Quando ho scoperto di essere incinta ero sola nel bagno di un ipermercato nella mia città natale, dove non vivo più da molti anni. Ero impaziente di conoscere il risultato del test e non volevo illudere i futuri nonni lasciando delle tracce, quindi l’ho fatto in un contesto che potrebbe essere definito adolescenziale, e che forse è stato simbolicamente premonitore della mia impreparazione. Nonostante il fatto che da qualche tempo stessi provando a concepire, infatti, non pensavo che la gravidanza si sarebbe concretizzata così in fretta. Quello che comunemente viene descritto come un momento di pura gioia, scoprire di avere “una vita dentro di sé”, per me è stato un po’ un colpo allo stomaco. Non perché mi fossi pentita di aver cercato un figlio, ma alla nausea già pesante – che forse avrebbe dovuto insospettirmi – si era unito un improvviso senso di insicurezza, la paura di non essere in grado di affrontare una sfida così concreta come quella di diventare mamma, per lo più a diverse centinaia di chilometri dalla mia famiglia d’origine.
Con il tempo ho capito che gli stereotipi inutilmente diffusi sulla maternità e le sue gioie erano infiniti, e non saltare necessariamente di felicità quando si scopre di essere incinte può essere un’opzione anche quando la gravidanza è cercata. Certo, ogni esperienza è diversa. C’è chi dice di aver passato nove mesi in preda a una libido inedita e a “uno stato di grazia costante”, ma nel mio caso potrei definire la gravidanza un periodo di estrema fragilità e solitudine. I fattori sono tanti, da una parte è un periodo di fatica fisica e di iper-medicalizzazione – prelievi, test prenatali, ecografie da fare e prenotare – dall’altra può segnare diversi limiti sociali, in particolare per chi come me era abituata ad avere uno stile di vita fatto di uscite notturne per eventi e locali, su cui era basata la quasi totalità dei miei contatti umani. Quando sei incinta è sconsigliato bere e fumare o comunque fare diverse altre cose che gli altri fanno a cuor leggero per stare insieme e divertirsi – come per esempio andare a mangiare liberamente pietanze considerate rischiose, come il sushi o tutto ciò che non è cotto. È facile pensare che sia normale dover pagare un prezzo per poter generare una vita, che la genitorialità sia un qualche tipo di riempitivo metafisico che ti esclude dal voler essere come gli altri, ma non è così: la mancanza degli svaghi abituali, complice anche la stanchezza fisiologica con l’avanzare della gravidanza, hanno pesato molto sul mio morale. Un fattore che avevo sottovalutato.
Per me questo parziale isolamento, che ritenevo essere una fase passeggera, legata al mancato consumo di birrette, è diventato invece la caratteristica predominante della prima fase dell’esperienza genitoriale, che può valere per entrambi ma può essere dolorosa e invalidante soprattutto per le neomamme. Il carico di lavoro fisico ed emotivo di doversi occupare di un figlio proietta ogni piccola cosa come fosse un’ombra cinese contro un muro: gigantesca. E la rete sociale che fino a qualche decennio fa sosteneva la partoriente nelle prime fasi – madri, nonne, sorelle, cugine e cognate varie – non è da dare per scontato per la maggior parte delle donne, in particolare per le tante che vivono in città diverse da quella di provenienza. In generale, in un momento storico di forte nuclearità delle famiglie e scarso senso di comunità, c’è il rischio che questo accada anche quando si è geograficamente vicini. E il fatto che i papà millennial siano la generazione che più di tutte sta rivedendo il modello della paternità cambia poco per le madri italiane, se il congedo di paternità previsto dalla legge è di soli 10 giorni.
Nel primo periodo post-parto, nell’assenza di una rete familiare, ho avuto la possibilità di potermi appoggiare a un consultorio pubblico non lontano da casa, a Milano, ma è una fortuna che sempre meno donne italiane hanno, visto che i consultori sono il 60% in meno di quanto stabilito dalla legge. Le sedute di consulenza allattamento e massaggio neonatale erano espedienti per incontrare altre mamme altrettanto smarrite e affaticate, e scambiare qualche stanco sguardo d’intesa e qualche parola – anche se non sono riuscita a farmi grandi amicizie, forse anche perché le possibilità concrete di fare rete diventano piuttosto remote quando si hanno tra le braccia creature di poche settimane. Ricordo chat WhatsApp infinite per fissare un semplice caffè con un’altra mamma a poche centinaia di metri da casa.
L’assistenza post-parto, comunque, nel nostro Paese è tutt’altro che strutturale e anche nel caso dei consultori familiari l’iniziativa di frequentarli deve partire dalla donna, perché le strutture spesso, al di là degli ospedali o degli ambulatori dei medici di base, non pubblicizzano i loro servizi e a volte sono anche difficili da contattare per la carenza di personale. A prescindere dalla mancanza di sostegno pubblico nel nostro Paese, a cui si contrappongono contesti più felici come quello francese o nordeuropeo, la problematica della solitudine nella maternità contemporanea sembra essere ampiamente diffusa, almeno in occidente, anche in altre fasi di crescita dei figli. Secondo uno studio della Croce Rossa britannica più di otto madri su 10 (83%) sotto i trent’anni hanno provato solitudine, mentre il 43% ha affermato di sentirsi sola tutto il tempo. Ben il 90% delle neomamme si è sentita sola dopo aver partorito, con oltre la metà (54%) che ha sentito di non avere amici. Per qualche misterioso motivo, infatti, non c’è niente come la compagnia di un bambino piccolo per amplificare il senso di solitudine.
