per la detenzione dei nemici del Reich, i lavori forzati e l’eliminazione sistematica dei prigionieri.
Al termine del secondo conflitto mondiale, molti degli ebrei sopravvissuti allo sterminio ritornarono con fatica nei propri territori di origine, altri, memori della cultura antisemita che aveva caratterizzato l’Europa ancora prima dell’ascesa di Hitler, decisero di emigrare in luoghi più sicuri. Le mete principali di questo esodo furono Stati Uniti e Palestina. Tuttavia le possibilità di emigrare negli USA erano ridotte in virtù del basso numero di quote per l’emigrazione stabilite per legge, in Palestina invece, la cattiva convivenza tra popolazione autoctona (araba) e i colonizzatori sionisti, culminata con le rivolte degli anni Trenta, aveva costretto la Gran Bretagna, Paese mandatario, a diminuire la migrazione ebraica nel Paese.
In seguito all’approvazione del piano di spartizione ONU attraverso la Risoluzione 181 del novembre 1947, decine di migliaia di ebrei decisero di trasferirsi nel neonato stato ebraico proclamato il 14 maggio 1948. Nonostante un censimento del 31 dicembre 1946 indicasse una popolazione totale in Palestina di 1.959.952 di persone, di cui 1.341.709 arabi, 602.586 ebrei e 15.657 appartenenti a varie minoranze, con l’approvazione del piano di spartizione approvato dall’Assemblea Generale, il 55% del territorio della Palestina storica venne consegnato al nascente Stato di Israele. La guerra civile, scoppiata in seguito all’adozione del piano e poi culminata nel conflitto tra Israele e la coalizione araba, costrinse un nuovo popolo a mettersi in marcia: quello palestinese. Sebbene la risoluzione 194 dell’11 dicembre 1948 garantisse il diritto dei profughi palestinesi a tornare nelle proprie case, al termine della guerra 800.000 palestinesi furono espulsi dalle proprie abitazioni e obbligati a lasciare la propria terra natia. 300.000 si rifugiarono in Cisgiordania, 100.000 in Transgiordania, 100.000 in Libano, 75-90.000 in Siria, 160-190.000 a Gaza e 7000 in Egitto. Come ha raccontato Shmarya Guttmann, ufficiale israeliano: “Una moltitudine di abitanti camminavano in fila. Le donne camminavano oppresse dal peso delle borse e dei pacchi che portavano sulle loro teste. Le madri si trascinavano dietro i figli. Di tanto in tanto incrociavi lo sguardo penetrante di uno di quei ragazzi, e i loro occhi sembravano dire: ‘Un giorno torneremo per combattervi’”.
I profughi credevano che l’espulsione sarebbe stata temporanea e che ben presto avrebbero potuto far ritorno alle proprie case (proprio perché la risoluzione ONU obbligava Israele a far ritornare i rifugiati), ma coloro che provarono ad attraversare la Linea Verde con l’intento di riprendere possesso delle proprie abitazioni furono in gran parte freddati: tra il 1949 e il 1956 furono tra i 2700 e i 5000 i profughi palestinesi che trovarono la morte in questi tentativi disperati. I palestinesi che riuscirono a sfuggire alla pulizia etnica, così come venne definita dallo storico israeliano Ilan Pappé, furono ghettizzati nei villaggi e costretti a vivere in uno speciale regime militare – solo Nazareth rimase invece una città araba. Come era accaduto per i cittadini di religione ebraica nei territori della Germania nazista, ai palestinesi dell’interno non vennero mai riconosciuti gli stessi diritti che la costituzione garantì ai cittadini israeliani di religione ebraica. La discriminazione su base etnica e religiosa portò i palestinesi ad avere forti limitazioni in materia di libertà di circolazione e favorì un processo di proletarizzazione della popolazione araba che la relegò all’ultimo strato sociale, creando una manodopera a basso costo ricattabile. La politica attuata dallo stato ebraico era perfettamente in linea con i precetti impartiti da Theodor Herzl, uno dei padri fondatori del sionismo, il quale riflettendo sul come portare a compimento l’occupazione, nei suoi Diari scrisse: “Dovremmo incoraggiare questa misera popolazione ad andarsene oltre confine procurando loro un tavolo nei Paesi di destinazione, e negandoglielo nel nostro”.