E se è vero che le madri hanno quasi sempre la peggio, sia a livello di carico di lavoro che di sacrifici sociali e di carriera, anche l’esistenza dei padri, se non sono dei completi mostri-egoisti, viene stravolta. Secondo un recente studio dell’Ohio State University su un campione di 265 coppie statunitensi, la stragrande maggioranza sperimenta isolamento, solitudine e burnout a causa delle esigenze della genitorialità, e molti (38%) avvertono una mancanza di supporto nello svolgimento di tale ruolo. Quasi otto su 10 (79%), infine, apprezzerebbero un modo per entrare in contatto con altri genitori al di fuori del lavoro e della casa. A mancare, nella vita dei neogenitori, sono infatti principalmente il tempo e le energie. Almeno per i primi 4-5 anni, prendersi cura dei figli e allo stesso tempo lavorare – cosa che, paradossalmente, nel contesto italiano è anche un privilegio – ti mette in una condizione di stanchezza cronica che non aiuta ad avere una fiorente vita sociale, sia con i vecchi amici che con le nuove conoscenze.
Nel caso di expat e fuori sede c’è quindi il rischio che gli amici – che nelle grandi città sono sempre più spesso senza figli – perdano progressivamente il loro ruolo di punti di riferimento, perché non sempre capiscono le esigenze logistiche ed emotive di un genitore. Se alcuni scelgono stoicamente di starti vicino, altri istintivamente spariscono, incasellandoti nella categoria di “quelli che non possono o non hanno bisogno di avere una vita”. Poi ci sono amici e conoscenti che ribadiscono quanto sarebbero contenti di fare da babysitter per lasciarti un po’ di tempo libero, di cui apprezzi la buona volontà ma che poi non chiami mai, perché sai quanto sia pesante stare dietro a un bambino piccolo anche solo per un’ora, mentre loro no. Infine, in tema con l’inverno demografico degli ultimi anni, c’è il gruppo degli astiosi, amici, coetanei, privi di empatia verso chi decide di diventare genitore, che pensano che fare figli sia “una cosa di destra” o da incoscienti e che, in fondo, “questa moda di essere mamme è anche un po’ da attribuire a certe influencer”.
Da questo quadro può emergere, in parte, quanto sia complesso oggi diventare genitori continuando a essere parallelamente delle persone. La sensazione è che nelle esperienze delle generazioni precedenti la parola-chiave non fosse “solitudine”, perché la scelta di fare dei figli era la normalità mentre oggi è l’eccezione. L’isolamento e la solitudine, è ormai scientificamente acclarato, influiscono sia sulla salute fisica che su quella mentale, e di certo non aiutano a essere dei buoni genitori. Trovare delle soluzioni, però, non è semplice. Nella sfera privata può aiutare chiedere esplicitamente aiuto a chi ci circonda, sentendo gli amici quando si ha bisogno di svago e sfogo, ma anche sforzarsi di trovare nuove soluzioni abitative e attività per famiglie da fare in compagnia – anche se i baby happy hour continuano a lasciarmi scettica.
Le vere carenze, tuttavia, riguardano la sfera istituzionale che, come avviene in alcuni paesi d’Europa, avrebbe il potere di mettere in atto dei provvedimenti volti ad alleggerire le vite dei neo genitori. Uno di questi, il più basilare, potrebbe essere dilatare il periodo del congedo di paternità per dividere le responsabilità in modo equo fin dall’inizio. Un maggiore accesso a servizi fondamentali come i nidi pubblici e un generale costo-opportunità – costo dei servizi per l’infanzia rispetto a quello delle retribuzioni – potrebbe invece facilitare un rientro meno stressante lavoro, permettendo alle famiglie di rivolgersi con serenità anche a una babysitter alla bisogna, senza dover sacrificare un parte importante del proprio stipendio. Infine, molto dello stress e della solitudine legati al lavoro di cura familiare hanno a che fare con i modi di vita in senso sistemico. In Francia, per esempio, un elemento significativo di supporto alla genitorialità è la settimana lavorativa da 35 ore, nata per affrontare la disoccupazione ma anche per migliorare l’equilibrio tra lavoro e famiglia.
I governi italiani, tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, hanno avuto atteggiamenti sempre più ipocriti e schizofrenici nel sostegno alla genitorialità. In particolare, quello attualmente in carica da un lato invita le famiglie ad allargarsi in nome della Patria e vagheggia la messa in atto di politiche ad hoc; dall’altro, nel concreto, offre una completa mancanza di politiche efficaci – sostegno strutturato post-parto, congedo di paternità in linea con altri paesi europei, nidi pubblici accessibili a tutti – lasciando quei pochi italiani che scelgono ancora di avere figli completamente in balìa di se stessi.