Non solo l’esodo forzato, ma rastrellamenti in piena regola contrassegnarono la politica del nascente stato d’Israele. In un rapporto riguardo l’andamento delle operazioni, il comandante israeliano Levy descrisse in modo minuzioso le operazioni compiute dalle sue forze armate nel villaggio arabo di Deir Yassin. “La conquista del villaggio è stata compiuta con estrema spietatezza. Intere famiglie – donne, vecchi e bambini – annientate, e pile di cadaveri un po’ dappertutto. Alcuni prigionieri, compresi donne e bambini, trasferiti in luoghi di detenzione e lì brutalmente eliminati dai loro catturatori […] ragazze arabe violentate da uomini dell’IZL [Irgun Zvai Leumi, l’organizzazione paramilitare sionista, n.d.a.] e poi uccise”. I pochi sopravvissuti furono fatti salire su mezzi scoperti e portati in trionfo per le vie di Gerusalemme ovest, fu una carneficina.
Il primo novembre del 2005 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite designò il 27 gennaio come giornata commemorativa per celebrare le vittime dell’Olocausto. Il testo della risoluzione, dopo aver enunciato diritti e libertà contenuti nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, dichiarò di voler “evitare la ripetizione di genocidi come quelli commessi dal regime nazista” ed esortò gli Stati membri a sviluppare programmi educativi per le generazioni future “al fine di contribuire a prevenire futuri atti di genocidio”. A 70 anni dall’al-Nakba, termine che significa “catastrofe” e con il quale i palestinesi indicano l’esilio senza ritorno dai loro territori, la marcia del popolo palestinese non si è più fermata. Dopo la guerra del 1948-1949, successive campagne di occupazione militare ridussero i territori palestinesi a un manipolo di città, portando altre centinaia di migliaia di persone a unirsi all’esodo. Oggi un muro di separazione alto 8 metri e lungo centinaia di chilometri, dichiarato illegale da una sentenza della Corte di Giustizia internazionale, separa da quasi vent’anni lo stato israeliano dai territori palestinesi della Cisgiordania. Dal 2007 invece, l’avvio del blocco israeliano sulla Striscia portò Gaza a trasformarsi nella più grande prigione a cielo aperto del mondo. Nel 2012 una dichiarazione delle Nazioni Unite aveva stimato l’inabitabilità di Gaza entro il 2020. Ad oggi, con il 70% di disoccupazione giovanile, il 96% dell’acqua non potabile e un sistema sanitario precario, quell’ipotesi è diventata realtà. A nulla sembrano valsi i moniti da parte dell’inviato speciale ONU per i diritti umani nei territori palestinesi, per un impegno coordinato con lo scopo di porre fine a “questo disastro”. Il governo israeliano, al contrario, non ha mai concretamente dato inizio a un iter di interruzione dell’occupazione e delle sue politiche di discriminazione, ha invece più volte ostacolato e impedito l’ingresso di commissari ONU soprattutto all’interno della Striscia.
Le commemorazioni istituzionali della giornata della memoria si ritrovano da anni a seguire gli stessi rituali, una ripetizione sistematica di date ed eventi del passato che però non servono davvero a influenzare in positivo il presente, finendo anzi col far passare in sordina alcuni olocausti contemporanei. Proiezioni di documentari sulla Shoah, testimonianze dei sopravvissuti all’orrore, viaggi organizzati in visita ai campi di concentramento sono di fondamentale importanza per mantenere viva la memoria storica e sensibilizzare le nuove generazioni. Tuttavia, quando si urla a gran voce che gli orrori del passato non devono ripetersi, nessuno sembra far caso alla politica di apartheid e alle ripetute violazioni dei diritti umani dello Stato di Israele, e in questo modo la memoria viene svilita riducendosi apparentemente a un mero esercizio retorico. Le stesse istituzioni israeliane rispondono alle critiche e denunce da parte di attivisti, giornalisti e organizzazioni internazionali, nascondendosi dietro la carta dell’antisemitismo. Come più volte ribadito da Gideon Levy, giornalista del quotidiano israeliano Haaretz e tra le voci più critiche del giornalismo israeliano, “l’olocausto fa pensare agli israeliani che il diritto internazionale non si applichi a loro, perché sono le ultime vittime della storia; le uniche vittime”. La riflessione di Levy risulta totalmente confermata da una famosa frase di Golda Meir, ex ministro israeliano, quando affermò che dopo l’olocausto gli ebrei avessero il diritto di fare quello che volevano.
Una memoria, sì, ma parziale, è questo che rappresenta la giornata della memoria. Non possiamo continuare a ignorare i palestinesi, i curdi, gli armeni, i prigionieri dei campi di concentramento libici e tutti i popoli vittime degli olocausti di oggi. Il loro dramma ci aiuta a comprendere che gli orrori del Novecento si sono e si stanno tuttora ripetendo, e c’è ancora tanto da fare.